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Etichetta discografica: Jagjaguwar

SABLE, fABLE

I Bon Iver ritornano. Ma come tornano?

Sono passati quasi vent’anni da quando Justin Vernon si è chiuso nel capanno da caccia del padre nel freddo Wisconsin, con il cuore spezzato, per autoprodurre un album malinconico, dolcissimo e perfetto come For Emma, Forever Ago (2008).

Dopodichè il moniker Bon Iver diventò la definizione di un sentimento, di una vibe, di una ricetta che personalmente ancora rispetto alla lettera: i Bon Iver si ascoltano soprattutto in autunno e in inverno, preferibilmente con ferite da sanare. Il caldo anelito della voce di Vernon deve avvolgere e sciogliere i ghiacci dell’anima, come un bivacco gentile. 

Ad oggi è doveroso osservare che il folk intimista delle origini non è rimasto immutato (giustamente): l’indie pop si è fuso con il soul e con l’elettronica, esercizi di stile, collaborazioni scintillanti con Kanye West, Taylor Swift o James Blake. A tratti è parso che il collettivo virasse in maniera decisa verso un mainstream marcato, altre volte che desse priorità alla ricerca, al puro gusto di sperimentare, senza sottintendere un chiaro disegno alla base del proprio operato, come nel caso di i,i (2019), forse il loro album meno compreso.

In questo senso, SABLE, fABLE si inserisce come prodotto risolutivo delle tendenze che hanno caratterizzato la discografia pregressa. L’album esordisce con i tre brani usciti nell’EP pubblicato ad ottobre 2024, SABLE, ovvero THINGS BEHIND THINGS BEHIND THINGS, S P E Y S I D E e AWARDS SEASON. Costituiscono un prologo, una prima stagione in cui il dolore viene elaborato, digerito, con i toni nostalgici, crepuscolari che tipicamente associamo ai Bon Iver.
In AWARDS SEASON, che si può considerare una sorta di manifesto dell’album, la voce rimane l’unico elemento sonoro in un corridoio pressoché silenzioso, in cui di tanto in tanto fa capolino un pianoforte, l’eco di una chitarra lontana, un coro che armonizza poche frasi e un sax che lascia spazio alla coda finale a cappella. Qui Vernon afferma: “But I’m a sable and honey, us the fable”, comunicandoci e anticipandoci uno dei temi dell’album, ossia il confronto con un partner, l’intenzione di completarsi, superando gli ostacoli del quotidiano.
Con Short Story sentiamo il vento cambiare direzione, sta sbocciando fABLE, (anche questa vede la produzione di Jim-E Stack): si passa dal minore al maggiore, compare una voce femminile che già introduce il tema dello sdoppiamento, si passa da uno a due. In Everything Is Peaceful Love, primo singolo pubblicato a San Valentino, Vernon non canta l’amore come una vertigine, ma come una condizione di quiete e di scelta quotidiana. Una delle tinte stilistiche più forti è data dal soul che inonda questa produzione come forse mai prima d’ora, in particolare nel trittico Everything Is Peaceful Love, Walk Home e I’ll Be There: ifraseggi in falsetto di Vernon abbracciano i cori dal calore quasi gospel, sostenuti da impalcature di synth, tastiere effettate, pedal steel e percussioni elettroniche. Esce leggermente dalla categoria From, che nel chorus ci riporta al pop anni ’90. 

È però in If Only I Could Wait, il duetto con Danielle Haim, scritto durante una reclusione creativa agli April Base, che si tocca uno dei vertici emotivi dell’album. Le due voci si rincorrono e si aprono a spiraglio su una confessione comune: non sempre riusciamo a essere la versione migliore di noi stessi. Vernon non giudica, non idealizza: osserva. Anche qui anziché frammentare la voce con distorsioni e manipolazioni sonore, come nei lavori precedenti, la espone nella sua nuda fragilità. 

