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Etichetta discografica: XL Recordings

Cutouts


A pochi mesi di distanza dall’uscita di Wall of EyesThe Smile pubblicano un nuovo album, Cutouts, il terzo in due anni, il secondo del 2024. 
Oppure.
Dopo 252 giorni The Smile pubblicano un nuovo album: Cutouts. Sarà la prima band della storia ad avere due dischi nella top 5 degli album usciti in un anno bisestile. 
E ancora. 
Il vizietto. Storia di due amici che a distanza di ventitré anni si divertono a pubblicare due album a distanza di dieci mesi. 
Eh sì, perché Tom Yorke e Jonny Greenwood lo avevano già fatto, nel 2001, quando a poca distanza dall’uscita di Kid A pubblicarono Amnesiac. Le modalità sono simili, ma a noi piacciono le differenze. 
La dualità degli album di inizio millennio ha prodotto qualche quintale di letteratura, nonché letture magico/filologiche/eziologiche per giustificare la brevissima distanza di pubblicazione e per impedire che Amnesiac passasse davvero alla storia come un Kid B. La sua “autonomia artistica” è stata più volte spiegata dai Radiohead perché è una parte della discografia di una delle più importanti, influenti e cangianti band della storia della musica.
Cutouts è stato registrato nelle stesse sessioni del disco precedente, tra Oxford e gli studi di Abbey Road, e probabilmente, come il titolo stesso suggerisce, qualche post-it è caduto dal banco mixer accorciando la tracklist di Wall of Eyes, ma non è l’unica spiegazione.
Cutouts non è fatto di “ritagli”. Non è così semplice. 
Alcuni brani, come ad esempio Tiptoe, sono antichi come la genesi stessa de The Smile, ne abbiamo tracce risalenti al 2022, mentre il riff di Zero Sumarriva da un lontano tour dei Radiohead, anno domini 2016. Ma è Bodies Laughing a detenere il record di anzianità: la traccia che chiude Cutouts risale al 2005. 
In generale le canzoni del disco hanno echi lontani, alcuni lontanissimi, anche se non sempre identificabili al primo ascolto. Le strutture dei brani sono complesse, ma ogni tanto uno scorcio di The Bends compare tra un violoncello e un synth. 
E, soprattutto, Cutouts è figlio del porto franco noto come The Smile.

Il progetto di Tom Yorke, Jonny Greenwood e Tom Skinner gode di una assoluta libertà, figlia dell’assenza del marchio Radiohead. 
In ogni lavoro de The Smile c’è amore e gusto per la sperimentazione e l’esplorazione, lasciando alla band-madre l’onere del nome e della coerenza. Non è una terra di nessuno, è piuttosto un approccio più libero alla materia. Qualunque cosa non abbia posto o senso in un album dei Radiohead può vivere felice nelle tracklist camaleontiche e trasformiste de The Smile. 
Insomma, se i primi sono una tela per un dipinto a olio, i secondi sono un taccuino da viaggio su cui lasciare schizzi e prove, se poi questi porteranno a piccoli capolavori, sarà solo il tempo a dirlo. 

La curiosità allora si può spostare sul confronto con il disco precedente, e cercare di capire perché non abbiamo avuto un clamoroso (e anacronistico) doppio album invernale. Wall of Eyes aveva una coerenza interna, di testi, di melodie, di intenti. Era un disco con un paio di piccoli capolavori, picchi e qualche caduta. Cutouts è un piccolo caos. È un disco adolescente, cupo e arioso, che può sembrare noioso in alcune parti, ma che sa riprendersi le attenzioni che merita con una sterzata improvvisa, anche nello stesso brano. Completamente privo di coerenza interna, è un pastiche di stili e generi, figlio di uno slancio di esplorazione entusiasta e deresponsabilizzata. Quando tre musicisti incredibili perdono i freni inibitori e l’ombra dei Radiohead si fa lontana, si potrà vedere financo Yorke sorridere durante l’esecuzione live dei loro pezzi. 
Il disco apre con Foreign Spies e porta subito in campo synth e orchestre e un tempo lento e dilatato. Così come la seconda traccia, Instant Psalm, costruita su di un loop ipnotico, quasi reverse, con archi a portare aria e respiro. Ma è un inizio traditore e mendace: il disco è dedito agli uptempo e in questa dimensione dà il meglio di sé. La terza canzone, Zero Sum è frenetica, con un Greenwood che vola sulla chitarra in un dialogo tutto interiore con la melodia, sarà la cosa più funky che sentirete da The Smile, ottoni compresi nel prezzo. 
Colours Fly sposta i nostri in un flusso nuovamente prog/orientale, tra echi e chitarre dervisce quasi in trance. Quattro tracce, quattro esperienze musicali diverse. 
Eyes & Mouth è un climax di riff che profuma di jazz e prog rock, ma con un Yorke lasciato a briglia sciolta sulle melodie. È un insieme sulla carta disarmonico che invece trova una sua ragione e una sua naturale eleganza. Altissima e naturale eleganza.
E ancora incoerenza e sperimentazione in Tiptoe, lenta e solenne, in The Slip, che sembra uscita da Bristol nel ’98 e che invece porta in seno un riff goloso e percussioni da cumbia, fino a No Words dove troviamo un Greenwood perso su(lle) scale in stretto dialogo con una cassa quasi dritta di Skinner. 
La sensazione, a fine ascolto, è di aver assistito a uno spettacolo fatto per divertire e stupire, una wunderkammer de The Smile, un compendio al disco precedente in cui si raccontano nuovi confini musicali. O forse un nuovo e più ampio approccio alla materia-musica. 
Considerando che prima dell’uscita di Cutouts i tre hanno lavorato a diversi progetti, tra cui colonne sonore e tour solisti, mi aspetto che non finisca qui la vena creativa e soprattutto spero che la libertà toccata con questo disco sia la chiave per i lavori futuri. 

