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Pierpaolo Capovilla racconta la propria urgenza creativa

Il suo nome è Pierpaolo Capovilla, un artista dal curriculum vario che lo vede cantante e bassista per i One Dimensional Man, bassista per Buñuel, voce de Il Teatro Degli Orrori, solista in Obtorto Collo e ora parte di una nuova dirompente formazione con I Cattivi Maestri, con cui ha lavorato al progetto di recente uscita Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Maestri. Abbiamo parlato con lui di tutto, dal proprio nome al suo caro Majakowskij, passando per il nuovo album. Lui è una persona dalle idee chiare e dalle risposte dirette, schiette, che non lasciano spazio a dubbi o ad alterate interpretazioni. A VEZ Magazine questo piace.
 

Partiamo dall’inizio, o meglio dalle origini. Pierpaolo è un nome che porta con sé un’eredità culturale molto particolare, soprattutto in questo Paese: ti senti in qualche modo predestinato data l’omonimia con Pasolini?

“I miei genitori erano molto religiosi. Mia madre prima di sposarsi fu suora novizia nell’Ordine Paolino, mio padre voleva farsi sacerdote. Mi vollero chiamare Pierpaolo perché Pietro e Paolo furono fondatori della Chiesa Cattolica. Non mi sento predestinato, non è che una coincidenza.”

 

Come l’ultimo disco de Il Teatro degli Orrori aveva un titolo omonimo, il progetto appena uscito porta il titolo della nuova formazione, Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Mestri in cui figurano anche Egle Sommacal (Massimo Volume), Fabrizio Baioni (Drunken Butterfly) e Federico Aggio (Lucertulas). Questa scelta serve a rimarcare la chiusura di un capitolo e l’apertura di uno nuovo?

“Certamente. Come diceva il buon Andrea Pazienza, “Mai tornare indietro, neanche per prendere la rincorsa”, e così ho fatto”.

 

Se dovessi parlare a un giovane musicista ai suoi primi passi, come gli spiegheresti il desiderio dell’artista di evolversi, sperimentare nuove esperienze e collaborazioni?

“Credo che la musica sia una questione ‘vocazionale’. Bisogna crederci e perseverare. Confrontarsi ed evolversi è parte essenziale della faccenda. E che faccenda!”

 

Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Mestri non è un album “accogliente”, non vuole coprire con un cerotto nessuna ferita, non cerca di compiacere; infatti, si apre con Morte ai Poveri, che è anche il grido con cui inizia il brano stesso. Perché posizionare questo schiaffo proprio ad apertura del progetto?

“Ne parlammo a lungo in studio. L’idea di aprire la scaletta del disco con Morte ai Poveri fu di Manuele Fusaroli, produttore artistico, che ha curato le riprese, il missaggio e il mastering. “Prendere o lasciare!”. Ci trovammo tutti d’accordo. Questo disco è un album rock, un rock massimalista, radicale, senza compromessi. Il messaggio doveva essere chiaro fin dal primo pezzo, e Morte ai Poveri non poteva non essere destinata a divenire il manifesto del nuovo progetto.”

 

Violenza e sopraffazione. Queste le tematiche che attraversano il disco. Perché credi che sia ancora necessario parlarne?

“Perché violenza e sopraffazione sono caratteristiche dei tempi e del mondo in cui viviamo. Non possiamo far finta di niente, e cantar d’altro. Non sarebbe serio.”

 

Credi che la guerra sia solo fatta di armi?

“Evidentemente, no. Tempo fa lessi un provocatorio ma molto stimolante volumetto di quel mattacchione di Slavoj Žižek, La Violenza Invisibile, secondo il quale il conflitto armato non è che una delle manifestazioni possibili della violenza. Ce ne sono perlomeno altre due, quella ‘simbolica’, che si esprime nel discorso pubblico e privato e, ovviamente, nei media, e quella ‘sistemica’, fatta di salari inadeguati e insufficienti, di precarizzazione del lavoro, di disoccupazione, emarginazione, stigmatizzazione. Tutte e tre queste forme di violenza sono funzionali alla conservazione dello stato di cose in cui viviamo.”