È con questa nuova prospettiva, questa fragile luce, che si giunge alle tracce finali. There’s A Rhythmn è la traccia più lunga dell’album, 5:16, dopo AWARDS SEASON, 5:17, e definisce questo procedere con passo misurato, gentile, nei giorni, nelle settimane e nelle vite degli altri. Una melodia che si ripete come una regola. L’outro strumentale, sospeso e incantevole, di Au Revoir sembra avere proprio lo scopo di abitarla questa regola.

Non siamo più nei boschi innevati del Wisconsin, né nel caos numerologico di 22, A Million (2016). Siamo in una casa costruita a due, forse ancora in bilico, ma abitata. Ogni canzone è una stanza che si può attraversare con passo lento, magari tenendo la mano di qualcuno. Vernon firma così un album che è tanto un congedo quanto un nuovo inizio e, come ogni favola che si rispetti, lascia addosso una strana speranza: che il dolore possa diventare memoria, e la memoria sia la traccia che conduce in un bel posto.

Red Mile

Definire i Crack Cloud semplicemente un gruppo musicale, mi sembra alquanto riduttivo. Non solo perché la lista dei componenti sia attuali, che passati, che collaborativi, supera le venti persone; ma anche perché non si occupano solo di musica, ma sono un vero e proprio collettivo artistico a tutto tondo. Se pensi poi, che si sono trovati a maneggiare e produrre arte per aiutarsi a vicenda ad uscire dal mondo delle droghe e delle dipendenze, i testi prendono tutta una consapevolezza diversa.
Questo terzo disco chiamato Red Mile sembra sia anche il più maturo. Nel comunicato stampa viene definito “sia un tributo che un ritorno a casa”: dopo anni di peregrinazioni, infatti, i membri del gruppo sono tornati a Calgary, Canada, alla lunga distesa di terra conosciuta colloquialmente come la red mile. Ma cosa significa casa dopo un decennio di crescita sia personale che collettiva? Per Crack Cloud, questa è la domanda che viene esplorata in lungo e largo in questo album. Anche qui, rinchiuderli in un determinato genere è riduttivo, ogni brano è una continua sorpresa. Non mancano splendide sezioni di archi, chitarre psichedeliche, esplosioni di sax, cori e venature punk. 

Ad esempio The Medium inizia con un testo incisivo e tagliente tipico del punk, addolcito successivamente dalla strofa intonata dalla voce soave ed onirica di Emma Acs, che sfocia quasi nel dream pop. Allo stesso modo il singolo che preannunciava l’album, Blue Kite, inizia con una batteria ritmata e giri di basso aggressivi per poi finire con una sezione di archi soffice e leggera. Con Lack of Lack, invece, si cambia ancora genere: un intro lungo e psichedelico, con una chitarra caledoiscopica e dai toni arabeggianti. La mia preferita però rimane I am (I was) che invece è una classica canzone art rock, con i coretti che ricordano un po’ i Talking Heads e un ritornello che ti rimane in testa. 

Attraverso melodie giocose e soliloqui di chitarra, i Crack Cloud consegnano un disco di eccezionale profondità e calore. Gran parte dell’angoscia che conferiva ai loro primi lavori un’urgenza caustica è svanita, sostituita da un’introspezione sincera ma inesorabile. Gli otto brani contemplano ostacoli fisici e psichici, l’esperienza di crescere fuori dal caos, adattarsi a nuove e strane speranze e fare pace con la propria mitologia di gruppo. I testi sono taglienti ma misericordiosi, con una consapevolezza acuta ma senza mai compiacersi o commiserarsi.

Rimangono per me uno dei gruppi più peculiari che conosco, in grado di mescolare diversi generi in modo unico e impareggiabile. Quando premo play su un loro nuovo singolo so dove inizio ma non so mai dove andrò a finire, un viaggio inaspettato e davvero coinvolgente.

Keep Me on Your Mind/See You Free

Il sole caldo del tramonto penetra insolente dalle grandi finestre situate all’entrata.

