BOtanique 2025 – Un’estate di musica nei giardini di via Filippo Re a Bologna, dal 13 giugno al 19 luglio.
La quattordicesima edizione di
BOtanique 2025
Let the music bloom
Un’estate di musica nei giardini di via Filippo Re, Bologna
dal 13 giugno al 19 luglio
Nada, And Also The Trees, Bandabardò,99 Posse, Romina Falconi, Anavitória e Il Muro del Canto i primi protagonisti
Torna anche quest’anno l’abbonamento di soli 10€ che consente l’ingresso a tutte le serate e agli eventi dei festival
BOtanique 2025 – Let the music bloom: dal 13 giugno al 19 luglio, la quattordicesima edizione del Festival che riempie di musica i Giardini di Via Filippo Re a Bologna.
La mission di BOtanique è sempre promuovere e valorizzare l’accesso alla cultura, conferma – per il terzo anno consecutivo – l’abbonamento di soli 10€ che consente l’ingresso a tutte le serate e gli eventi di giugno e luglio, organizzati da Estragon Club.
Tra le novità della nuova edizione l’illustratrice e graphic designer Lucia Biancalana,che ha interamente curato l’identità visiva e le grafiche del festival.
(https://www.instagram.com/luciawait/)
Collabora con clienti italiani e internazionali, nei settori dell’editoria, del branding e della pubblicità. Autrice di libri e degli albi illustrati, realizza murales su grande scala e dipinge su piccoli block notes.
Dal 13 giugno al 19 luglio, grandi nomi della scena musicale nazionale ed internazionale si alterneranno sul palco: Nada, And Also The Trees, Bandabardò, 99 Posse, Romina Falconi, Anavitória e Il Muro del Canto i primi artisti annunciati.
Ad inaugurare il Festival il 13 giugno Nada, che da anni con la sua voce unica e inimitabile è l’artista più originale e coraggiosa della scena musicale contemporanea italiana. Tra i tanti successi ricordiamo “Amore Disperato“, “Guardami negli occhi” e “Senza un perché“, quest’ultimo inserito nella serie di Paolo Sorrentino “The Young Pope”. Il 14 giugno, direttamente da Worcestershire in Inghilterra il gruppo And Also The Trees, rinomati per le loro performance live magnetiche e stile inconfondibile accompagnati da mandolino e chitarra elettrica, testi evocativi e ritmi dark jazz. Il 20 giugno la Bandabardò, una delle live band che fa dei live delle vere e proprie feste straripanti d’affetto, in cui si crea un rapporto diretto con il pubblico. A marzo 2025 hanno pubblicato il nuovo album “Fandango“. I 99 Possearrivano il 21 giugno, band con oltre trent’anni di carriera alle spalle che ha segnato la storia di un genere con album pluripremiati come “Curre Curre guagliò”, “Cerco tiempo” e “Corto circuito”, oltre ai migliaia di concerti che hanno cambiato il modo di fare e vivere la musica in Italia e non solo. Romina Falconi porta il suo Rottoincuore Live – che prende il nome dall’ultimo album – sul palco del BOtanique il 25 giugno. Un concerto energico e intimo allo stesso tempo con la voce e il carisma di Romina accompagnata sul palco dai suoi “Disumani”, Nick Savinelli (chitarra e tastiere), Nello Savinelli (batteria) e Fil Colombari (basso).
Il 3 luglio, il duo brasiliano Anavitória formato dalle talentuose Ana Caetano e Vitória Falcão, tra i nomi più in voga della scena musicale contemporanea, rappresentano una nuova generazione di artisti in grado di scalare non solo le classifiche ma anche portare a casa premi, come il Latin Grammy Award.
Chiude i primi artisti annunciati il 9 luglio Il Muro del Canto, la band romana presenterà dal vivo il loro ultimo album di inediti “La Mejo Medicina“. Con oltre 14 anni di carriera, sei album all’attivo e più di 500 concerti in Italia e all’estero, Il Muro del Canto è una delle voci più autentiche e distintive della scena musicale italiana, capace di unire, con un’intensità espressiva senza pari, tradizione e innovazione.
