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The Amazons @ Covo Club

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• The Amazons •

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Covo Club (Bologna) // 25 Ottobre 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Un Covo Club SOLD OUT ha ospitato il quartetto di Berkshire.

I The Amazons, definiti migliore nuova rock band inglese, hanno infuocato il pubblico del club bolognese.

Matt Thomson e compagni hanno suonato quasi tutto il nuovo album Future Dust, in una scaletta che non ha lasciato un attimo di respiro al pubblico del Covo Club.

Junk Food Forever e la bellissima Black Magic hanno chiuso in bellezza una di quelle serate che dimenticheremo difficilmente.

Esplosivi.

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Foto: Luca Ortolani

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SETLIST:

 

the amazons covo club

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Grazie a: Comcerto

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Aspettando Indie Pride 2019: Sem&Stènn

Sem&Stènn, insieme nella vita e nella passione che li unisce, si conoscono nel 2007 in un blog di musica ma si incontrano solamente dopo quattro anni, nel 2011. Da lì suonano come dj in diversi club milanesi fino al 2015, quando decidono di dedicarsi ai loro inediti. Nel 2016 pubblicano Wearing Jewels&Socks, progetto interamente indipendente. L’anno seguente partecipano a X-Factor 11 e vengono selezionati tra i dodici finalisti in gara. Dopo questa esperienza pubblicano The Fair, inedito presentato alle audizioni del programma e registrano Baby Run con la partecipazione di Manuel Agnelli. Nel 2018 esce Offbeat, album di 10 tracce, seguito da un tour nelle principali città italiane. Quest’anno pubblicano due nuovi singoli: K.O. (feat. YaMatt) e OK VABBÉ, entrambi in lingua italiana. 

Il 26 ottobre 2019 Sem&Stènn presenteranno al TPO di Bologna l’ottava edizione dell’Indie Pride Festival, evento attraverso cui i protagonisti del mondo musicale lottano contro bullismo, sessismo e omotransfobia. 

Come si aderisce a Indie Pride e voi quando lo avete fatto?

Sem: Abbiamo firmato l’adesione a Indie Pride un anno e mezzo fa ad un festival. La cosa carina è che noi, come gli altri artisti, abbiamo aderito firmando la carta d’intenti con un bacio (bacio che si “stampa” sul modulo cartaceo). Abbiamo quindi dovuto mettere un rossetto ed eravamo contentissimi perché potevamo scegliere il colore. Ovviamente io e Stefano abbiamo fatto a gara per fare l’impronta più grossa.

Vi aspettavate di essere chiamati per presentare quest’evento?

Sem: No, però ci aspettavamo di essere chiamati prima o poi. Non sono tanti i pionieri in Italia del mondo queer e lgbt. Questo era un evento che avevamo già “puntato” ma non avevamo pensato di presentarlo. Quando ci hanno chiamato siamo stati felicissimi.

Stènn: In realtà eravamo vicino al telefono ad attendere lo squillo (ride). Il debutto all’Indie Pride sarà un debutto in grande stile soprattutto perché lo presenteremo.

Avete avuto personalmente esperienza di bullismo e/o omofobia? Quale comportamento avete adottato?

Sem: Guarda, si può dire che lo viviamo quasi tutti i giorni. La discografia è molto maschilista e omofoba, c’è tanto pregiudizio. In generale lo show business omosessuale è visto ancora come una cosa che viene presa raramente sul serio e che viene collegata a degli immaginari non di spessore. L’esperienza mediatica che abbiamo avuto ci ha dato visibilità ma ci ha esposto anche a molte critiche, però abbiamo reagito in grande perché se stai lì a leggere tutto quello che la gente scrive e a dare tanto peso ad ogni cosa, ti fermi. Invece noi abbiamo la pellaccia dura.

Stènn: Indie pride è importante anche per questo. Fondere la musica con le lotte e i valori della società lgbt ci dà molta forza e non ci fa sentire soli.

È uscito il vostro nuovo singolo Ok Vabbè. Nel video c’è una grande rappresentanza del mondo dei “meno giovani”. Com’è stato girare un videoclip insieme alle vecchie generazioni, emblema dell’intransigenza verso tutto ciò che si discosta dal loro ordinario?

Sem: Nel video in realtà ci sono un po’ tutte le generazioni: sia i vecchi raccattati in piazza sia i bambini ma anche una donna incinta. Tutto questo racconta la realtà del paese in cui io sono cresciuto (Rosolini) e vuole un po’ rappresentare questo: il diverso approccio delle diverse generazioni a questa realtà ma anche come ci siamo sentiti integrati in un contesto del genere, rompendo il pregiudizio.

Stènn: Con grande sorpresa la partecipazione è stata molto sentita e molte delle comparse sono state spontanee. Siamo contenti di aver realizzato questo video come un esperimento sociale. È andato a buon fine. C’è speranza.

 

Cecilia GuerraFrancesca Di Salvatore

L’impulso dei Diraq

I Diraq nascono nel 2009 e da quell’anno non hanno mai smesso di fare rock. 

“Il nome è un homage alla figura singolare di Paul Dirac, al romanticismo di alcune sue teorie, al suo essere misterioso e notturno. All’epoca eravamo ragazzacci di periferia che usavano abitare umidi scantinati, avevamo vent’anni o poco più e spesso suonavamo la domenica pomeriggio in un’angusta sala prove in località Palazzo Mancinelli (Gualdo Tadino – Perugia), fra una jam e l’altra ci capitava di andare a far visita a un anziano che aveva la cantina lì vicino, ci offriva sempre il suo vino artigianale nell’unico bicchiere che aveva per gli ospiti, dal quale bevevamo a turno quella bevanda agricola, era tipo un patto di sangue.”

Il 23 ottobre esce il vostro nuovo LP Outset per Jap Records. Da quanto tempo è in lavorazione?

