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Etichetta discografica: 4AD

Nobody Loves You More

Situazione: sono le 8:00 del mattino, vedo dalla finestra la mia macchina coperta di ghiaccio, il termometro sul terrazzo segna un solo grado e constato che è iniziato l’inverno. Con la mia tazza di tè fumante, maldestro tentativo di assomigliare ad uno di quei giornalisti che si vedono nei film (lo sanno tutti che loro bevono il caffè), accendo il riscaldamento e mi accomodo accanto al termo pronto a recensire Nobody Loves You More di Kim Deal, in uscita per 4AD. Il mio cuore è in subbuglio. La 4AD è l’etichetta, rigorosamente e orgogliosamente underground, di cui vedo il logo (poi scopiazzato dall’altrettanto underground Sub Pop di Seattle) sul retro di tutti i dischi di Pixies, The National e Mark Lanegan che ho in camera ed è per me un grande onore (e una grande emozione) trovarmi a stretto contatto con un così importante pezzo di storia, musicale e personale. 

Concluso l’inutile prologo descrittivo di cui sopra, mi vedo costretto ad aprire una parentesi sulla copertina di questo album che introduce il tema che, a mio avviso, attraversa tutti e undici i brani: la necessità di un nuovo inizio. L’ex bassista dei Pixies, alla prima prova da solista, viene raffigurata in una posa alla Ian Anderson, in compagnia di un fenicottero, a bordo di una zattera, circondata da qualche amplificatore e da una chitarra mentre veleggia controcorrente lasciandosi alle spalle un mare di nebbia e tenebre. Un mare che è metafora di un passato remoto burrascoso, segnato dai suoi problemi di tossicodipendenza, e di un passato recente doloroso a causa della morte di entrambi i genitori, che Kim prova a superare grazie alla musica. La musica che diventa valvola di sfogo, un antidoto alla sofferenza o, come direbbero i Verdena, un modo semplice per uscirne.

Risulta subito evidente, dunque, che questo disco non nasce per caso ma da un’urgenza emotiva come conferma il primo brano, proprio Nobody Loves You More, in cui Kim Deal canta “I need to tell you / nobody loves you more”; ha qualcosa da dire ed è questo non trascurabile particolare a distinguerla da molti artisti contemporanei. Musicalmente parlando, la title track è abbastanza anomala nella più che trentennale discografia di Kim: è una canzone swingata, quasi da musical, sorretta da un sofisticato arrangiamento orchestrale che sembra essere stata scritta da Leonard Cohen per Edith Piaf e che ci sbatte immediatamente in faccia l’ipnotica voce da sirena dell’ex Pixies (e Breeders!). Un’eleganza inedita per una che ha abituato tutti a salire sul palco con una maglietta casual infilata dentro ai jeans lisi. 

Le novità e i cambi d’abito continuano con le successive Coast e Crystal Breath. La prima fa ballare a ritmo di ska e viene colorata dagli instancabili fiati oltre che da una marcetta e da un assolo che rappresentano un chiaro riferimento ai Beatles. La seconda è un bizzarro esperimento dance: la batteria elettronica è martellante e distortissima, il basso è impregnato di fuzz e la chitarra s’inserisce con schegge funkeggianti. Su questo vorticoso pastiche, Kim appoggia cori leggeri e sebbene ad un primo ascolto la canzone non mi avesse convinto, devo dire che è davvero trascinante. 

Dopo questo intermezzo spensierato, torna il tormento interiore con la meravigliosa e terzinata Are You Mine (titolo in cui è sottinteso un punto di domanda); un valzer a metà strada tra Elvis e i Mazzy Star in cui Kim racconta un amore incerto, di quelli che lasciano sentimenti irrisolti, e chiede “are you mine?” quasi senza speranza, come se sapesse già che la risposta sarà negativa. D’altronde sono i rifiuti a fare scrivere le belle canzoni. A questo punto, arriva uno dei capitoli più riusciti del disco, la bellissima Disobedience, che suscita sensazioni diverse da quelle provate fino ad ora. È un pezzo punk, liberatorio, che potrebbe essere uscito da Last Splash e che ci restituisce due cose di cui avevamo bisogno e che ci sono state negate nelle prime tracce di questo disco: il rock indipendente degli anni ’90 e il classico suono del basso di Kim Deal. Questo è il momento in cui Nobody Loves You More cambia volto. 