Primi nomi del BOtanique 2025
13.06 Nada
14.06 And Also The Trees
20.06 Bandabardò
21.06 99 Posse
25.06 Romina Falconi
03.07 Anavitória
09.07 Il Muro del Canto
Dal 2019 BOtanique è un festival totalmente plastic free, la plastica non è diffusa in alcuna forma all’interno dei giardini: l’acqua sarà gratuita, bicchieri e stoviglie saranno in materiali derivati da carta o organici, niente cannucce.
L’area relax e la ristorazione, per quasi sei settimane, saranno il contorno e la cornice dei grandi eventi live e daranno la possibilità di passare il tempo ascoltando il proprio artista preferito o godendosi la fresca aria serale tra un drink e i sapori dello street food.
Link all’abbonamento:bit.ly/BOta2025
Da quest’anno con Card Cultura e Bologna Welcome Card sarà possibile acquistare l’abbonamento ad un prezzo ridotto di 8€, mentre per i possessori di Card Cultura Under 26 a soli 5€.
CONTATTI
Sito web: https://www.botanique.it/
IG: https://www.instagram.com/botaniquefestival/
Facebook: https://www.facebook.com/BOtaniqueFestival
Instagram: https://www.instagram.com/botaniquefestival/
Send a Prayer My Way
Un paio di sere fa ero a cena con due amici, in un pub dove talvolta fanno musica dal vivo. Coincidenza vuole che quella fosse una serata denominata “Jam!”, dove come il titola lascia intuire, il palco è a disposizione per chi volesse suonare. Nella fattispecie il genere sul quale si sarebbe dovuto suonare o improvvisare era il blues. Il palco inizialmente viene occupato da un trio, incaricato di dare il via alla serata immagino, il cui cantante/chitarrista indossa una t-shirt di B.B. King, giusto per togliere eventuali dubbi sulla proposta musicale.
Ascolto la prima manciata di brani, si muovono chiaramente in quelle zone, molto delta, qualche spruzzatina di country, e pur apprezzando e rispettando il tutto non possono non pensare che quando suoni il blues, QUEL blues, lo devi suonare con tutti i suoi crismi e modi, strutture, confinando davvero ai margini ciò che possa essere ascrivibile sotto la colonna innovazione o personalizzazione.
Tutto sto pippone mi serve per introdurre un gran bel disco che esce proprio oggi, ovvero Send A Prayer My Way del duo Julien Baker & TORRES. E nonostante il background delle nostre, parliamo di un disco fondamentalmente ed indiscutibilmente country.
Non che sia una novità assoluta lo sconfinamento verso questi lidi di artisti prevenienti da differenti aree (Post Malone l’ultimo che mi viene in mente), ma quello che le due musiciste americane hanno realizzato è un bellissimo disco outlaw country che suona assolutamente sincero e credibile pur mostrando la data d’uscita ad ogni brano.
Il disco ha visto la luce dopo che da diverso tempo TORRES (all’anagrafe Mackenzie Ruth Scott) e Julien Baker (che ha un paio di dischi clamorosi da solista oltre che a quella fortunata fuga nelle Boygenius) avevano in programma un album assieme, e l’occasione si è concretizzata lo scorso anno quando la prima ha aperto alcuni concerti del tour di Julien.
Il risultato sono dodici brani che spaziano lungo tutti i sacri dogmi del filone portato avanti dai vari Kristofferson, Jennings e compagnia.
The Only Marble That I’ve Got Left è Willie Nelson in purezza, così come Tuesday, nella quale emergono tematiche forti e care alle nostre, amore saffico che cozza contro bigottismo, religione e finisce in rimpianti o in Sylvia, “What’s it means to have everything if I can’t share it with my girl?”.
Gli episodi nei quali si azzarda maggiormente sono probabilmente anche quelli più riusciti, Sugar In The Tank potrebbe tranquillamente stare in un disco di Julien Baker, le accelerate di Tape Runs Out, le armonizzazioni di No Desert Flower, insomma c’è molto in questo disco, e quel molto risulta anche essere bello. Molto.