Abbiamo iniziato a scrivere l’album il 10 Dicembre 2017, quel giorno eravamo a Modigliana, a casa di Antonio, quello che sarebbe stato poi il nostro produttore artistico. È stato un incontro gradevole, che ci ha motivato e messo di buon umore. Durante il viaggio notturno per tornare in Umbria eravamo tutti svegli, ma nessuno parlava, stavamo già iniziando a scrivere Outset.

Potete descriverci ogni singolo pezzo di Outset con un aggettivo? 

  • With me – fangosa
  • Make up – godereccia
  • Sunday bending – distesa
  • Shelter – sexy
  • Turning days – speranzosa
  • Naked – arrogante
  • Show your blood – scarna
  • Desert – evocativa
  • Mauer Mauler – minacciosa
  • Pray – sciamanica
  • Inglorious – bollente

Come nascono i vostri pezzi? C’è un particolare processo creativo che vi accompagna? 

Siamo a tutti gli effetti un gruppo rock, ma le canzoni nascono da un’urgenza estetica abbastanza assodata, la volontà di evitare i cliché di genere, favorendo l’apertura verso mondi sonori apparentemente lontani dal nostro, linguaggi che usiamo con la giusta dose di inconsapevolezza, ma che si spera diano un’impressione diversa al suonare musica rock, una freschezza nuova alle canzoni.

C’è un motivo preciso per il quale avete scelto la lingua inglese per esprimervi?

La nostra ambizione musicale è quella di creare musica che possa interfacciarsi con dignità a livello internazionale: c’è da dire che certi linguaggi che inizialmente erano nati in delle geografie particolari sono diventati di uso comune più o meno ovunque, si pensi al blues o al rap, musiche importate e inglobate dentro altre tradizioni. Cerchiamo di avere questo tipo di attitudine e confidiamo sul fatto che oggi, essere una band italiana che canta in inglese, non sia un freno ma una suggestione.

Qual è stato il brano più complesso da creare? 

Turning Days, senza ombra di dubbio: è un pezzo che va sensibilmente fuori da quello che è il nostro seminato, volevamo avventurarci in territori più leggeri e melodici, ma il risultato non ci piaceva e si era addirittura deciso di scartare il pezzo per lavorare su altre cose. Una sera eravamo con JM e abbiamo avuto la fantasia di suonare Turning Days con lui, è stata una nuova epifania, la canzone com’era da principio è diventata qualcos’altro, ma era quello che cercavamo.

Qual è la canzone alla quale siete più affezionati?

Questa è una domanda molto soggettiva e ognuno di noi risponderebbe in maniera differente, ma insieme ci sentiamo di premiare Turning Days, sia per quanto detto sopra, ma anche perché questo pezzo ci ha riavvicinato ai ragazzi di Jap Records, con i quali c’è stima e amicizia da sempre, ma non c’è stata mai vera collaborazione come in questo momento. Tutto è questo è una fortuna, perché stiamo lavorando con persone che hanno abbastanza chiaro il nostro percorso ed hanno a cuore la nostra musica.

 

Diraq 1 High

 

Il vostro album è stato registrato in presa diretta. Cosa ha voluto e vuol dire per voi utilizzare questo metodo di registrazione?

L’Amor mio non muore è uno studio dove ci siamo trovati alla grande, registrare su nastro in presa diretta è nel nostro DNA, ci piace stare nella stessa stanza e suonare insieme, registrare all’unisono. Lo abbiamo fatto anche in altre occasioni, non siamo di quelli che riprendono uno strumento alla volta, e nel 2019 crediamo ancora che questa sia la modalità migliore perché si crei la magia.

Com’è stato lavorare con Antonio Gramentieri? 

Fondamentale. Lavorare a certi livelli, con professionisti così bravi ti fa crescere, e con lui ci sono stati molti momenti di condivisione, ascolto e rispetto dei ruoli, cose che poi portano ogni canzone ad avere un proprio carattere, oltre ad aver dato a noi una visione più a fuoco di quello che siamo. 

Affidare la propria musica a una persona esterna comporta abbassare le proprie difese e mettersi in ascolto, bisogna essere predisposti, e trovare il produttore giusto. Antonio per noi lo è stato.

Cosa significa per voi questo album?

Dietro al gesto di pubblicare un lavoro discografico di questo tipo ci sono diversi significati: avere la possibilità di scrivere la propria musica con persone a cui vuoi bene, registrarla insieme, impegnarsi davvero su qualcosa, investire del denaro, spingere anche quando tutto intorno sembra volerti chiedere con preoccupazione se ti conviene farlo. Outset è considerare ogni giorno come un nuovo inizio, con nuove possibilità, nuove fortune o nuove sfighe che siano.

Ci raccontate un aneddoto legato a Outset?

Antonio, nel tempo ha ospitato a casa sua grandi personaggi della musica, tra i quali di certo spicca per fama Sir John Paul Jones, proprio lui, il bassista dei Led Zeppelin e di altre cose mitiche. Avendo anche noi soggiornato a casa sua per qualche giorno ci approcciavamo ad ogni oggetto come fosse un feticcio sacro, potenzialmente usato o anche solo sfiorato dal grande artista, qualsiasi cosa, il divano, i soprammobili, i libri, il water… ma lo facevamo così, per giocare, in realtà atteggiamenti di eccessivo divismo non ci appartengono.

È presto per parlare di progetti futuri?

Assolutamente, i progetti futuri per questo disco sono di portarlo live in maniera consistente per diverso tempo. Stare su un palco è la sublimazione finale, l’omega di tutto questo lavoro, ci piace suonare difronte a un pubblico che a malapena sa chi sei, ma che ascolta e assiste al rito del “qui e ora”. Speriamo di avere ancora la possibilità di fare belle cose.

 

Cecilia Guerra

Aspettando Indie Pride 2019: UNA

C’è chi la chiama Marzia e chi la chiama UNA, ma la sostanza non cambia: una delle musiciste più attive contro razzismo e violenza di genere, nonché parte integrante della comunità Queer. La sua partecipazione ad Indie Pride, quindi, appare del tutto naturale. 