Ad eccezione di Summerland infatti, un’altra ballata che potrebbe essere la colonna sonora perfetta per una di quelle scene in cui i due protagonisti innamorati fanno insieme mille cose romanticamente, la seconda metà dell’album è molto più alternative della prima. Wish I Was è una sorta di versione moderna di Pale Blue Eyes mentre la rumorosa e cacofonica Big Ben Beat esibisce i suoni più aggressivi e abrasivi di questo lavoro arrivando a sfiorare il concetto di hardcore punk. Dopodiché, e dopo un pacato interludio utile a riprendersi, cioè Bats In The Afternoon, il gran finale. Come Running ci fa sentire a casa con la classica formula piano-forte che tanta fortuna ha portato ai Pixies (e non solo direi) e con l’inconfondibile voce soave di Kim che crea un’atmosfera dolce e fa scivolare in un sogno pieno di riverberi e malinconia dal quale non si esce quando parte la successiva A Good Time Pushed, assolutamente fantastica e impossibile da togliersi dalla testa (sul serio). Il basso è il protagonista delle strofe, le chitarre sembrano quelle di Joey Santiago e i cori del ritornello impreziosiscono una canzone che purtroppo dura troppo poco e che nonostante questo dimostra che, nel mare dello shoegaze e delle settime maggiori, Kim Deal resta unica. 

P.S.: La maggior parte del disco è stata registrata da Steve Albini, un altro pezzo di storia.

First Two Pages Of Frankenstein

Avviso per i più sensibili: anche questo disco ti spaccherà il cuore, cosa quasi scontata per i fan de The National ma, se ti stai approcciando per la prima volta a questa band alt rock di Cincinnati naturalizzata Brooklyn, mi sembra doveroso avvertirti.
Bene, ora che hai preparato i fazzolettini, possiamo cominciare.

Esce oggi l’attesissimo ultimo disco de The National, colmo come sempre di feat di una certa importanza, per la celeberrima etichetta 4AD. 

Attesissimo perché il cantante Matt Berninger ha affermato in un’intervista che la band stava avendo diversi problemi: “una fase molto buia in cui non riuscivo a trovare testi o melodie e quel periodo è durato più di un anno. Anche se siamo sempre stati ansiosi e abbiamo litigato spesso durante la lavorazione di un disco, questa è stata la prima volta in cui ci è sembrato che le cose fossero davvero arrivate alla fine”.
Ma, fortunatamente, The National sono stati sempre dei maestri nel saper estrapolare la bellezza anche nella sofferenza e nel dolore, e quindi “siamo riusciti a tornare insieme e ad affrontare tutto da un’angolazione diversa, e grazie a questo siamo arrivati a quella che sembra una nuova era per la band”, afferma il chitarrista/pianista Bryce Dessner.
Il disco inizia con una ballata al pianoforte semplice e romantica, Once Upon a Poolside, che parla della paura di perdersi, emozioni amplificate anche dalla presenza di Sufjan Stevens. Altra canzone da dedicare al proprio partner è sicuramente New Order T-Shirt, singolo che anticipava il disco, con un testo ricco di nostalgia e piccoli dettagli che solo chi è veramente innamorato nota dell’altro. Inoltre, questo singolo, ha portato anche ad una collaborazione con i suddetti New Order per vendere magliette limited edition omaggianti la band di Manchester e donare il ricavato in beneficenza.
Il vero scossone, però, l’ho avuto all’ascolto di Your Mind is Not Your Friend, composta assieme alla cantautrice e chitarrista Phoebe Bridgers, dove attraverso dolci note di piano si parla della paura di affrontare i lati più oscuri della propria mente a causa delle malattie mentali. Altra firma inconfondibile stile National l’abbiamo nel brano The Alcott, caratterizzato da melodie di archi e piano molto scarne e testi introspettivi e quasi brutalmente struggenti. Scritto in collaborazione con la regina dell’Indie Folk Taylor Swift, lei e Berninger interpretano il ruolo di una coppia che cerca in tutti i modi di far rinascere il proprio rapporto ormai finito, ma che nell’ultima strofa sembra aver trovato una nuova luce: “I tell you that I think I’m falling back in love with you”. Dopo esserci disidratati a suon di lacrime, fortunatamente il disco si conclude con un brano positivo e colmo di speranze. Send for Me è caratterizzata da una melodia più strutturata e ritmata, e dalla certezza che c’è sempre qualcuno pronto per te a raggiungerti nel momento del bisogno.

Strazianti ma necessari, The National sono come quel pianto liberatorio che fai a fine di una dura giornata, quello che ti aiuta a superare le ansie e ti dona la carica necessaria per affrontare qualsiasi avversità. Questo nono disco, conferma le enormi capacità introspettive e catartiche della band attraverso melodie semplici che permettono al testo di farla da padrone. Insomma, i Nick Cave americani. E nonostante le due decadi di carriera, la loro capacità di emozionare rimane invariata, anzi ancora più profonda ed viscerale, senza mai diventare ripetitiva.

Alessandra D’aloise