Skip to main content

Location: Bronson (Ravenna)

Steve Wynn @ Bronson

Sabato 12 aprile 2025. Ore 13:46. La biblioteca in cui lavoro è chiusa da una quarantina di minuti e riaprirà fra poco più di un’ora: questo è il tempo che mi resta, dopo aver trangugiato una piadina davanti al computer, per scrivere la recensione del concerto di Steve Wynn (ex cantante e chitarrista dei Dream Syndicate, alfieri di quella ramificazione del punk a forti tinte psichedeliche, nata e più o meno morta negli anni ’80, che risponde al nome di paisley underground) al Bronson di Ravenna, storico e minuscolo club di culto affiliato all’omonima etichetta. Allora, data l’impossibilità di sconfiggere il tempo, abbandono inutili preamboli e riavvolgo il nastro. 

In realtà, non è stato un vero e proprio concerto. O per meglio dire, non è stato soltanto un concerto. Ciò che ha portato sul palco Steve Wynn assomiglia più che altro a una vecchia puntata di quella fortunata rubrica intitolata VH1 Storytellers, in cui gli artisti accostavano ai classici del loro repertorio aneddoti, storie che avevano portato alla scrittura delle canzoni e cose così. Questo è quello che ha fatto, attingendo a piene mani all’autobiografia di recente pubblicazione, Non lo direi se non fosse vero, il leader dei Dream Syndicate: si è confessato, si è raccontato al suo pubblico senza propositi autocelebrativi e con grande sincerità, come indica il titolo del libro. 

Per redigere il suo curriculum, Wynn parte da molto lontano, per la precisione da quando nel 1973, tredicenne, ha suonato con una telecaster dorata Jumpin’ Jack Flash (di cui al Bronson ha solamente ricordato il riff) per poi procedere in ordine cronologico. Arrivano così una canzone blues, la prima da lui composta e fino a questo tour mai proposta dal vivo, Sunday Morning dei Velvet Underground, ovvero il brano che lo ha spinto a diventare un musicista ed al quale segue un meritato omaggio a Lou Reed, che gli ha fatto capire che la musica non deve essere scritta per accontentare tutti, ed in conclusione un pezzo dei Big Star impreziosito da un assurdo e nostalgico resoconto del suo incontro con Alex Chilton. Dopo questo tributo ai suoi numi tutelari, il cantautore viene raggiunto sul palco da Rodrigo D’Erasmo, il John Cale della serata, ma travestito da Brad Pitt, al violino e da Enrico Gabrielli a tutto il resto: armonica, sax, un sax lungo il doppio di un sax normale che sicuramente ha un nome specifico che mi sfugge, flauto traverso e pianoforte. A questo punto inizia il magico viaggio a ritroso nella carriera dei Dream Syndicate. Nota a margine: portare in tour un disco, tra l’altro piuttosto bello (consiglio in particolare l’ascolto di Making good on my promises), come Make it right, uscito lo scorso anno, e suonarne solo una canzone è una scelta inusuale e probabilmente sconveniente sul piano commerciale, ma Steve Wynn non sembra il tipo di persona che fa qualcosa per compiacere qualcuno ed è per questo che lo si apprezza!

La prima tappa sul viale dei ricordi è That’s what you always say, la prima traccia scritta per il primo album (noto una certa coerenza), che Steve butta in lavatrice e tira fuori con un colore nuovo, con uno stile circense che ricorda Tom Waits. Tutte le canzoni, rielaborate per l’occasione, presentano arrangiamenti inediti, un po’ dark e un po’ country, come se fossero storie di cronaca nera ambientate in un piccolo villaggio rurale. L’aspetto più interessante della serata, ad ogni modo, resta il fatto che spesso Wynn coinvolge il pubblico nel suo processo creativo, come quando mostra il modo in cui è nata Tell me when it’s over ossia da un tentativo di plagio di un pezzo punk. La scaletta prosegue con una perfetta alternanza di pezzi dai primi due album e letture dall’autobiografia fino ad arrivare all’apice emotivo dello spettacolo, Merrittville. Le versioni sono intense, cariche di pathos e i pochi strumenti presenti sul palco riescono a riempire l’ambiente, cancellando il mio personale timore che la mancanza della sezione ritmica potesse in qualche modo penalizzare le canzoni e snaturarle. Al contrario, si può dire che l’essenza dei Dream Syndicate sia rimasta intatta grazie alle brillanti improvvisazioni (da sempre marchio di fabbrica della band) del frontman, che gioca con le dinamiche, di Gabrielli che suona stupendi assoli di sax e di D’Erasmo che talvolta pizzica con delicatezza le corde del violino e talaltra ci si avventa violentemente con l’archetto. Boston non manca di colpire, grazie soprattutto al crescendo finale, così come The days of wine and roses che infiamma i presenti, e la meravigliosa There will come a day, perfetta, con la sua melodia e l’intrinseca malinconia, per il finale. 