 

Il disco si divide idealmente tra una prima parte più massimalista e tumultuosa e una più romantica e malinconica, come chi grida sfogando la sua rabbia e la voglia di farsi sentire, per poi rimanere a nudo con le sue riflessioni. Perché questa scelta?

“Mi sembra sia nell’ordine delle cose. Non c’è soltanto la rabbia nei confronti delle circostanze storiche che puntualmente si verificano e riverificano all’infinito, come rappresentassero un destino ineluttabile. C’è anche la commozione e il rammarico per la nostra impotenza: ci sentiamo inermi di fronte alla macroscopicità delle contraddizioni sociali e politiche, e così spesso ci rifugiamo nel nostro particolare, che è proprio ciò che vuole il sistema capitalistico: fatti gli affari tuoi e camperai cent’anni.”

 

Tutti sappiamo cosa la musica può fare. Ma, secondo te, cosa deve fare la musica, qual è il suo compito?

“Per come la vedo io, la canzone popolare, la musica ‘leggera’, il rock, nel nostro caso, possono contribuire ad una ridefinizione dell’immaginario collettivo, nel segno dei valori democratici, e in quello di un futuro diverso e non impossibile.”

 

Nel nostro sistema scolastico, lo studio della musica e della sua storia è relegato alle scuole secondarie di primo grado, per essere totalmente abbandonato in quelle di secondo grado, quando invece tante altre materie rimangono fondamentali, e giustamente, per il percorso intellettuale e umano della persona. Perché credi che lo studio della musica e soprattutto della sua storia sia relegato a un ruolo marginale in un Paese che ha dato e ancora dà grandi artisti riconosciuti da tutto il panorama musicale?

“L’educazione musicale è sempre stata una cenerentola nel nostro sistema scolastico. Ma non conosco la genesi o gli epifenomeni che ci portano a questa considerazione. Certamente, fa una certa tristezza constatare come la musica sia pressoché ignorata nella scuola italiana.”

 

Mi hanno detto che ti annoi se in un’intervista non si nomina Majakowskij. Vuoi parlarne?

“Ti hanno detto cosí? Non mi sembra di aver mai detto niente del genere. Magari ero sbronzo…”

 

Una nuova esperienza è come ricominciare da un punto zero, tornare bambini per crescere di nuovo sviluppando emozioni, idee, progetti. Come vuole il suo futuro Pierpaolo Capovilla?

“Ho cinquantaquattro anni, e non tornerò mai più bambino.
A una certa età si cambia definitivamente e irrevocabilmente. Posso però dire che sento tutto più urgente, urgente e necessario. Questi due anni di emergenza sanitaria, poi! Due anni rubati alle nostre vite, rendono l’urgenza ancor più significativa.”

 

Alma Marlia

Black Lips @ Covo Summer 2022

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• Black Lips •

 

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Covo Summer 2022  (Bologna) // 14 Giugno 2022

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435940801{margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_empty_space][vc_column_text]“Portati l’ombrello perché sono soliti sputare sul pubblico”

Queste sono state le parole che mi son state dette quando ho deciso di andare un martedì sera di giugno al Covo Club di Bologna a sentire i Black Lips. Il gruppo garage rock con punte di psichedelia di Atlanta, infatti, è celebre per mettere in scena dei live da squilibrati, nella piena filosofia rock and roll.

Già dai loro outfit sul palco si capisce che sono tutt’altro che bravi ragazzi, come dice la loro celebre canzone, ma piuttosto sembrerebbero la compagnia perfetta per una serata folle, di quelle che magari ti svegli un altro Paese senza sapere come ci si è arrivati. Jeff Clarke, chitarra e voce, si presenta sul palco con quella che sembra una camicia da notte, senza pantaloni e senza scarpe, Jared Swilley al basso con i capelli taglio pompadour, stile Elivs Presley per capirci, che pettina ossessivamente sul palco, e Zumi Rosow al sax, con un corpetto di pelle degno delle migliori serate BDSM. Ad accompagnarli alla batteria Oakley Munson vestito da vero cowboy e Cole Alexander alla voce e chitarra anche se il suo strumento preferito sembrava la bottiglia di bourbon. 