Abbiamo fatto due chiacchiere con lei al telefono in attesa della sua esibizione sul palco del TPO il 26 ottobre insieme a Honeybird e Diana Paiva Cruz, un trio femminista creato proprio per l’occasione. 

Secondo te, perché è importante aderire all’Indie Pride?

È sicuramente un modo per prendere posizione e dare più visibilità a chi di solito rimane ai margini. Mi esibirò con Monique (Honeybird) e Cruz e ognuna di noi è attiva nella lotta per i diritti LGBTQ+, ma diciamo che la nostra partecipazione si concentra più sulla questione della parità di genere. Anche nel mondo della musica i dati parlano chiaro: la maggior parte dei progetti e delle band presentati nei festival sono maschili. Noi vorremmo mostrare che esiste una forte compagine femminile nel mondo della musica e dell’arte in generale, anche se spesso bisogna scavare per trovarla.

Essere consapevoli di ciò che accade intorno a noi è fondamentale per lo sviluppo di una coscienza critica e morale. Credi che la musica possa aiutare ad informare le persone, a sensibilizzarle e a combattere sessismo, bullismo e omotransfobia?

Assolutamente sì, ma non è importante solo il contenuto delle canzoni. Ormai siamo più presenti sui social che sui palchi e la comunicazione passa per un buon 70% attraverso quei canali. La rappresentazione che diamo di noi stessi dal palco, nelle interviste o in un semplice post ha un valore politico molto forte ed è anche attraverso questi mezzi che si possono far passare quotidianamente valori come la tolleranza, l’inclusione e l’abbattimento di ogni forma di marginalizzazione sociale. La musica può avere un forte impatto sociale, ma questo ovviamente implica un’enorme responsabilità che ogni musicista deve sapersi assumere.

Quest’anno è uscito il video ufficiale di Marie, un pezzo contenuto nel tuo ultimo album AcidaBasicaErotica, che parla di femminicidio attraverso la vicenda dell’attrice Marie Trintignant. Alla luce del suo contenuto, può una canzone essere più potente e diretta rispetto ad altri mezzi di informazione?

Le canzoni hanno il potere di essere trasversali, di poter colpire ed emozionare chiunque a prescindere dalla loro cultura musicale. Possiedono un linguaggio universale che ha anche il pregio di poter essere tramandato di generazione in generazione. Inoltre, scrivere e cantare di una problematica sociale così importante ha permesso anche a me di crescere. Parlando della canzone nello specifico, si è trattato di un progetto molto difficile, dove ho dovuto approfondire le mie conoscenze sul tema e confrontare la mia visione con quella di altre persone che la pensavano in modo più o meno diverso: oltre all’impatto sul pubblico, quindi, c’è stato anche quello su me stessa.

 

Cecilia GuerraFrancesca Di Salvatore

Allusinlove: fate sentire la vostra voce, senza paura

Cambiare è sempre una scelta coraggiosa. Dopo l’esperienza come Allusondrugs e centinaia di concerti, la giovane rock band di Leeds ha deciso di spiccare il volo con nuove ali, un nuovo – vero e proprio – LP It’s okay to talk e un nuovo nome: Allusinlove. Ci hanno raccontato le tappe del loro percorso musicale, tra tematiche profondamente attuali, i punti di riferimento da cui traggono ispirazione e il ricordo dei live italiani.

 

Vi sentite una nuova band ora che avete cambiato nome? Sono mutate alcune dinamiche all’interno del gruppo?

A dire la verità, cambiare nome è la conseguenza di un lungo processo. Volevamo farlo da un paio di anni ma non trovavamo mail il momento giusto. Avevamo usato l’espressione Allusinlove molte volte sia per firmarci sui social media sia per descrivere la comunità di persone attorno alla band. Abbiamo avuto finalmente l’occasione perfetta per rinascere come farfalle musicali quali siamo, con tanto nuovo materiale, sotto un nuovo nome e un messaggio più positivo. Siamo sempre la stessa band ma maturata. Mi chiedo cosa ci sia dopo lo stadio da farfalla…

 

It’s okay to talk è il vostro primo album vero e proprio. Raccontateci qualcosa su come è nato, come sono state scritte e registrate le canzoni…

Siamo incredibilmente entusiasti di aver creato qualcosa che delinea quanto accaduto in questi sette anni come band. Non abbiamo voluto pubblicare un vero e proprio album fino a quando non ci siamo sentiti pronti. Ora sentiamo che le canzoni sono pronte. Quindi, questa è l’occasione perfetta per dare una reale dimostrazione alle persone di quello che siamo in grado di fare e a chi era già nostro fan quanto siamo cresciuti e maturati negli anni. I brani sono stati scritti in tutte le modalità possibili e immaginabili, da una linea di chitarra proveniente dal retro di un van freddo e bagnato al sedersi con un sacco di frammenti di melodie e metterle insieme come un puzzle. Non c’è un modo giusto o sbagliato di fare musica e l’ispirazione può arrivare da ogni direzione…quindi credo sia più una questione di catturare questi momenti. Per quanto riguarda la registrazione, siamo stati fortunati di poter confrontarci con persone con cui sognavamo di lavorare un giorno. Essere nella stessa sala di Catherine Marks, Alan Moulder e il loro team di fantastici ingegneri che hanno contribuito a parte fondamentale del nostro album, talvolta letteralmente suonando o programmando sequenze è stato un esperimento meraviglioso. Noi siamo sempre rimasti il nucleo della registrazione, avendo inciso live la struttura delle canzoni, ma sulle rifiniture abbiamo contribuito tutti. Una modalità di lavoro davvero illuminante e, naturalmente, l’apprezzamento del team verso ogni canzone è stato motore di incoraggiamento e soddisfazione.

 

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Perchè avete scelto il titolo It’s okay to talk? Che messaggio vuole veicolare?