Romance

Walter Mitty: When are you going to take it?

Sean O’Connell: Sometimes I don’t. If I like a moment, for me, personally, I don’t like to have the distraction of the camera. I just want to stay in it.

Walter Mitty: Stay in it?

Sean O’Connell: Yeah. Right there. Right here.

Iniziare un tema con una citazione o, peggio ancora, con una definizione del dizionario, significava far storcere la bocca alla mia amatissima professoressa del liceo. Ancora adesso provo vergogna, ma voglio essere onesto fino in fondo nel parlare dell’ultima fatica dei Fontaines D.C.Romance. Per buona parte dei primi ascolti, oltre a qualche decina di pagine di appunti, impressioni e spunti, mi è tornata alla mente la sopracitata scena del film The Secret Life of Walter Mitty, di cui non parlerò oltre, ma che descrive perfettamente cosa sia questo disco e dove desideri stare io, ascoltatore. 
Quindi, primo pensiero. Questo album è un luogo. È uno di quei rari dischi che possiedono un’architettura, che diventano un ambiente sonoro, un posto in cui si desidera ritornare a contemplare scorci e vedute. 
Vanno “visitati”, vissuti, a volte senza l’ansia di doverne parlare, senza il compito di metterli a fuoco. 
Starci dentro, Right there. Right here.

Che questo disco abbia un’anima “visiva” lo ha dichiarato lo stesso cantante, Grian Chatten. Parlando del titolo e dei riferimenti culturali che stanno alla base della loro ultima fatica, viene spesso citato Akira di Otomo, come esempio di opera in cui i sentimenti resistono anche alle apocalissi. 
E cita anche la Grande Bellezza di Sorrentino, toccando il tema dell’incapacità di provare sentimenti o empatia, poi descritta in modo plastico nel pezzo In The Modern World, quando viene enunciato senza vergogna alcuna che “I don’t feel anything / In the modern world / And I don’t feel bad”. 
Curioso il fatto che si parta da un problema di anestesia emotiva per un disco che ha come titolo Romance
Sempre Chatten ci racconta che proprio In The Modern World è stato il pezzo che ha dato il colore al nuovo lavoro.
Cito (e poi la smetto) direttamente dall’intervista:

“Now I know where we’re going. I know the colour and the year and the atmosphere and the temperature of this city that we’re soundtracking.”

È quindi programmatico, abbiamo una colonna sonora per le mani. 
Il disco ha incominciato a prendere forma durante il tour in nord America. È un’opera figlia di un flusso di contributi e contaminazioni, alcuni pezzi sono direttamente influenzati dai gruppi incontrati durante il cammino, altri sono eredità del passato. I Fontaines hanno raccontato che non c’è stato un momento di scrittura: il tutto è avvenuto in modo continuo e naturale. Alla fine del tour ogni membro ha preso un momento di pausa, in giro per il mondo, Chatten a Los Angeles, altri tra Spagna e Francia.
I nostri si sono poi ritrovati a nord di Londra per tre settimane di full immersion pre-produzione e poi in un castello nei pressi di Parigi, dove hanno iniziato a provare sotto l’ala protettiva di James Ford