Al netto della qualità e della capacità di scrittura che emerge da questo lavoro, a mio avviso sarebbe ingiusto limitarsi a definire Send A Prayer My Way un semplice atto d’amore, un tributo, perché qui c’è molto altro, c’è la dimostrazione tangibile di come si possa far sì che le proprie radici facciano un passo avanti, guardare oltre senza perdere di vista la partenza, un po’ come diceva Bertoli, “Con un piede nel passato / E lo sguardo dritto e aperto nel futuro”.
Brave.
SABLE, fABLE
I Bon Iver ritornano. Ma come tornano?
Sono passati quasi vent’anni da quando Justin Vernon si è chiuso nel capanno da caccia del padre nel freddo Wisconsin, con il cuore spezzato, per autoprodurre un album malinconico, dolcissimo e perfetto come For Emma, Forever Ago (2008).
Dopodichè il moniker Bon Iver diventò la definizione di un sentimento, di una vibe, di una ricetta che personalmente ancora rispetto alla lettera: i Bon Iver si ascoltano soprattutto in autunno e in inverno, preferibilmente con ferite da sanare. Il caldo anelito della voce di Vernon deve avvolgere e sciogliere i ghiacci dell’anima, come un bivacco gentile.
Ad oggi è doveroso osservare che il folk intimista delle origini non è rimasto immutato (giustamente): l’indie pop si è fuso con il soul e con l’elettronica, esercizi di stile, collaborazioni scintillanti con Kanye West, Taylor Swift o James Blake. A tratti è parso che il collettivo virasse in maniera decisa verso un mainstream marcato, altre volte che desse priorità alla ricerca, al puro gusto di sperimentare, senza sottintendere un chiaro disegno alla base del proprio operato, come nel caso di i,i (2019), forse il loro album meno compreso.
In questo senso, SABLE, fABLE si inserisce come prodotto risolutivo delle tendenze che hanno caratterizzato la discografia pregressa. L’album esordisce con i tre brani usciti nell’EP pubblicato ad ottobre 2024, SABLE, ovvero THINGS BEHIND THINGS BEHIND THINGS, S P E Y S I D E e AWARDS SEASON. Costituiscono un prologo, una prima stagione in cui il dolore viene elaborato, digerito, con i toni nostalgici, crepuscolari che tipicamente associamo ai Bon Iver.
In AWARDS SEASON, che si può considerare una sorta di manifesto dell’album, la voce rimane l’unico elemento sonoro in un corridoio pressoché silenzioso, in cui di tanto in tanto fa capolino un pianoforte, l’eco di una chitarra lontana, un coro che armonizza poche frasi e un sax che lascia spazio alla coda finale a cappella. Qui Vernon afferma: “But I’m a sable and honey, us the fable”, comunicandoci e anticipandoci uno dei temi dell’album, ossia il confronto con un partner, l’intenzione di completarsi, superando gli ostacoli del quotidiano.
Con Short Story sentiamo il vento cambiare direzione, sta sbocciando fABLE, (anche questa vede la produzione di Jim-E Stack): si passa dal minore al maggiore, compare una voce femminile che già introduce il tema dello sdoppiamento, si passa da uno a due. In Everything Is Peaceful Love, primo singolo pubblicato a San Valentino, Vernon non canta l’amore come una vertigine, ma come una condizione di quiete e di scelta quotidiana. Una delle tinte stilistiche più forti è data dal soul che inonda questa produzione come forse mai prima d’ora, in particolare nel trittico Everything Is Peaceful Love, Walk Home e I’ll Be There: ifraseggi in falsetto di Vernon abbracciano i cori dal calore quasi gospel, sostenuti da impalcature di synth, tastiere effettate, pedal steel e percussioni elettroniche. Esce leggermente dalla categoria From, che nel chorus ci riporta al pop anni ’90.
È però in If Only I Could Wait, il duetto con Danielle Haim, scritto durante una reclusione creativa agli April Base, che si tocca uno dei vertici emotivi dell’album. Le due voci si rincorrono e si aprono a spiraglio su una confessione comune: non sempre riusciamo a essere la versione migliore di noi stessi. Vernon non giudica, non idealizza: osserva. Anche qui anziché frammentare la voce con distorsioni e manipolazioni sonore, come nei lavori precedenti, la espone nella sua nuda fragilità.