Insomma le premesse erano ottime e ci hanno regalato un live da sturbo. Ritmi folli e sax che la fa da padrone con Angola Rodeo e Cold Hands, sapientemente alternati a momenti più riflessivi come Crystal Night e Georgia. Con Boomerang e Modern art invece, ci portano verso ritmi più folk – country fuzz che hanno sempre contraddistinto la band. Immancabile cover dei Velvet Underground Get It on Time, toccante e riflessiva ma sempre con un tocco di follia marchio Black Lips.

La band si diverte da matti sul palco e si vede, e il pubblico ancora di più: balli scatenati, sudore e follia sprizza dai pori di ogni presente, che sia sopra o sotto il palco a ballare.

Il finale è esplosivo e totalmente inaspettato: concludono con la loro hit, Bad Kids, che, anche se amata dal pubblico e presente in ogni playlist indie rock per eccellenza, difficilmente viene suonata live. 

Niente sputi (e meno male) ma un’energia infinita e follia in ogni dove, i live dei Black Lips non deludono mai.

 

Alessandra D’aloise

Foto: Lucia Adele Nanni
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[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

Ashe @ Fabrique

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• Ashe •

+

Sam Fischer

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435940801{margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_empty_space][vc_column_text]

 

Fabrique (Milano) // 13 Giugno 2022

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435940801{margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_empty_space][vc_column_text]“But it was good while it was, and it was fun and it was sex”. Ashe (nata Ashlyn Rae Willson) rivendica i piaceri della vita, melodiosa, sensuale e con una punta di aggressività, la giusta dose che serve ad aizzare un pubblico di giovani (prevalentemente) donne che non aspettavano altro che un’occasione sicura per reclamare e sfoggiare la propria identità, nella forma più innocente, ma al contempo più soddisfacente: cantando in coro agli spiriti affini le parole di chi, nella vita, ce l’ha fatta. E Ashe, questa sera, alla guida del famelico pubblico milanese, scaldato dall’amatissimo Sam Fischer in apertura, ce l’ha fatta, nella maniera più plateale. A dimostrarlo, la penultima tappa del suo The Fault Line Tour e primissima volta in Italia.

Entra in scena con cinque educati minuti di anticipo, si gode l’ovazione del pubblico, attraversando un arco scenografico come una regina in parata, e ci strega, mi strega: sarà l’effetto del mio primo concerto post pandemia, sarà il suo ondeggiare sul palco con capelli di seta che si muovono a ritmo di folk pop, ma lì, in quel momento, io mi dimentico di tutto e tutti, dei miei amici di fianco che mi parlano, delle gambe doloranti per l’attesa in transenna, della giornata pesante sulle spalle… Sono completamente rapita da lei, dalla sua persona, dalla sua musica, dai suoi testi di vendetta e di compianto. 

Moderna hippy, incarnato dorato dal sole californiano, spirito ribelle forgiato da alcuni brutti colpi del passato (un lutto e un matrimonio fallimentare), Ashe calca il palco del Fabrique in una performance teatrale, nel verso senso della parola: il concerto è diviso in atti, scanditi dai successi di Moral of the Story: Chapter 1 e 2 (gli EP prodotti da Finneas O’Connell), l’inedita Angry Woman (in uscita il 22 giugno), e, ovviamente, il meraviglioso Ashlyn – un album di debutto dal sapore tutt’altro che debuttante, maturo, mai scontato, un vero e proprio “no-skip” album, come direbbero oltre manica e oltre oceano.

