Order In Decline é il nuovo LP dei canadesi Sum 41.
L’album, il nono dal 1996, rappresenta un punto di svolta rispetto alla loro produzione precedente: dimenticate le musicalità di Into Deep e Fat Lips, dimenticate la band punk-rock che scimmiottava i colleghi musicisti. I Sum sono diventati grandi e Order In Decline ne è la prova lampante.
Le avvisaglie di un cambiamento erano già arrivate nel 2016 con 13, ma oggi la trasformazione è arrivata a compimento. Un disco più riflessivo in cui i toni punk si sposano e si intervallano a sonorità più pesanti, serie e cupe.
Con questo album i Sum prendono spunto dai cambiamenti che stanno succedendo nel mondo, dalle teorie del complotto e ci regalano 10 brani che sono in grado di prenderti e rapirti fin dal primo ascolto. Melodie, riff e ritornelli che ti rimangono in testa. Fin da subito.
Immancabile la ballata Never There, una lettera a cuore aperto dedicata ad un padre assente… Un brano orchestrale, che ricorda un po’ Pieces, ma che ti fa venire i brividi.
Non mancano i brani movimentati: Out for Blood, il singolo che ha anticipato l’uscita del disco, ci fa venire in mente i Sum di una volta, un brano che é stato come un ruggito per annunciare al mondo che stavano per tornare.
Nonostante vi sia una canzone dedicata a Donald Trump, 45 (a matter of time), non si tratta di un album politico ma sicuramente é una riflessione generale sul mondo.
Un album maturo in cui si mescolano ed emergono diverse influenze musicali dai Muse ai Deftones, in questi anni i Sum hanno ascoltato e rimescolato riuscendo a regalarci un album maturo e non scontato.
Dopotutto anche loro, come noi, sono diventati grandi.
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+
Enter Shikari
Tigress
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A Caprarola torna l’Eco Sound Fest: ecco la playlist per il festival che guarda all’ambiente
Dal 26 al 28 luglio tanta musica italiana in una cornice suggestiva, per un’esperienza da vivere a 360°
L’estate è da sempre il terreno fertile per momenti di aggregazione e serate tra amici e da un po’ di anni il palcoscenico dei più importanti festival musicali. Nel pieno della stagione delle rassegne, non poteva mancare l’Eco Sound Fest giunto alla sua settima edizione e ospitato dal Parco delle Ex Scuderie Farnese di Caprarola (VT) dal 26 al 28 luglio 2019.
L’Eco Sound Fest nasce da un’idea della Proloco Giovani con l’obiettivo di unire la promozione della creatività giovanile, in particolare legata alla produzione musicale, al rispetto dell’ambiente: leit motif di questo festival sostenibile, ormai punto di riferimento per chi condivide l’impegno di ridurre l’impatto ambientale, gli organizzatori hanno allestito il parco con ornamenti costruiti attraverso il riciclo creativo e, durante la manifestazione, sono previsti l’utilizzo soltanto di materiali ecocompatibili e una politica corretta di smaltimento dei rifiuti. Bottiglie, lattine, vecchie ruote e biciclette non sono più materiale di scarto, ma risorse preziose con cui decorare le diverse aree del parco.
Un palco tutt’altro che convenzionale, immerso tra le bellezze artistiche rinascimentali e i paesaggi incontaminati, vedrà esibirsi nei tre giorni Noyz Narcos, Nada, Canova, Claver Gold, Psicologi, Peter White, Pippo Sowlo e tanti altri, all’interno dell’affascinante terra della Tuscia, scenario perfetto che permetterà al pubblico di godere di un’esperienza a 360°: non solo musica con la sua area concerti, ma anche un’area campeggio attrezzato di docce e bagni, un’area relax, un’area espositiva, un’enoteca e un’area ristoro con piatti locali e stagionali per ogni tipo di intrattenimento e comfort. A pochi passi dalla location del festival, la Villa Farnese, il borgo medievale di Caprarola e la riserva naturale del Lago di Vico, raggiungibile con un servizio navetta.