È con questa nuova prospettiva, questa fragile luce, che si giunge alle tracce finali. There’s A Rhythmn è la traccia più lunga dell’album, 5:16, dopo AWARDS SEASON, 5:17, e definisce questo procedere con passo misurato, gentile, nei giorni, nelle settimane e nelle vite degli altri. Una melodia che si ripete come una regola. L’outro strumentale, sospeso e incantevole, di Au Revoir sembra avere proprio lo scopo di abitarla questa regola.
Non siamo più nei boschi innevati del Wisconsin, né nel caos numerologico di 22, A Million (2016). Siamo in una casa costruita a due, forse ancora in bilico, ma abitata. Ogni canzone è una stanza che si può attraversare con passo lento, magari tenendo la mano di qualcuno. Vernon firma così un album che è tanto un congedo quanto un nuovo inizio e, come ogni favola che si rispetti, lascia addosso una strana speranza: che il dolore possa diventare memoria, e la memoria sia la traccia che conduce in un bel posto.
Steve Wynn @ Bronson
Sabato 12 aprile 2025. Ore 13:46. La biblioteca in cui lavoro è chiusa da una quarantina di minuti e riaprirà fra poco più di un’ora: questo è il tempo che mi resta, dopo aver trangugiato una piadina davanti al computer, per scrivere la recensione del concerto di Steve Wynn (ex cantante e chitarrista dei Dream Syndicate, alfieri di quella ramificazione del punk a forti tinte psichedeliche, nata e più o meno morta negli anni ’80, che risponde al nome di paisley underground) al Bronson di Ravenna, storico e minuscolo club di culto affiliato all’omonima etichetta. Allora, data l’impossibilità di sconfiggere il tempo, abbandono inutili preamboli e riavvolgo il nastro.
In realtà, non è stato un vero e proprio concerto. O per meglio dire, non è stato soltanto un concerto. Ciò che ha portato sul palco Steve Wynn assomiglia più che altro a una vecchia puntata di quella fortunata rubrica intitolata VH1 Storytellers, in cui gli artisti accostavano ai classici del loro repertorio aneddoti, storie che avevano portato alla scrittura delle canzoni e cose così. Questo è quello che ha fatto, attingendo a piene mani all’autobiografia di recente pubblicazione, Non lo direi se non fosse vero, il leader dei Dream Syndicate: si è confessato, si è raccontato al suo pubblico senza propositi autocelebrativi e con grande sincerità, come indica il titolo del libro.
Per redigere il suo curriculum, Wynn parte da molto lontano, per la precisione da quando nel 1973, tredicenne, ha suonato con una telecaster dorata Jumpin’ Jack Flash (di cui al Bronson ha solamente ricordato il riff) per poi procedere in ordine cronologico. Arrivano così una canzone blues, la prima da lui composta e fino a questo tour mai proposta dal vivo, Sunday Morning dei Velvet Underground, ovvero il brano che lo ha spinto a diventare un musicista ed al quale segue un meritato omaggio a Lou Reed, che gli ha fatto capire che la musica non deve essere scritta per accontentare tutti, ed in conclusione un pezzo dei Big Star impreziosito da un assurdo e nostalgico resoconto del suo incontro con Alex Chilton. Dopo questo tributo ai suoi numi tutelari, il cantautore viene raggiunto sul palco da Rodrigo D’Erasmo, il John Cale della serata, ma travestito da Brad Pitt, al violino e da Enrico Gabrielli a tutto il resto: armonica, sax, un sax lungo il doppio di un sax normale che sicuramente ha un nome specifico che mi sfugge, flauto traverso e pianoforte. A questo punto inizia il magico viaggio a ritroso nella carriera dei Dream Syndicate. Nota a margine: portare in tour un disco, tra l’altro piuttosto bello (consiglio in particolare l’ascolto di Making good on my promises), come Make it right, uscito lo scorso anno, e suonarne solo una canzone è una scelta inusuale e probabilmente sconveniente sul piano commerciale, ma Steve Wynn non sembra il tipo di persona che fa qualcosa per compiacere qualcuno ed è per questo che lo si apprezza!