Cosa è successo dunque in quella sala di registrazione? Esiste un filo che unisce Dogrel a Romance, passando per tutti e quattro gli album dei Fontaines? La mia risposta è no. Non ho nelle cuffie da giorni un nuovo Skinty Fia, o una sua evoluzione. Ho una versione matura, consapevole e adulta di una band già fenomenale nella sua versione adolescenziale.
Prendete i Fontaines e immaginate un loro un album che spazi dallo shoegaze al Seattle Sound, che citi gli Oasis e i Depeche Mode, osate nell’abuso di archi, cori, crescendo, cercate ancora quella matrice dubliner, anche se in esilio a Londra,giocate nel trovare i riferimenti cinematografici e letterari. Chi, se non loro, possono frullare James JoyceCalderon de la Barca e i Beach Boys?
Così vi esploderanno nelle orecchie fin dalla prima canzone, Romance, che ha il pregio di illudere e non far rimpiangere quella clamorosa opening track che fu In ár gCroíthe go deo in Skinty Fia
Segue Starbuster, racconto di un attacco di panico musicato e interpretato alla perfezione. Lentamente i Fontaines lasciano gli ormeggi del loro porto sicuro, sta per iniziare il viaggio. Here’s The Thing e Desire iniziano a esplorare nuovi spazi, il disco lascia la bidimensionalità e io mi sento come un bimbo al cinema, naso all’insù e sguardo ebete. Ipnosi riuscita, sospensione della realtà raggiunta, sono pronto per In The Modern World, canzone-manifesto, ma anche la prova finale che qualcosa è cambiato. Il disco solista di Chatten si sente, sempre di più, sottopelle ma presente, in Romance. Lui stesso lo racconta in un’intervista in cui spiega che le conseguenze sono due: una maggior confidenza con archi e ottoni in fase di arrangiamento e una migliore relazione con la propria voce. Tutto vero, c’è più cantato in Romance che nei tre dischi precedenti.
Poi di colpo è 1995 con Bug, o almeno è dove mi sembra di precipitare. E mi diverto tantissimo, come anche loro, a ben vedere. In Motorcycle Boy faccio fatica a riconoscere i Fontaines, che da questo punto fino a Death Kink giocano con citazioni e generi. Chiude Favourite, che, non so dire perché, sembra ancora più bella alla fine del percorso, nonostante suonasse già benissimo come singolo. 
Ecco. Il primo pensiero che ho a fine ascolto, ogni volta, è che non ricordo l’ultimo album con un numero così alto di potenziali singoli. E il secondo è che, forse per la prima volta, ho l’impressione che i ragazzi si siano divertiti a scrivere senza margini, a disegnare senza far sanguinare il foglio, a raccontare senza ferire (troppo). 
È un miracolo raro che un divertissement di una band poi suoni anche bene.

Di brutto c’è la copertina. Qualcosa si può ancora migliorare. 

Questo è un disco sull’amore alla fine del mondo.
Di come l’amore viene vissuto, raccontato e mostrato. Non è Romantico, è la sua versione distorta che abbiamo deciso di accettare.
Uno Sturm und Drang nato nelle periferie del mondo, in cui possiamo ammirare i cieli di Turner da un oblò di un volo low cost, in cui siamo dei Viandanti sul mare di nebbia, che però, se guardi bene, è lo smog del nord di Londra. 
Ha senso essere romantici nel nostro mondo, alla fine del nostro mondo?  È davvero l’amor che “Move il Sole e l’altre Stelle”? 
Chatten liquida la faccenda così, in Horseness Is The Whatness:

“Will someone / Find out what the word is / That makes the world go round / ‘Cause I thought it was love / But some say / That it has to be choice / I read it in some book / Or an old packet of smokes.”

Lo so, avevo promesso niente più citazioni. Chiedo venia e chiudo.

Avevo aspettative altissime, così come profonda era la paura di una delusione, di un passo falso, di una direzione inaspettata o di un principio di autoreferenzialità. Mi ritrovo alla fine di un viaggio inaspettato, in cui ho visto nuovi colori e nuove atmosfere, come deciso dai Fontaines nel loro continuo e incessante processo di elaborazione del reale. Hanno uno sguardo da poeti, questa era cosa nota. E io continuo a vedere Sean Penn che recita parole di saggezza, che devo farci. Che album incredibile.

Era il 2019.

“My childhood was small / But I’m gonna be big”.

Complimenti, davvero.