Noi, come società, abbiamo solamente iniziato a capire quanto sia importante la nostra salute mentale. Questo argomento è ancora circondato da tabù ed è davvero ingiusto che le persone interessate sentano di essere trattate diversamente qualora decidessero di parlarne con amici e familiari. Vogliamo diffondere il messaggio che ci si può sentire a proprio agio e condividere un certo tipo di sensazioni e preoccupazioni. Questo non solo può aiutare ma può fare la differenza tra la vita e la morte per molti. Se possiamo sottolineare l’importanza di tutto questo e dare in nostro contributo, è solamente positivo.

 

The deepest è la traccia che chiude l’album. Quando l’ho ascoltata, mi ha colpito molto. Pensate che la musica possa aiutare a superare i momenti più bui?

Assolutamente. Talvolta una canzone può essere qualcosa in cui identificarsi. Ascoltare qualcun altro che si esprime attraverso emozioni simili a quelle che stai provando tu può essere di grande conforto. È una sorta di terapia per molte persone, sia per chi scrive che per chi ascolta.

 

Le vostre canzoni sono un misto di sound differenti, dalle chitarre distorte a elementi shoegaze. Quali artisti o band vi hanno influenzato maggiormente?

Abbiamo un ampissimo raggio di influenze essendo la band composta da quattro persone. C’è sempre un po’ del gusto di ognuno di noi in quello che creiamo. Abbiamo qualche gruppo a cui ci ispiriamo tutti: Deftones, Mew, Yourcodenameis:milo solo per citare i primi che mi vengono in mente. Poi ci piacciono dai Tycho agli Enter Shikari, dai Simply Red a Django Reinhardt ai Pearl Jam…e tutto quello che c’è in mezzo.

 

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Come è stata la vostra prima esperienza in tour in Italia ed essere il gruppo di apertura per una band come gli Skunk Anansie? Che ne pensate del pubblico italiano e quali erano le vostre aspettative? Sono state confermate?

È stata un’esperienza unica. Non così spesso si ha la possibilità di avere di fronte una folla così, in una nazione in cui non hai mai suonato prima e dare tutto te stesso, e tornare a casa con un bagaglio di emozioni del genere è incredibile. Abbiamo avuto la fortuna di visitare molti luoghi incredibili in Italia e conoscere persone fantastiche. Non potevamo chiedere di condividere questa esperienza con una band o una crew migliore. Ci hanno fatto sentire i benvenuti, ci hanno supportato, fatto ridere e ci hanno fatto sentire sempre parte della famiglia. Non sapevamo che cosa aspettarci dal pubblico italiano ma è stato semplicemente fantastico: tutti ballavano, cantavano, sembravano divertirsi insomma. Li ringraziamo profondamente per averci dimostrato tutto questo amore.

 

Una curiosità… se aveste la possibilità di tornare indietro nel tempo, in quale periodo storico vorreste vivere, in termini musicali?

Personalmente, vorrei tornare ai primi anni ’80. Comprerei un sacco di tute di tutti i colori e suonerei solo funk, ballando a tempo con la mia band. È un periodo strano ma penso che sarei perfettamente a mio agio.

 

Laura Faccenda

Aspettando Indie Pride 2019: Cara Calma + Endrigo

Il 26 Ottobre al TPO di Bologna, Cara Calma e Endrigo condivideranno il palco durante l’ottava edizione dell’Indie Pride Festival. 

I Cara Calma sono Riccardo, Fabiano, Cesare e Gianluca. Vengono da Brescia e iniziano a suonare insieme nel 2017. Da quell’anno ad oggi pubblicano due album: Sulle Punte Per Sembrare Grandi (2018) e Souvenir (2019) entrambi per Cloudhead Records e Phonarchia Dischi. 

Gli Endrigo sono Gabriele, Matteo, Simone e Ludovico. Anche loro quasi-bresciani, si trovano nel 2012. Spara (2013) e Buona Tempesta (2015) sono i loro primi due EP, seguiti dall’album Ossa Rotte, Occhi Rossi (2017) per IndieBox Music. Nel 2018 esce il loro ultimo lavoro GIOVANI LEONI targato Manita Dischi. 

Abbiamo fatto due chiacchiere con entrambi i gruppi per sapere come la loro partecipazione confluisce nelle attività dell’associazione.

 

• Cara Calma •

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Innanzitutto, perché avete deciso di partecipare a quest’evento?

Abbiamo deciso di partecipare all’Indie Pride perché in un momento storico come questo, riteniamo sia fondamentale far sentire la nostra voce su temi così importanti come quelli trattati dall’associazione. Noi sosteniamo in pieno lo spirito e le motivazioni dietro ad Indie Pride, quindi ci è sembrato giusto e doveroso essere presenti.

L’associazione Indie Pride si occupa di combattere omotransfobia, sessismo e bullismo. In che modo secondo voi la musica può aiutare questa causa?

Abbiamo sempre visto la musica come un momento di condivisione, di ritrovo in cui fare casino tutti insieme senza badare alle diversità tra ognuno di noi. È una passione che unisce chi sta su un palco e vuole trasmettere un messaggio a chi invece lo sta ascoltando e recependo, quindi è davvero ciò che di più lontano c’è dai concetti di esclusione e diversità. Che poi “diversità” è una parola un po’ povera. Cosa significa? Siamo diversi rispetto a cosa?

Se doveste scegliere una vostra canzone per riassumere il senso di quest’evento, quale sarebbe e perché?

È una domanda un po’ difficile perché non abbiamo mai trattato direttamente questi temi nelle nostre canzoni, ma se dovessi sceglierne una così, su due piedi, sarebbe Domenica (dal loro primo album Sulle Punte Per Sembrare Grandi). Non è stata scritta con l’intenzione di parlare di bullismo o esclusione, ma il testo potrebbe essere abbastanza riconducibile alla lotta contro queste piaghe sociali. 

 

• Endrigo • 

endrigo

 

Quando avete aderito all’associazione Indie Pride e perché?