Così, dispensando baci e riconoscenza a ogni singolo membro del pubblico, scatenandosi scalza sul palcoscenico dalla scenografia essenziale ma d’impatto (specchio del suo stile), Ashe coinvolge, travolge, commuove e si commuove, passando da ballad malinconiche come Love Is Not Enough, ai bop scoppiettanti e cinici Me Without You, Hope You’re Not Happy, Another Man’s Jeans, fino ad una degnissima cover di Somebody to Love del “Final Act”, con la nonchalance di una professionista che padroneggia la scena come fosse casa propria. Una personalità solida che le emozioni le vive tutte, una per una, e ne è padrona al punto da riuscire a comunicarle al pubblico lungo un filo diretto, che passa per ogni organo e tocca i tasti speciali di ciascuno di noi che, rapiti, partecipiamo alla sua festa. 

Till Forever Falls Apart e Moral of the Story in chiusura, i suoi due featuring di immenso successo, accendono il pubblico che, con tutto il fiato rimasto, canta i versi dei duettanti assenti, Finneas e Niall Horan, tra lacrime e la più pura forma di devozione. Reciproca, si direbbe dalla commozione della cantante sul palco. 

Da una seguace di Carole King e Stevie Nicks, che crede in un solo dio che di nome fa Diane Keaton, è chiaro, non ci si poteva aspettare altro se non uno show emozionante e irriverente in nome della libertà di scelta, della rivendicazione del diritto più importante che ci sia, quello dell’autenticità, in pieno spirito sessantottino, ma anche super contemporaneo. Proprio com’è lei, così modernamente vintage.

“We will always be there for you”, riportano i cartelli sventolati dai fan sottopalco, una sorpresa per far sapere alla loro amica Ashe che ci sono e ci saranno sempre a supportarla, lungo una carriera sicuramente longeva, che, da questo punto in poi, non può che continuare ad alimentare le aspettative. 

“I can make a move if you know what I mean”, una minaccia che dalla bocca di Ashe suona come la più auspicabile delle sorprese: ora, non ci resta che aspettare il suo prossimo passo.

 

Testo: Maria Luisa Fasano

Foto: Johnny Carrano
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SAM FISCHER

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Tops @ Covo Summer 2022

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• Tops •

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John Moods

 

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Covo Summer 2022  (Bologna) // 13 Giugno 2022

 

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JOHN MOODS

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Neck Deep @ Magazzini Generali

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• Neck Deep •

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Happy Daze

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Magazzini generali  (Milano) // 13 Giugno 2022

 

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HAPPY DAZE

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Tre Domande a: Guzzi

C’è un artista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare?

Ciao ragazzi! Se proprio devo scegliere un artista solo scelgo Mobrici. Lo seguo dai tempi dei Canova e mi rivedo tantissimo in quello che scrive e nella maniera in cui si racconta. Credo che sia un cantautore vero, uno di quelli che seguono ancora le scie delle canzoni per vocazione.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Se dovessi scegliere un brano per raccontarmi al meglio punterei tutto su La Notte Porta Consiglio, perché forse è quella che racconta al meglio un potutto di me, ironico ma anche malinconico, socievole ma a tratti disperatamente bisognoso di solitudine. La solitudine quella buona però, quella che poi ti fa apprezzare di più la compagnia degli altri.

 

C’è un evento, un festival in particolare a cui ti piacerebbe partecipare?

Sogno il festival di Sanremo da tutta la vita. Penso che se mi chiedessero due dita della mano in cambio di una partecipazione al Festival accetterei in meno di un minuto.
Ho avuto la fortuna di arrivare tra i finalisti di AreaSanremo due anni fa, ma il fatto di non aver vinto forse mi ha fatto capire ancora di più quanto in realtà io desideri partecipare al festival italiano per antonomasia. Sanremo per un musicista è come Wimbledon per un tennista, parteciperesti anche se sapessi in anticipo di arrivare ultimo!

Battles @ Largo Venue

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• Battles •

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Largo Venue (Roma) // 13 Giugno 2022

 

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Syd For Solen 2022

Dice il detto “tra i due litiganti, il terzo gode”.

Così è stato per il Syd for Solen: dopo uno scontro fratricida tra festival danesi la settimana precedente (NorthSide vs. Heartland), il neonato festival di Copenhagen, piazzandosi nel secondo weekend di Giugno, si è potuto accaparrare nomi di tutto rispetto della scena internazionale, liberi anche dagli impegni del Primavera Sound a Barcellona.