La prima tappa sul viale dei ricordi è That’s what you always say, la prima traccia scritta per il primo album (noto una certa coerenza), che Steve butta in lavatrice e tira fuori con un colore nuovo, con uno stile circense che ricorda Tom Waits. Tutte le canzoni, rielaborate per l’occasione, presentano arrangiamenti inediti, un po’ dark e un po’ country, come se fossero storie di cronaca nera ambientate in un piccolo villaggio rurale. L’aspetto più interessante della serata, ad ogni modo, resta il fatto che spesso Wynn coinvolge il pubblico nel suo processo creativo, come quando mostra il modo in cui è nata Tell me when it’s over ossia da un tentativo di plagio di un pezzo punk. La scaletta prosegue con una perfetta alternanza di pezzi dai primi due album e letture dall’autobiografia fino ad arrivare all’apice emotivo dello spettacolo, Merrittville. Le versioni sono intense, cariche di pathos e i pochi strumenti presenti sul palco riescono a riempire l’ambiente, cancellando il mio personale timore che la mancanza della sezione ritmica potesse in qualche modo penalizzare le canzoni e snaturarle. Al contrario, si può dire che l’essenza dei Dream Syndicate sia rimasta intatta grazie alle brillanti improvvisazioni (da sempre marchio di fabbrica della band) del frontman, che gioca con le dinamiche, di Gabrielli che suona stupendi assoli di sax e di D’Erasmo che talvolta pizzica con delicatezza le corde del violino e talaltra ci si avventa violentemente con l’archetto. Boston non manca di colpire, grazie soprattutto al crescendo finale, così come The days of wine and roses che infiamma i presenti, e la meravigliosa There will come a day, perfetta, con la sua melodia e l’intrinseca malinconia, per il finale.
Dopo lo show, Steve si mette a firmare dischi e libri dietro al bancone del locale, mentre Vincent Vega e Jules Winnfield ammazzano qualcuno sopra la sua testa (nessuna allucinazione, per tutta la serata Pulp Fiction è stato proiettato su una parete del Bronson). Una fan gli regala un bacio perugina e lui fa due chiacchiere con tutti, creando un clima famigliare. Così, me ne vado con un cd autografato, un paio di consigli, qualche nozione (voi lo sapevate che il primo album dei Dream Syndicate è stato registrato in tre notti perché l’etichetta non aveva soldi da investire e lo studio era gratis tra mezzanotte e le otto del mattino?!) e la consapevolezza che questa dimensione, quella del piccolo club gestito con passione dove può crearsi un contatto umano con gli altri spettatori e con artisti del calibro di Steve Wynn, è qualcosa che va salvaguardato.
Gianluca Maggi
Tre Domande a: Le Lame
C’è un artista in particolare con cui vi piacerebbe collaborare/condividere il palco?
È una domanda difficile perché dovremmo rispondere con una lista molto lunga, ma rispondiamo volentieri per fantasticare un po’. Volendo fare una selezione (senza limiti) di almeno tre artisti/band con cui vorremmo collaborare, scegliamo i Baustelle, gli Idles e i Phoenix. Con i Baustelle, anche se il loro stile non è esattamente in linea con il nostro, ci piacerebbe condividere qualche pensiero musicale e concettuale. Nutriamo una forte stima per loro da tanti anni e crediamo che i loro testi siano i migliori da tempo e anche al momento in Italia. Perciò sarebbe bello scrivere una canzone insieme a loro per vedere cosa verrebbe fuori.
Con gli Idles ci piacerebbe suonare dal vivo insieme il nostro pezzo Stronz*, perché siamo sicuri che lo saprebbero interpretare nel modo migliore. È un pezzo in cui la rabbia gioca un ruolo centrale, quindi la loro furia musicale si sposerebbe alla perfezione con l’attitudine del brano, che è a tutti gli effetti punk rock. Sarebbe senza dubbio una bella emozione. Saremmo disposti a tradurlo anche in inglese a quel punto.
Con i Phoenix ci piacerebbe collaborare per prendere qualche goccia della loro capacità compositiva, che è semplicemente la migliore del panorama mondiale negli ultimi anni. Sono dei veri e propri maestri nella costruzione dei brani. Dunque sarebbe un sogno per noi produrre un pezzo con loro. Avendo nella nostra band anche le tastiere come strumento molto importante nel sound, i Phoenix sarebbero perfetti per creare un pezzo che funzioni al 100%.
Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?
Al momento senza dubbio suggeriamo l’ascolto della nostra Prenditi un attimo, perché il pezzo stesso è un consiglio che ci sentiamo di condividere apertamente. Prenditi un attimo parla del bisogno di abbassare i giri dei nostri motori umani. La canzone nasce dal concetto, quasi irraggiungibile nel 2025, di downshifting, perché l’era in cui stiamo vivendo sta minacciando e schiacciando sempre più le nostre libertà di esseri umani. Il ritmo della vita quotidiana può diventare assillante se non lo affrontiamo in qualche modo. Per questo motivo, anche se ci rendiamo conto che non sia per niente facile, cantiamo “esci dal panico”. Questo imperativo vuol essere una spinta per chi ha bisogno di sentirsi più libero. Ognuno di noi avverte prima o poi la necessità di arrivare ad un momento di catarsi in cui pensare esclusivamente a se stesso, non in modo egoistico, anzi, risolversi è un modo per volersi bene e, solo raggiungendo il proprio benessere, sarà possibile diffondere positività nei confronti degli altri.
Qual è la cosa che amate di più del fare musica?
Le persone che ci seguono e ci vogliono bene. La componente umana per noi rimane fondamentale, quindi i concerti sono il vero mezzo che usiamo per entrare veramente in contatto con i nostri “seguaci”, se così li vogliamo chiamare, anche se noi preferiamo chiamarli amici. Quando siamo sul palco riusciamo ad esprimere chiaramente la nostra gioia di fare musica. I mezzi digitali e i social, per quanto utili, non ci potranno mai trasmettere le stesse emozioni umane. Le persone le vogliamo avere davanti mentre cantano i nostri pezzi. Sarà che non siamo Gen Z, ma per noi tutto questo è molto più rilevante dei “cuoricini”. Detto ciò, siamo convinti che molti Gen Z la penseranno come noi e non vediamo l’ora di accoglierli nelle sale concerti durante i nostri live.
Tre Domande a: Maddalena
Come e quando è nato questo progetto?
Sogni d’oro e d’argento è l’esordio del mio progetto musicale che canterò e presenterò all’apertura di alcune date del Palajova a Roma e Milano. Sono molto felice di partire da qua perché sono particolarmente legata a questo brano e alla sua genesi!
Il ritornello di Sogni d’oro e d’argento mi è letteralmente uscito dalla gola mentre stavo al piano da sola una notte… ho raggiunto delle note in maniera spontanea che non credevo mai di poter raggiungere… è come se lui si fosse manifestato a me e non il contrario. Ho subito capito che sarebbe stata una canzone importante. Importante per me… da quella prima intuizione il lavoro è stato lungo e complesso ma come racconta il brano i sogni sono tutti lunghi e complessi… ma credo davvero che ne valga la pena!
Inizia da qui lo svelarsi del mio progetto, che è caratterizzato da una mia forte urgenza comunicativa e da un sound pop marcio che spero vi possa coinvolgere e far ballare!
Se dovessi riassumere la tua musica con tre parole, quali sceglieresti e perché?
La mia musica vuole essere ritmata, pungente, sincera e spero che Sogni d’oro e d’argento racchiuda questi aggettivi.
Ritmata perché il mio obiettivo è arrivare a far muovere le persone, pungente perché vorrei conciliare testi profondi con immagini crude facili e magari anche provocatorie, sincera perché sono mossa da una reale urgenza creativa che mi sprona a far diventare questo mio sogno un mestiere nella sua complessità!
Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?
Il desiderio è di trasmettere quella precisa ed esatta emozione che mi è arrivata quando ho ascoltato io per la prima volta Sogni d’oro e d’argento compiuta in questo caso e tutte le mie prossime canzoni quando saranno finalizzate. Ovvero un’idea di compiutezza che fa commuovere! Le canzoni quando funzionano e sono giuste fanno ridere ma soprattutto piangere e questo è quello che spero possa accadere a chi ascolta le mie canzoni!
Spero di arrivare semplicemente a più cuori possibili… GRAZIE