Non so dirti il momento preciso. Fra le prime persone che abbiamo conosciuto a Bologna, forse 2 o 3 anni fa, c’erano delle ragazze che seguivano i nostri concerti, con le quali poi siamo diventati amici. Loro facevano già parte dell’associazione e appena abbiamo conosciuto quella realtà ci hanno proposto di supportare la causa. Ci riconosciamo in tutti i valori proposti e quindi abbiamo assecondato la cosa con grande piacere.

Eravate in qualche modo già attivi nella lotta contro omotransfobia, bullismo e/o sessismo?

Le nostre canzoni non parlano quasi mai di temi sociali o politici, non per scelta ma perché quando scriviamo parliamo di cose personali. Però ci sono tre canzoni che toccano questi argomenti, perciò ti rispondo “si”. Anche quando non ne parliamo con la musica, lo facciamo sul palco, dal palco, comunicando tra una canzone e l’altra in modo più schietto. Il palco è per noi un riflettore e un momento importante per veicolare questi messaggi.

Ne Il ritorno dello J**i (dall’album Giovani Leoni) parlate di bullismo. Nel video ufficiale c’è un bambino preso di mira dai bulli che, tornato a casa, trova sfogo nel suonare la chitarra. Pensate che la musica rappresenti più un rifugio personale o un’ancora di salvezza collettiva?

Non c’è bisogno di scegliere, è tutte e due le cose. Lo possiamo vedere in diversi momenti: quando torniamo a casa e sentiamo una canzone di cui abbiamo bisogno, o ad un concerto dove le persone che hai accanto, conosciute o sconosciute, si sentono esattamente come te, dove c’è un senso di collettività. Entrambe le cose sono coesistenti e molto potenti. Si integrano.

 

Cecilia Guerra e Francesca Di Salvatore

[Anteprima Video] Le Figurine “Difendimi”

Le frequenze di Vez Magazine trasmettono in anteprima esclusiva il messaggio de Le Figurine, il duo femminile che ha intrapreso un viaggio lunghissimo per provare a risvegliare le coscienze a colpi di beat.

Orecchie, occhi e cuore aperto: ecco il video di Difendimi.

 


 

 

 

Cake @ Alcatraz

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• Cake •

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Alcatraz (Milano) // 21 Ottobre 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Unica nel suo genere, inclassificabile e definita “alternativa fra gli alternativi”, la band di Sacramento guidata da Jon McCrea, a otto anni dal suo ultimo passaggio in Italia, è tornata a suonare nel nostro paese.

Sia per i loro fan di lunga data, ma anche per le nuove generazioni, questa è stata un’occasione imperdibile per vedere dal vivo i Cake, una band unica nel suo (non) genere.

 

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Foto: Elisa Hassert

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Grazie a: DNA Concerti

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Marlene Kuntz: Nuotando tra Passato e Futuro

30:20:10 MK2 è la formula che annuncia il tour di Ottobre dei Marlene Kuntz in onore dei trent’anni di carriera e del loro album Ho ucciso paranoia: trent’anni di concerti e riconoscimenti a cui si è anche aggiunto il 5 Settembre il premio Migliori Musiche per lo spettacolo teatrale Il castello di Vogelod.
Riccardo Tesio, chitarrista e fondatore della band cuneese, ha risposto ad alcune delle nostre domande riguardanti il tour e l’evoluzione artistica dei Marlene.

 

Il 2019 segna i vent’anni dall’uscita del vostro disco Ho ucciso Paranoia e trent’anni di carriera, che celebrerete con 10 concerti doppi, in acustico ed elettrico. In seguito all’infortunio di Luca Bergia avete dovuto ripensare alle location dei live di Ottobre. Come sono state re-inventate le alternative?

Abbiamo scelto delle location non troppo distanti da quelle originarie, tutto compatibilmente con i club disponibili in quel momento. Stiamo cercando di fare uno spettacolo diverso da quello che il nostro pubblico è abituato a vedere, sia per il fatto che è diviso in due tempi, una parte acustica e una parte elettrica, sia per quanto riguarda la parte dei video. Due esperti hanno realizzato delle immagini che verranno proiettate dietro di noi durante il concerto, sarà uno spettacolo abbastanza particolare. I Marlene hanno suonato molto in Italia, ma nessuno ci ha mai visti come saremo in queste dieci date.

 

Cos’è stato Ho ucciso Paranoia al momento della sua uscita? Che significato ha per voi oggi?

I primi tre album sono i pilastri della nostra carriera e della nostra storia musicale. Catartica, Il Vile e Ho ucciso Paranoia hanno delimitato il perimetro dei Marlene Kuntz. Ho ucciso Paranoia è quello più sperimentale, abbiamo introdotto la componente improvvisativa che negli altri album non c’era, le cosiddette Spore, inteso come semi di nuova musica. Credo che sia stato il primo album ad entrare nella top ten della classifica. Tutti i nostri album li consideriamo tuttora validi ed attuali, sono stati tutti meditati in termini di scelte e produzione. Nel momento in cui un album esce ne siamo sempre soddisfatti, ed è sempre il meglio che possiamo fare.

 

Marlene Kuntz 4

 

A chi parlano i Marlene Kuntz nel 2019?

In generale ci piace pensare di rivolgerci a chi è interessato alla musica in maniera curiosa ma anche attenta. La musica può essere fruita in modi e momenti diversi, può essere di sottofondo o qualcosa che fa riflettere. Noi siamo più motivati verso un pubblico attento. Un disco nostro se ascoltato distrattamente può non piacere. Le sonorità sono un po’ strane, scelte armoniche possono risultare un po’ troppo ardite o i testi possono sembrare ostici, non ammiccanti, scomodi. Il primo ascolto può essere anche fastidioso. Chi invece è interessato ad argomenti meno semplici o non divertenti, approfondisce e piano piano trova delle sintonie o delle chiavi di lettura. I contenuti non sono necessariamente scomodi magari sono trattati in una maniera più particolare.

 

Tre momenti cardine di questi trent’anni?