L’ingresso di ogni giornata costa 5€, tuttavia è possibile acquistare un abbonamento che garantisce l’accesso a tutte le serate del festival al costo di 10€ (il prezzo di quest’ultimo aumenterà nei prossimi giorni). Tickets e abbonamenti acquistabili sulla piattaforma Do It Yourself: https://www.diyticket.it/festivals/123/eco-sound-fest-2019.
Per ulteriori informazioni: Pagina Facebook http://bit.ly/2rzmRZe – Evento https://bit.ly/2YMLcHS
Non perderti la nostra playlist dedicata agli artisti dell’Eco Sound Fest! Sono presenti i successi degli artisti dell’edizione 2019, da quelli dell’ultimo album di Noyz NarcosCasa mia e Mic Check, Domenicamara e Shakespeare dei Canova, inni indie pop al sapore di libertà, fino a Senza un perché della sacerdotessa del rock alternativo italiano Nada anche colonna sonora dell’acclamatissima serie tv The young Pope. Non mancano i progetti musicali protagonisti dell’edizione 2018: il pop romantico d’altri tempi degli Ex-Otago Quando sono con te, la penna visionaria e insieme concreta di Rancore (visto al Festival di Sanremo lo scorso febbraio), l’irriverenza folk e mai scontata di una delle proposte più fresche degli ultimi anni Eugenio in via di gioia Chiodo fisso e Giovani illuminati.
GOA-BOA 2019 ENTRA NEL VIVO: Dal 18 al 21 luglio sul palco dell’Arena del Mare CARL BRAVE, MAX GAZZÈ, SALMO, IZI e tantissimi altri.
Goa-Boa chiama Luna: a 50 anni dal primo passo dell’uomo sul suolo lunare, torna lo storico festival in scena nel Porto Antico di Genova.
Tra gli appuntamenti cardinali della scena festivaliera italiana, la kermesse in scena nel cuore de “La Superba” prende ufficialmente il via. Dopo le due prestigiose anteprime che hanno avuto come protagonisti Calcutta e Gazzelle, e dopo le due serate di “Goazilla” dedicate ai mostri sacri del rock (Steve Hackett e Jethro Tull), Goa Boa 2019 entra nel vivo della sua programmazione!
Cinque serate (da mercoledì 17 luglio a domenica 21) in cui si esibiranno artisti di diverso genere, da pesi massimi come SALMO e MAX GAZZÈ, ad esponenti delle nuove generazioni della musica italiana come, CARL BRAVE eIZI, sempre in accordo con lo spirito onnivoro divenuto autentico marchio di fabbrica della direzione artistica tracciata nel corso di queste 22 edizioni.
giovedì 18 luglio 2019
CARL BRAVE ALFA
DUTCH NAZARI
PNKSAND
GHEMON
DOLA
OLLY
FADI
TICKET 18.07.2019
Apertura porte ore 17
Biglietti in prevendita: 26€ + dp
venerdì 19 luglio 2019
MAX GAZZÈ “On the Road Summer Tour“
DIMARTINO
ROVERE
EUGENIA POST MERIDIEM
EMMANUELLE
DELLACASA MALDIVE
TERSO
HAN
TICKET 19.07.2019
Apertura porta ore 17
Biglietti in prevendita: 27€ + ddp
sabato 20 luglio 2019
SALMO “Playlist Summer Tour“
QUENTIN40
MASSIMO PERICOLO
SPERANZA
DANI FAIV
PSICOLOGI
FUERA
TICKET 20.07.2019
Apertura porta ore 17
Biglietti in prevendita: 35€ + ddp
domenica 21 luglio 2019
IZI ERNIA
SIDE BABY
PRIESTESS
MAGGIO
IRBIS37
TAURO BOYS
MATSBY
TICKET 21.07.2019
Apertura porta ore 17
Biglietti in prevendita: 25€ + ddp
GOA-BOA è realizzato da Associazione Psyco
in collaborazione con Comune di Genova, Regione Liguria, Porto Antico di Genova
INFORMAZIONI AL PUBBLICO: scopri tutto ciò che c’è da sapere su GOA BOA 2019 > CLICCA QUI
INFO e BIGLIETTERIA
È possibile raggiungere l’Arena del Mare del Porto Antico di Genova con estrema facilità. La location è situata a pochi minuti di distanza a piedi dal centro storico e dalle fermate delle linee di autobus che passano per Piazza Caricamento. È possibile arrivare rapidamente a destinazione anche dalla stazione ferroviaria di Piazza Principe (10 minuti a piedi circa e 2 fermate di metro). Per coloro che arriveranno in macchina da fuori città, si consiglia, in base alla provenienza, di prendere l’uscita Ge-Ovest o Ge-Est e proseguire per “centro città”.