Collocato a Søndermarken, cuore verde di Frederiksberg, delizioso quartiere subito ad Ovest del centro della capitale danese, tra casette in mattoni a vista, aiuole ben curate e hygge a palate, il grande prato circondato da alberi secolari è stato calcato da un numero variabile tra dieci e quindici migliaia di persone al giorno, che hanno visto alternarsi su due palchi gruppi emergenti e icone affermate.

Venerdì in particolare, giorno più tranquillo dei tre a livello di presenze, più che ad un festival è sembrato di assistere ad una scampagnata tra amici: gruppetti di persone sparse sull’erba, birra d’ordinanza in mano, la gente si è goduta l’indie rock di Velvet Volume, PRISMA e Goat Girl in completo relax prima che l’atmosfera si iniziasse a scaldare con il rap di Slowthai. È per i Foals che si inizia a vedere quella massa di gente che tanto è mancata di fronte ad un palco, massa che non farà che aumentare per il primo headliner della tre giorni, Liam Gallagher.

Il nostro caro Liam sale sul palco con un grugno che già urlava smaronamento a mille e non arriva neanche alla fine della prima canzone per trovare da dire con i ragazzini in prima fila che sfoggiavano delle maglie da calcio evidentemente non gradite al nostro. Per quanto l’umarèll albionico non si smentisca nell’immobilità delle sue performances, le emozioni che suscitano le hit dei bei tempi che furono targate Oasis scuotono corpi e anime di chi ascolta.

Il picco del festival si ha però nella seconda giornata. Se il buon Sandro Ciotti fosse ancora vivo, vi reciterebbe la lineup più o meno così: “inizia la giornata sul palco principale Anna Calvi a seguire la favolosa Sharon Van Etten per lasciare poi spazio agli eterei Slowdive [respiro] deviamo verso il palco piccolo per l’esordio in terra danese delle Wet Leg per poi ripiegare sul palco principale per il set conclusivo di questa giornata soleggiata e bellissima con The National”. Sabato è stato come gustarsi un vassoio di pasticcini belli farciti, appaganti, da godersi uno alla volta e assaporare fino in fondo il sapore distintivo di ognuno.

Il pasticcino più gustoso è stato, almeno per la sottoscritta, il set de The National: coinvolti e coinvolgenti (a Copenhagen sono di casa, NdA), hanno dato al pubblico uno delle loro migliori performances, con un paio di nuovi pezzi interessanti – anche se non così d’impatto come fu ascoltare dal palco dell’HAVEN KBH Carin at the Liquor Store prima dell’uscita su disco – e un continuum di canzoni tratte da tutta la loro discografia, così densa di titoli meravigliosi da non far rimpiangere quelli lasciati fuori dalla scaletta. Il concerto si chiude con la malinconica About Today, da assorbire nota per nota guardando tra le fronde degli alberi la magia del cielo ancora chiaro delle notti nordiche.

Domenica le previsioni davano una lineup un po’ più varia in termini di sound e rovesci sparsi. Purtroppo l’acquazzone più grosso si è avuto al secondo pezzo dei Parcels che ha costretto il gruppo a battere in ritirata e sospendere il concerto almeno finchè il diluvio non si è trasformato in pioggerella. Sarà stata la musica coinvolgente, la voglia di far festa, ma quando il sole ha bucato le nubi l’ovazione del pubblico è stata assordante. Il pomeriggio procede con il pop svedese delle First Aid Kit e il soul di Leon Bridges per arrivare alla festa conclusiva, il set dei Jungle che hanno fatto saltare e ballare in un rito collettivo di riappropriazione della vita sociale negata dai due anni di pandemia.

Si chiude così questa prima edizione del Syd for Solen, festival che ci auguriamo ritorni il prossimo anno e che, nonostante qualche aggiustamento da fare soprattutto riguardo alla quantità di food trucks presenti, ha saputo coniugare la dimensione cittadina della location con la dimensione internazionale degli ospiti in modo squisitamente impeccabile.

Francesca Garattoni

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