Sicuramente gli inizi: nei primi 3-4 mesi dall’uscita del primo album successero diverse cose importanti.
Il primo, quando Ferretti, dei CSI si innamorò di Lieve: ci telefonò per spiegarci cosa era successo mentre ascoltava l’album e in particolare quel pezzo e poi ne fece una cover ai loro concerti. Quello è stato un momento molto importante perché noi eravamo all’inizio ed eravamo grandi ammiratori dei CCCP… è stato un momento molto emozionante. E’ stato il primo momento in cui mi sono detto che stava succedendo qualcosa.
L’incontro con Skin nel 2000. In quel periodo gli Skunk Anansie videro i nostri manifesti e chiesero al nostro discografico, che era anche il loro, di far loro sentire i nostri dischi. Nacque una collaborazione e fu una svolta per i Marlene Kuntz, ottenemmo maggiore visibilità e con questo arrivarono anche molte critiche. Pochi mesi dopo, il loro discografico gli fece ascoltare i provini del nostro nuovo album e da li nacque l’idea di fare un duetto per La canzone che scrivo per te, il cui testo si prestava in modo particolare all’interazione tra un uomo e una donna.
Il terzo momento non è molto conosciuto dal nostro pubblico, ma è stato molto importante: l’incontro artistico con Nick Cave. Cristiano, che capitava spesso ai suoi concerti perché amava molto Nick Cave, piano piano riuscì ad entrare anche nei suoi camerini. Nacque una specie di amicizia, una conoscenza tra artisti di paesi diversi, scambi di mail e di provini. Quando iniziammo a pensare di tradurre i nostri testi in inglese, Cristiano chiese a Nick Cave di dargli qualche dritta in merito alle traduzioni. Fu qualcosa di molto gratificante, dal punto di vista personale e artistico, fu uno scambio a livelli altissimi.

 

Milano 21 Settembre 2018, era in programma un concerto ai Magazzini Generali, annullato un giorno prima per motivi di forza maggiore. Avete suonato per i vostri fan davanti ai cancelli in acustico. Cosa pensate sia cambiato durante questi trent’anni nel vostro rapporto con loro?

Prima cosa si è alzata l’eta media del nostro pubblico. Il rapporto è molto diverso. Internet e i social fanno si che le informazioni viaggino molto più velocemente. Venticinque anni fa iniziammo a suonare tanto dal vivo e sostanzialmente incontravamo il pubblico solo nei concerti. All’epoca avevamo anche reso pubblica questa casella postale e chi voleva poteva scriverci. Ricevevamo molte lettere dai fan in giro per l’Italia. La comunicazione era molto diversa: le cose che arrivavano erano molto dense di sentimenti e di sostanza, perché inevitabilmente prendere carta e penna implica impegnarsi. Arrivavano meno lettere rispetto alle mail che arrivano oggi, ma ciò che arrivava era molto ponderato. Il contatto con il pubblico era attraverso i concerti e la casella postale. Oggi, scrivi una cosa su Facebook e dopo pochissimo hai già tutti i commenti. La sera prima dell concerto ai Magazzini Generali, quando arrivò la chiamata riguardo l’annullamento del concerto, scrivemmo un messaggio su Facebook per spiegare l’accaduto ai nostri fan. Di colpo ci arrivarono molti messaggi in cui i fan ci spiegavano la loro frustrazione per la notizia: c’era gente che veniva dalla Sicilia e aveva prenotato alberghi e comprato biglietti aerei. L’idea che qualche nostro fan potesse ritrovarsi li davanti con le porte sbarrate, ci rendeva molto frustrati. Da questo senso di sconforto nacque l’idea di annunciare che qualcosa sarebbe accaduto lo stesso senza essere troppo specifici, visto che c’era anche la questura di mezzo e c’era già molta tensione. Una volta arrivati lì, c’erano cento persone ad aspettarci. Una cosa del genere una volta non si sarebbe potuta fare perché non ci sarebbe stata l’opportunità di avvisare tutti così velocemente.

 

marlene1

 

Il 5 Settembre siete stati riconosciuti del premio Migliori Musiche per lo spettacolo teatrale Il Castello di Vogelod. Com’è scrivere musica per il teatro? In che modo avete reso vostra l’opera di Murnau?

Da un po’ di anni facciamo sonorizzazione di film muti, consiste nel guardare le immagini e immaginarsi delle atmosfere. A noi piacciono i film un po’ inquietanti. Ci facciamo una struttura sentimentale, un canovaccio a cui corrispondono delle idee musicali come un giro di chitarra, un riff di tastiere ecc. Per questo spettacolo abbiamo utilizzato una componente improvvisata sviluppatasi ai tempi di Ho ucciso Paranoia. Questa scelta nasce dal volersi adeguare allo svolgimento del film senza essere troppo rigidi nel contare i giri. Osserviamo quello che sta per succedere nelle immagini e ci spostiamo su un altro livello musicale per gradi in modo più fluido. C’è una traccia ma anche una componente improvvisata. Il film è stato arrangiato in accordo con il regista lì in teatro facendo le prove, questo approccio ha permesso di creare uno spettacolo unico e diverso per ogni sera della messa in scena. Lo spettatore avverte in questo modo che ciò che sta accadendo è un happening unico e irripetibile. Questo approccio ci obbliga ad eseguire lo spettacolo molto attentamente senza rendere meccanica l’esecuzione. C’è un maggiore coinvolgimento emotivo e una maggiore attenzione da parte della band che si traduce in una resa migliore.

 

Quale sound avranno i Marlene Kuntz del futuro: si tratterà di un’ evoluzione dei range espressivi o dobbiamo aspettarci un crossover dalle tinte più attuali?

Sicuramente stiamo sperimentando cose abbastanza nuove, però è anche vero che il nostro modo di scrivere la musica è quello che abbiamo sviluppato in trent’anni di carriera. Noi cercheremo di fare qualcosa di diverso ma non so come verrà colto questa cosa, vedremo. Preferisco non svelare troppo: sicuramente lavoreremo con una strumentazione diversa e ci saranno dei cambiamenti nel modo in cui scriviamo, quale direzione dovremo prendere è ancora da definire.