All’interno dell’area del Porto Antico ci sono ampie possibilità di parcheggio, coperto e scoperto, comprensivi di posti per disabili, con tariffa oraria forfait dalle 20.00 alle 3.00 (parcheggi Siberia, Cannoniere, Autosilo e Gadda). A poche centinaia di metri in via della Marina c’è inoltre il Marina Park e un’area sosta per Camper.
Per chi già in possesso di biglietto, l’entrata è situata al termine di via Magazzini del Cotone. È possibile acquistare i biglietti in loco, (al termine di via Magazzini del Cotone) a partire dalle ore 19.00, o nei circuiti online e nei punti di prevendita territoriali indicati sul sito www.goaboa.it.
Magliette dei Joy Division, bruciature di sigarette sulle braccia, birre che volano sulle teste del pubblico, pogo selvaggio, Manuel Agnelli e i suoi capelli liscissimi. No amici, non siamo nel 1999. Le cose però, per una delle mie band del cuore, non sembrano cambiate granché, ad eccezione del numero esorbitante di smartphone pronto a riprendere e a registrare qualunque nota o parola pronunciata durante questa serata. Questa bolognese del Sonic Park è una delle due date che vedranno gli Afterhours esibirsi, per quest’anno e il pubblico è molto caldo.
Mentre aspetto che il concerto inizi penso a quante volte li ho visti dal vivo, dalla mia adolescenza ad oggi. Tante, sicuramente. Vicino a me, una donna sulla quarantina indossa la t-shirt del recente tour di Agnelli, A Night With, e non smette di farsi selfie con alle spalle il palco e di far vedere a tutti quelli che la circondano i video fatti durante i passati concerti del gruppo.
Preceduti dagli I Hate My Village e Rancore, Agnelli e i suoi salgono sul palco alle 21.30, spaccando praticamente il minuto. Se non fosse per la barba imbiancata di Manuel, e insolitametne lunga, sembrerebbe davvero che il tempo non sia passato. Fin dal primo pezzo, Rapace, la band milanese è ancora in grado di trascinare il pubblico in un vortice di chitarre e suoni taglienti.
Sul palco sono felice di rivedere anche Xabier Iriondo, chitarrista storico del gruppo, per qualche anno assente dalle scene, e felicemente ritornato dal 2016.
Quando arriva Male di Miele il pubblico inizia a ballare e pogare ai lati del palco. La ragazza sulla quarantina con la t-shirt dopo qualche spallata violenta viene risucchiata da un gorgo infernale e sparisce dalla mia vista. Mi chiedo se abbia mai fatto ritorno a casa.
Nonostante, come ha ripetuto più volte Agnelli durante la serata, abbiano fatto due soli giorni di prove, la chimica e l’energia che sprigionano è rimasta immutata. Gli Afterhours sono una macchina perfetta e l’elettricità è alta, si vede che c’è la voglia di fare un bel concerto. Infatti nonostante sarebbe potuta benissimo essere la classica esibizione da “best of”, non è così. Agli Afterhours piace spiazzare il pubblico e lo sanno fare maledettamente bene. Oltre alle classiche Padania, Il Paese è Reale, Bianca, BallataperlamiaPiccolaIena e NonèperSempre ci sono anche altri brani che non vengono eseguiti così spesso dal vivo, come Oppio o Seiofossiilgiudice.