Wall of Eyes

Don’t think you know me
Don’t think that I am everything you say…

Cerchi un filo.
Un filo non c’è.
Forse cerchi i Radiohed, ma anche quelli non ci sono. Si sono fermati anni fa, con A Moon Shaped Pool. Poi collaborazioni, featuring, sperimentazioni, colonne sonore, ognuno per la sua strada, ognuno a plasmare nuovi progetti e a giocare con nuovi linguaggi.
La pandemia ci ha poi regalato The Smile, il nuovo progetto di Thom Yorke, Jonny Greenwood e Tom Skinner. I primi due sono i motori primi dei Radiohead, giusto per chi non li conoscesse, mentre il terzo è un percussionista inglese, classe ’80, sospeso tra progetti jazz e il nuovo trio, attirato nel vortice dopo una collaborazione con Greenwood per la colonna sonora del film The Master

Cerchi un filo.
Cerchi una similitudine con il loro primo album, A Light for Attracting Attention, e non la trovi. Trovi invece qualcosa di diverso, di evoluto, di maturato. C’era chi si era illuso, nel sentire quel disco, nel ritrovare qualcosa delle chitarre dei Radiohead. Di quelli primigeni, quasi, di quando Yorke ancora non cercava di coprire il suo afflato melodico come una brutta acne.
E no, un filo non c’è.
A dirla tutta non c’è neanche Nigel Godrich, che per i Nostri ha prodotto (quasi) tutto. Fonti ben informate lo vogliono accanto agli IDLES, che a febbraio dovrebbero far uscire il loro quinto lavoro in studio.
La produzione di Wall of Eyes, questo il titolo dell’album, è stata affidata a Sam Petts-Davies, che ha collaborato con Yorke per la colonna sonora di Suspiria nel 2018. 

Insomma, fili non si trovano.
Però alcune cose sono ben visibili.
Ad esempio, uno spettro si aggira per Wall of Eyes.
A Day in the Life attraversa il secondo lavoro degli Smile, da Friend of a Friend fino all’apoteosi in Bending Hectic, palesandosi, quasi alla fine, sulla mezzanotte del disco, come uno spirito, come un paradigma e un omaggio agli studi dove la band ha registrato l’album.
Ma non sono solo i Beatles a essere evocati. Appena dopo la traccia iniziale, che ci accoglie con una bossa nova sghemba, irrequieta e, soprattutto, inaspettata, si vira verso il prog con Teleharmonic, che sa di subacqueo e di flauti, mentre i King Crimson vengono a galla in Read the Room. Yorke ha aperto il nuovo lavoro brindando a ciò che non meritiamo. E rincara, la seconda alzata di calici è dedicata a ciò di cui non siamo degni. I suoi testi sono criptici, fatti di ellissi e pennellate veloci, un flusso di coscienza senza subordinate.
Under Our Pillows è eterea, cristallina, ed inaugura la presenza di crescendo vorticosi ed orchestrali. Già, l’orchestra. Gli Smile si avvalgono della collaborazione della London Contemporary Orchestra, brigata archi. Sono, di fatto, spariti i fiati del primo album, qui si parla una lingua diversa.
Friend of a Friend è una canzone che profuma di Fab Four, fin dal primo accordo. Siede alla seconda posizione per gradimento, nella mia personale, e non richiesta, classifica interna di Wall of Eyes.
Il disco è caldo, l’attenzione alta, per questo Yorke ci regala un Quasimodo elettrificato, un haiku fatto di riverberi che però sa aprirsi e diventa lirico, una colonna sonora, tutto racchiuso in I Quit.
Il colpo di genio giunge quasi alla fine. Bending Hectic è una suite di otto minuti, una canzone con colpi di scena e una struttura quasi cinematografica. Per una volta un testo che sembra uno storyboard. Tanto che non racconterò la trama, siamo a rischio spoiler. Sia messo a verbale però che siamo davanti a un Tarantino che dirige il sorpasso di Risi, che a sei minuti dall’inizio Yorke attraversa lo specchio e dall’altra parte ci attendono gli anni novanta, e chitarre che grondano colesterolo.
E poi dopo non potrebbe e non dovrebbe esserci molto altro. C’è ancora una You Know Me, che chiude il cerchio dell’incomunicabilità aperto con il brindisi in partenza, e che intimorisce chiunque abbia l’arduo compito di scrivere qualcosa di sensato su questo album.

Non so se possa non piacere.
Ha così tante facce, così innumerevoli scorci che mi sembra un’impresa ardua e pretestuosa dargli un’insufficienza.
È un disco che riconcilia con la musica, che trafigge almeno due generazioni di orecchie, di quelle anche educate e pretenziose, le mette a sedere, in fila e le coccola per otto, lunghissime tracce. A turno, citando, evocando, esplodendo e un’altra dozzina di gerundi a scelta.

Cerchi un filo e un filo non c’è.
Ci sono otto canzoni, otto microcosmi, otto ambienti, otto storie musicali che hanno un corpo denso, come un gran vino. Irrequiete e irregolari, spesso lacerate all’interno e piene di contraddizioni, orchestrali, dispari e traboccanti di armonie.
Un grandissimo disco creato da grandissimi musicisti.