 

Giulia Illari

 

Credit foto Full Band: Alex Astegiano

Credit foto Cristiano Godano Live @ Vidia Club: Simone Asciutti

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Aspettando Indie Pride Festival 2019

Ancora più visibili e rumorosi: questo è il motto dell’Indie Pride Festival 2019 che si svolgerà a Bologna il 25 e 26 ottobre, per la prima volta in due giornate. Anche quest’anno il festival, arrivato alla sua ottava edizione, rappresenta il culmine di una serie di attività proposte dall’associazione Indie Pride per combattere, attraverso la musica, le piaghe dell’omotransfobia, del bullismo e del sessismo.

La giornata del 25 ottobre sarà dedicata a due incontri: il primo, sulla Retorica dell’Esclusione, si terrà presso la Casa delle Associazioni al Baraccano mentre il secondo, Luci e ombre: riflessioni sui live club, avrà luogo nella Biblioteca Italiana delle Donne. 

Il 26 ottobre invece sarà interamente dedicato alla musica. Presentati dall’esuberante duo Sem&Stènn, andranno in scena nello spazio del TPO di Bologna, che già ha ospitato alcune edizioni precedenti, sia esibizioni live e che dj set a cura di Gosso’s Party e Collettiva Elettronika. 

Per noi di VEZ è un onore continuare la media partnership con Indie Pride e saremo presenti con i nostri fotografi ad entrambe le date dell’evento.

Abbiamo fatto qualche domanda ad Antonia Peressoni, ideatrice dell’Indie Pride.

Quando è nato Indie Pride, perché è nato e quante persone ne fanno parte?

Indie Pride nasce nel 2012 come evento singolo in occasione dei preparativi per il Pride nazionale che si teneva a Bologna quell’anno. Nasce dalle esigenze sentite di quel periodo: si parlava molto del ragazzino bullizzato perché portava dei pantaloni rosa e che in seguito si è suicidato; si parlava del DDL Scalfarotto contro l’omotransfobia, che è rimasto accantonato dal 2012. Alla fine del 2015 l’Indie Pride diventa un’associazione con un direttivo composto da 7 ragazze. (Specifica: “ragazze… donne! Perché spaziamo dai 22 ai 41 anni”)

Dalla nascita di Indie Pride ad oggi, com’è cambiata — se è cambiata — la situazione sull’omotransfobia, in termini sociali e istituzionali?

Innanzitutto, da questa estate in Emilia-Romagna c’è una legge regionale contro l’omotransfobia con delle lacune che si spera vengano riempite negli anni. È passata anche la legge Cirinnà che riconosce l’unione civile tra persone dello stesso sesso. A parte questo però, la legge italiana è carente in fatto di prevenzione. Nelle scuole ad esempio non c’è un’educazione ai sentimenti, alla sessualità. C’è sicuramente più consapevolezza nella società, nel mondo della musica, dove si pone più attenzione sul tema. È il mondo politico che è ancora indietro. 

Com’è stato l’ultimo anno di Indie Pride e quali sono i progetti futuri?

Il 2019 è stato fighissimo. L’edizione dello scorso anno prometteva bene in fatto di collaborazioni. Tante di quelle vecchie sono state confermate e quelle nuove si stanno realizzando. Ad esempio, la collaborazione con We reading, con cui portiamo avanti il progetto Anatomia fantastica insieme a La Rappresentante di Lista; la collaborazione con KeepOn (associazione di categoria dei locali e dei festival italiani) grazie a cui abbiamo raccolto delle risposte ad un nostro questionario che mostreremo al talk serale (25 ottobre ore  18:00) dell’Indie Pride; o ancora la collaborazione con diversi festival dove abbiamo portato il talk Il potere della musica e la responsabilità che ne deriva, sia a Bologna che a Otranto ed è un tema che piace a chi ascolta e a chi interviene. Adesso stiamo pensando non più in un’ottica annuale ma triennale. Nel 2021 infatti saranno 10 anni di Indie Pride e speriamo di vedere la legge approvata.

Secondo te, perché gli artisti che hanno aderito a Indie Pride sentono la necessità partecipare a questa manifestazione? Credi che ognuno abbia una sua motivazione personale o che sia più un sentimento comune e condiviso?

Bella domanda. Sicuramente c’è un sentimento condiviso ma ognuno ha le proprie particolarità. Quando abbiamo fatto il talk Il potere della musica e la responsabilità che ne deriva a Otranto con Una, La Rappresentante di Lista, Anyother, Sem&Stènn, l’associazione LeA e Respiro, si parlava di tematiche su cui tutti la pensano allo stesso modo ma avevamo capito che non c’era mai modo di trovarsi insieme. C’è sicuramente una comunità di intenti ma ogni singolo artista ha il proprio vissuto ed è possibile che ci siano scostamenti di idee.

Ma ora vediamo nel dettaglio la line up del live.

Twee

Saranno i Twee, pop band torinese con tre anni di attività alle spalle, ad aprire la giornata di live. Attivissimi per i diritti LGBTQ+, i Twee si sono già esibiti quest’estate durante vari Pride nel Nord Italia, sponsorizzando anche la collezione PRIDE del brand Levi’s. “Fierissimi di farne parte” hanno scritto su Instagram in riferimento all’associazione.

Cara Calma + Endrigo + Benelli

Due band direttamente da Brescia che porteranno la propria energia sul palco dell’Indie Pride Festival. I Cara Calma e gli Endrigo si divideranno la scena e suoneranno insieme, prestando il loro sound rock ad un evento e ad una causa che sta molto a cuore ad entrambi. A loro si uniranno i Benelli, duo bolognese di adozione, che con la loro ironia pungente, anche su temi caldi, si sta facendo strada nella scena indipendente italiana.