L’aria è carica di chiacchiere, l’odore di cibo si appiccica ai vestiti e le pinte di birra si svuotano velocemente per dissetare le gole arse dei clienti. 

Il pub è colmo di chincaglierie che ripercorrono varie epoche, l’atmosfera rilassata e intima del locale regala l’opportunità di sentirsi a casa anche ai turisti provenienti da lontano.

Qui, al pub Levis Corner House, di Cork, c’è un vecchio pianoforte verticale, e quadri disseminati sulle pareti che sembrano vegliare sulle confidenze e le risate degli astanti.

Il posto perfetto per incidere un album indie/folk. 

Ed è qui infatti che i Bonny Light Horseman decidono di registrare il loro terzo lavoro Keep Me On Your Mind/See You Free, un doppio album complessivo di venti brani, registrato appunto in questo clima distensivo e casalingo, usando quel meraviglioso piano verticale e strumenti trovati qua e là nel locale.

Il trio è l’incarnazione dell’ideale indie/folk, e ne consegue che questo disco sia l’emblema di questo genere musicale, che va oltre la musica in sé, ma si fonde con le personalità e l’emotività dei componenti del gruppo. 

La voce delicata, quasi fanciullesca di Anaïs Mitchell che si fonde con la semplicità della voce di Eric D. Johnson (cantante, compositore, polistrumentista e leader dei Fruit Bats, e in passato membro de The Shins) e il talento dell’eccentrico Josh Kaufman (polistrumentista, cantautore, produttore, compositore e arrangiatore) che da bravo burattinaio muove i fili, rendendo unica la composizione e l’esecuzione dei brani.

L’album si apre con Keep Me On Your Mind, preghiera disperata contro la paura di venire dimenticati da qualcuno che ha significato molto.

Il loro primo singolo è When I Was Younger, una ballad in pieno stile indie, coinvolgente e a tratti euforica, che rappresenta musicalmente l’evoluzione dell’amore, dall’età adolescenziale a quella adulta, la malinconia del lasciar andare la vita smodata e leggera per qualcosa di più concreto e reale. E di come i sentimenti si modificano durante il processo, senza perdere vigore, ma anzi rafforzandosi con l’avvento della consapevolezza. Il videoclip è girato nel pub in cui è stato scritto l’album, e ne racchiude in pieno l’anima.

I Know You Know, il secondo singolo, è una dedica all’amore vissuto e perduto, un sentimento così forte e coinvolgente che offusca la mente, perché, come canta Eric nella sua fragilità “Love is rare, love is wild and hard to find, ci insegna a saper lasciare andare quando è il momento.

Il brano più folk contenuto nell’album è Hare and Hound, un rincorrersi di mandolini ed emozioni come una lepre da un segugio.
Un’aura di malinconia aleggia in Speak To The Muse, dove la voce di ingenua e pura di Anaïs comunica tutta la sua afflizione per la perdita di un’amore.

Your Arms (All the Time) è l’abbraccio rincuorante e la sensazione di essere nel posto giusto al momento giusto. Scrutare occhi sinceri e avvolgenti, sentirsi a casa nelle braccia di qualcuno. 

L’ultimo brano See You Free, è una accorata liberazione dalle catene di un’amore che non crea più magia ma solo disperazione.

Un doppio album saturo di emotività, dove il trio esprime il tortuoso viaggio della vita: il trauma della crescita, il dolore della perdita, intricato gioco dell’amore, la speranza per il futuro e l’importanza di sentirsi una comunità.

L’intimità di questo disco è smisurata, riescono a farci sentire parte integrante della “famiglia”, e soprattutto, chiudendo gli occhi, si sente il calore del pub, l’odore dell’olio usato per lubrificare il pianoforte verticale e la serenità nell’accettare che la vita è cambiamento, crescita, e sofferenza.

Sanno come rendere perfetto qualcosa facendo leva proprio sulle imperfezioni.