Dopo lo show, Steve si mette a firmare dischi e libri dietro al bancone del locale, mentre Vincent Vega e Jules Winnfield ammazzano qualcuno sopra la sua testa (nessuna allucinazione, per tutta la serata Pulp Fiction è stato proiettato su una parete del Bronson). Una fan gli regala un bacio perugina e lui fa due chiacchiere con tutti, creando un clima famigliare. Così, me ne vado con un cd autografato, un paio di consigli, qualche nozione (voi lo sapevate che il primo album dei Dream Syndicate è stato registrato in tre notti perché l’etichetta non aveva soldi da investire e lo studio era gratis tra mezzanotte e le otto del mattino?!) e la consapevolezza che questa dimensione, quella del piccolo club gestito con passione dove può crearsi un contatto umano con gli altri spettatori e con artisti del calibro di Steve Wynn, è qualcosa che va salvaguardato. 

Gianluca Maggi

The Veils @ Bronson

Il Bronson di Ravenna, familiare e instancabile covo della musica dal vivo romagnola, ospita una delle band più raffinate e affascinanti dell’indie rock dei primi 2000: si tratta de The Veils. Tornano dopo tanti anni e il soldout di Ravenna è solo una delle quattro date che la band neozelandese ha riservato all’Italia per promuovere la loro ultima fatica e settimo album Asphodels

L’opener non si presenta, pare per motivi di salute, e il locale gremito aspetta in trepidazione da davvero tanto tempo, quando sulle 22 i cinque membri fanno il loro ingresso e Finn Andrews, completo scuro e capello a tesa larga, prende posizione alla tastiera sfoggiando un sorriso emozionato.

Mortal Wound, con le sue prime note al piano, definisce già l’animo evocativo, poetico di questo album e delle performance che ci attendono. Attorno a me i fan storici fremono, cantano a memoria e alzano i telefoni per catturare il ricordo di un esordio intenso. 

Le armonizzazioni, delicate ma incisive, sono curate dal bassista e dal violinista, che apportano maggiore forza emotiva alle melodie dolci e drammatiche.
La band mostra versatilità sul palco, sono quasi tutti polistrumentisti: mi balza all’orecchio un suono distorto che sembrerebbe provenire da un sintetizzatore o da una chitarra, ma si rivela essere il violino. Il brano Swimming with Crocodiles porta con sé una ritmica più vivace che scuote il pubblico. Il violinista qui cambia giocattoli e mette mano al tamburello e alla tastiera effettata. Ma già in Everybody Thinks the End is Here passerà alla chitarra acustica.

Poi è il momento della nuova title-track, Asphodels. Il tono si fa più delicato, quasi sussurrato. Una canzone che sembra uscita da un sogno, un viaggio solitario attraverso una campagna desolata, dove ogni parola è un pensiero lontano, trasmesso attraverso la voce calda e avvolgente di Finn Andrews. Il pubblico sembra trattenere il respiro, in una connessione silenziosa con l’artista che non lascia spazio ad alcuna distrazione.

Una nota più blues con percussioni incalzanti e una strabiliante interpretazione vocale giunge con la storica Jesus from the Jugular. Ma è quando Finn, solo sul palco, imbraccia la chitarra acustica per la celebre Lavinia, che la voce risulta davvero al centro. Calda e confortante, non ha bisogno di altro se non di un semplice accompagnamento. Mi sono chiesta per tutta la serata chi mi ricordasse quella voce, ma la verità è che forse non assomiglia a nessuno.
Il resto della band ritorna sul palco e Finn chiede al pubblico come procedere con i brani: viene scelto Axolotl. Qui veniamo inondati dalla furia di Finn, che pare inveire, incazzato, contro gli accordi minacciosi del piano. 

La serata si conclude con Nux Vomica, brano che meglio esprime la forza dei cinque membri insieme. Dopo una crescita graduale, una chiusura netta, che non lascia nulla in sospeso, ma che, al contrario, restituisce tutto: la potenza, la poesia e l’intensità di un live che non si dimentica.

Setlist

Mortal Wound
The Dream of Life
The Ladder
O Fortune Teller
Swimming With the Crocodiles
Birds
Not Yet
Here Come the Dead
A Birthday Present
Asphodels
Rings of Saturn
Concrete After Rain
No Limit of Stars
Sit Down by the Fire
Jesus for the Jugular

Encore

Lavinia
The Tide That Left and Never Come Back
Axolotl
Nux Vomica

Lucia Rosso