Romina Falconi

La cantautrice indipendente Romina Falconi è una presenza stabile nei Pride: Milano, Modena, Padova, Novara e Cagliari. Non poteva non mancare all’Indie. Who is Afraid of Gender? è questo il titolo del brano che Romina realizza nel 2016 con Immanuel Casto. Il messaggio è chiaro: la lotta contro il pregiudizio, il timore e la discriminazione di genere. Il singolo viene scelto come sigla del Gay Village quello stesso anno. La sua battaglia contro l’intolleranza continua anche in Magari Muori, uno dei brani del suo ultimo album Biondologia, dove Romina canta sarcasticamente “Omofobi e bulli, ci hai pensato mai, magari muoiono prima di noi. Violenti e razzisti, il marmo vi dona, chissà forse Taffo da voi viene prima”.

Venerus

Giovane artista, Venerus vive e cresce tra Londra, Roma e Milano, città d’origine. E’ proprio in questo mese (ottobre) che inizia il suo Metamorfosi club tour, durante il quale porterà live i suoi due EP usciti per Asian Fake: Love Anthem (2018) e A Che Punto È La Notte (2019). Venerus è blues, soul, jazz, elettronica, rap e tanto altro ancora. Parola chiave: completa libertà di espressione. 

Una + Honeybird + Diana Paiva Cruz

Una, al secolo Marzia Stano, inizia la sua carriera musicale nella band Jolaurlo e gestisce il collettivo bolognese di artiste Elastico faART, che promuove e sostiene una creatività inclusiva e in ogni sua declinazione. Nel 2013 comincia la sua attività da solista e nei suoi pezzi troviamo tantissimi temi sociali, con grande spazio dedicato alla fluidità sessuale (è parte attiva della comunità Queer), la lotta contro la violenza di genere e l’antirazzismo. Sul palco con lei ci saranno anche la musicista Diana Paiva Cruz e Honeybird. Musicista e compositrice, Honeybird è anche attivista LGBTQ+ e ne parla spesso nelle sue canzoni. Da Out Comes Woman — album del 2015 che parla della sua esperienza di coming out come bisessuale — al suo ultimo lavoro Cyclops Cat, con undici brani a tema “non-binary gender”, il suo obiettivo è quello di trasmettere attraverso la musica la lotta quotidiana della comunità LGBTQ+.

 

Cecilia Guerra e Francesca Di Salvatore

I Boschi Bruciano e la leggera pesantezza dell’essere

“Scusami, tendo un po’ a divagare, ma davvero non sono abituato a fare interviste”

Si giustifica così, un po’ timidamente, Pietro, cantante e chitarrista de I Boschi Bruciano, al telefono con noi per fare due chiacchiere il giorno dopo l’uscita del primo album, ancora emozionato per tutto quello che era successo nelle ventiquattr’ore precedenti.

Ci Pesava è il vostro album di esordio: come vi sentite a pensarci?

In qualche modo è una sensazione di sollievo. Avevamo la necessità di esprimere attraverso la musica quello che ci è successo negli ultimi anni e credo che il titolo, Ci Pesava, lo dica chiaramente. L’uscita dell’album è un po’ il culmine di un percorso iniziato un anno e mezzo fa, quando abbiamo cambiato nome e formazione, ma sicuramente è anche l’inizio di qualcosa di nuovo e diverso.

La percezione ascoltando l’album è che sia un disco personale: è stato difficile scavare o è stato più un processo naturale?

È stato un processo decisamente naturale. I testi li scriviamo io e mio fratello Vittorio (batterista della band), mentre gli altri si occupano degli arrangiamenti, ma anche quando abbiamo cercato di essere meno introspettivi e più “sociali”, come in Mi Spegnerò, ci siamo resi conto che il filtro soggettivo della band è rimasto, però non è necessariamente una cosa negativa. 

 

i boschi bruciano 2

 

Ci Pesava è un disco formato da tante anime, c’è la disillusione ma anche la rabbia e la voglia di reagire. Ce n’è qualcuna che prevale o è un mix omogeneo?

Abbiamo cercato di realizzare un disco più simile ad un concept album che non ad una raccolta di singoli e questi due sentimenti sono un po’ i due fili conduttori che accompagnano tutti i brani. Abbiamo cercato di trasmettere un’alternanza abbastanza omogenea di disillusione e speranza in tutte le tracce, senza tralasciare un po’ di autoironia, che non fa mai male. 

Scostandoci un attimo dal disco, volevo farvi una domanda sulla playlist che avete realizzato quest’estate, Pezzi che Bruciano: cosa ci si trova dentro e che scopo avete deciso di crearla?

È una playlist che aggiorniamo ogni settimana. Dentro ci sono sia brani di rock band già affermate che altri di gruppi minori e indipendenti. L’abbiamo creata principalmente per due ragioni: una più egoista, nel senso che siamo perennemente attaccati a Spotify e volevamo avere i pezzi che ci piacciono sempre a portata di mano. Poi ci tenevamo a far conoscere ad un pubblico più vasto quelle piccole realtà come noi che magari su internet non riescono a raggiungere la visibilità che meritano. La rete è un grande strumento, ma a volte può essere un po’ annichilente.

Ora che avete pubblicato il disco, avete in programma anche un tour?

Da questo punto di vista, siamo un po’ vecchio stile, quindi suonare live è il nostro obiettivo ultimo. Non posso sbilanciarmi troppo sulle date, ma per ora abbiamo annunciato che apriremo il concerto dei Cara Calma, che consideriamo i nostri fratelli maggiori, al Magazzino Sul Po, a Torino. Poi vedremo, noi vorremmo stare in giro il più a lungo possibile.

 

Francesca Di Salvatore

 

i boschi bruciano 3

 

 

Foto Credit: Francesca Sara Cauli

Dimartino @ Largo Venue

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• Dimartino •

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F3sta di Radio Sonica

Largo Venue (Roma) // 19 Ottobre 2019

 

 

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Foto : Simone Asciutti

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