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Kim Deal

Nobody Loves You More

4AD
22 Novembre 2024
di Gianluca Maggi

Situazione: sono le 8:00 del mattino, vedo dalla finestra la mia macchina coperta di ghiaccio, il termometro sul terrazzo segna un solo grado e constato che è iniziato l’inverno. Con la mia tazza di tè fumante, maldestro tentativo di assomigliare ad uno di quei giornalisti che si vedono nei film (lo sanno tutti che loro bevono il caffè), accendo il riscaldamento e mi accomodo accanto al termo pronto a recensire Nobody Loves You More di Kim Deal, in uscita per 4AD. Il mio cuore è in subbuglio. La 4AD è l’etichetta, rigorosamente e orgogliosamente underground, di cui vedo il logo (poi scopiazzato dall’altrettanto underground Sub Pop di Seattle) sul retro di tutti i dischi di Pixies, The National e Mark Lanegan che ho in camera ed è per me un grande onore (e una grande emozione) trovarmi a stretto contatto con un così importante pezzo di storia, musicale e personale. 

Concluso l’inutile prologo descrittivo di cui sopra, mi vedo costretto ad aprire una parentesi sulla copertina di questo album che introduce il tema che, a mio avviso, attraversa tutti e undici i brani: la necessità di un nuovo inizio. L’ex bassista dei Pixies, alla prima prova da solista, viene raffigurata in una posa alla Ian Anderson, in compagnia di un fenicottero, a bordo di una zattera, circondata da qualche amplificatore e da una chitarra mentre veleggia controcorrente lasciandosi alle spalle un mare di nebbia e tenebre. Un mare che è metafora di un passato remoto burrascoso, segnato dai suoi problemi di tossicodipendenza, e di un passato recente doloroso a causa della morte di entrambi i genitori, che Kim prova a superare grazie alla musica. La musica che diventa valvola di sfogo, un antidoto alla sofferenza o, come direbbero i Verdena, un modo semplice per uscirne.

Risulta subito evidente, dunque, che questo disco non nasce per caso ma da un’urgenza emotiva come conferma il primo brano, proprio Nobody Loves You More, in cui Kim Deal canta “I need to tell you / nobody loves you more”; ha qualcosa da dire ed è questo non trascurabile particolare a distinguerla da molti artisti contemporanei. Musicalmente parlando, la title track è abbastanza anomala nella più che trentennale discografia di Kim: è una canzone swingata, quasi da musical, sorretta da un sofisticato arrangiamento orchestrale che sembra essere stata scritta da Leonard Cohen per Edith Piaf e che ci sbatte immediatamente in faccia l’ipnotica voce da sirena dell’ex Pixies (e Breeders!). Un’eleganza inedita per una che ha abituato tutti a salire sul palco con una maglietta casual infilata dentro ai jeans lisi. 

Le novità e i cambi d’abito continuano con le successive Coast e Crystal Breath. La prima fa ballare a ritmo di ska e viene colorata dagli instancabili fiati oltre che da una marcetta e da un assolo che rappresentano un chiaro riferimento ai Beatles. La seconda è un bizzarro esperimento dance: la batteria elettronica è martellante e distortissima, il basso è impregnato di fuzz e la chitarra s’inserisce con schegge funkeggianti. Su questo vorticoso pastiche, Kim appoggia cori leggeri e sebbene ad un primo ascolto la canzone non mi avesse convinto, devo dire che è davvero trascinante. 

Dopo questo intermezzo spensierato, torna il tormento interiore con la meravigliosa e terzinata Are You Mine (titolo in cui è sottinteso un punto di domanda); un valzer a metà strada tra Elvis e i Mazzy Star in cui Kim racconta un amore incerto, di quelli che lasciano sentimenti irrisolti, e chiede “are you mine?” quasi senza speranza, come se sapesse già che la risposta sarà negativa. D’altronde sono i rifiuti a fare scrivere le belle canzoni. A questo punto, arriva uno dei capitoli più riusciti del disco, la bellissima Disobedience, che suscita sensazioni diverse da quelle provate fino ad ora. È un pezzo punk, liberatorio, che potrebbe essere uscito da Last Splash e che ci restituisce due cose di cui avevamo bisogno e che ci sono state negate nelle prime tracce di questo disco: il rock indipendente degli anni ’90 e il classico suono del basso di Kim Deal. Questo è il momento in cui Nobody Loves You More cambia volto. 

Ad eccezione di Summerland infatti, un’altra ballata che potrebbe essere la colonna sonora perfetta per una di quelle scene in cui i due protagonisti innamorati fanno insieme mille cose romanticamente, la seconda metà dell’album è molto più alternative della prima. Wish I Was è una sorta di versione moderna di Pale Blue Eyes mentre la rumorosa e cacofonica Big Ben Beat esibisce i suoni più aggressivi e abrasivi di questo lavoro arrivando a sfiorare il concetto di hardcore punk. Dopodiché, e dopo un pacato interludio utile a riprendersi, cioè Bats In The Afternoon, il gran finale. Come Running ci fa sentire a casa con la classica formula piano-forte che tanta fortuna ha portato ai Pixies (e non solo direi) e con l’inconfondibile voce soave di Kim che crea un’atmosfera dolce e fa scivolare in un sogno pieno di riverberi e malinconia dal quale non si esce quando parte la successiva A Good Time Pushed, assolutamente fantastica e impossibile da togliersi dalla testa (sul serio). Il basso è il protagonista delle strofe, le chitarre sembrano quelle di Joey Santiago e i cori del ritornello impreziosiscono una canzone che purtroppo dura troppo poco e che nonostante questo dimostra che, nel mare dello shoegaze e delle settime maggiori, Kim Deal resta unica. 

P.S.: La maggior parte del disco è stata registrata da Steve Albini, un altro pezzo di storia.