Quando arriva Il mio popolo si fa, Agnelli è completamente trasfigurato in un Cristo in croce. Qualcuno dal pubblico gli urla “sei il mio messia”. Capelli lunghi, braccia aperte, ma niente a che fare con quella faccenda del “porgi l’altra guancia”. Gli Afterhours, se ci hanno insegnato qualcosa in questi anni, è proprio a non essere passivi. La vita ti dà uno schiaffo? Benissimo, tu daglielo indietro. Più forte e dove fa più male.
Agnelli negli anni è diventato più loquace, ha una maggiore voglia di raccontarsi, ma alcune cose sono rimaste immutate. Non dirà mai qualcosa solo per accattivarsi il consenso del pubblico. Un gruppo di ragazze di fronte al palco gli urla che la loro amica sta per sposarsi. “Cosa? Ah”, fine del discorso. Non un sorriso, non un ammiccamento, niente di niente. Ma è anche per questa personalità spigolosa che il suo pubblico gli vuole bene.
Quando gli Afterhours rientrano sul palco per i bis arriva il momento Iggy Pop della serata. Agnelli si toglie la maglia e a petto nudo, roteando il microfono come se fosse un nunchaku, esegue il trittico La verità che ricordavo, Lavedovabianca e ByeByeBombay.
Chiude la serata Voglio una Pelle Splendida, al termine della quale si accendono le luci e gli Afterhours si uniscono in un grande abbraccio. Anche noi li abbracciamo idealmente. Suonare per oltre due ore, con una scaletta dei tempi migliori e tutta l’energia che avevano a disposizione, dimostra un grande rispetto per il pubblico.
Chi si aspettava un compitino ben svolto si sarà dovuto ricredere: gli Afterhours sono in ottima forma, oggi come trent’anni fa.
Canzoni che ti salvano la vita Che ti fanno dire “no, cazzo, non è ancora finita!” Che ti danno la forza di ricominciare Che ti tengono in piedi quando senti di crollare Ma non ti sembra un miracolo Che in mezzo a questo dolore E tutto questo rumore A volte basta una canzone Anche una stupida canzone Solo una stupida canzone A ricordarti chi sei
Brunori Sas
Avete presente quei giocattoli degli anni ‘80 ‘90 che tornano come pezzi da collezione introvabili?
Ovviamente parlo come uno che è nato nella precisa metà degli anni 80, quindi perdo letteralmente il senno quando alla visione di certi giocattoli, veri e propri cimeli, riassaporo tempi andati ed incredibili flashback roboanti di scalpore emotivo. Sapori, odori, sensazioni. Come un sottilissimo filo invisibile legato al polso che senza preavviso ti strattona verso una capsula del tempo dall’efficienza immediata. Ricordo i “Masters”, il caschetto biondo discutibilissimo di He-Man e la faccia di mio fratello Mattia quando ci regalarono il castello di Grayskull. Coltivo e rinnovo un affetto smisurato per i “Ghostbusters”, dalla Ecto 1 in bacheca al fucile protonico che sparava cartucce gialle di plastica leggera, il giubbotto di jeans nero con il simbolo intramontabile degli acchiappa fantasmi e la visione a dir poco dozzinale di entrambi i film, capendo solo dopo i trent’anni di sapere a memoria ogni battuta dei lungometraggi. Ci sono le videocassette delle “Ninja Turtles” e la sigla di “Mazinga”, le canzoni (perché erano due e straordinarie entrambe) di “Carletto il principe dei mostri” e “Devilman”, la corsa a scuola cantando “Denver” e l’idiozia della ricreazione imitando “Pingu”. In realtà Pingu tutt’ora emerge in qualche aperitivo lungo con gli amici.
C’era 90°minuto a cena dai nonni e la Domenica Sportiva che sanciva innegabilmente la fine del week end coi gol di Van Basten e Maradona e l’attesa già spasmodica del piccolo spazio dedicato alla serie B con la speranza facessero vedere i gol del Cesena in trasferta. C’era guardare di straforo “Colpo Grosso” e l’harem di Umberto Smaila, c’erano “Bayside School” e “Willy il principe di Bel Air”, c’erano le “Micro Machine” e la fissa per lo “YO YO”… insomma un’infinita officina di ricordi che ora in maniera onesta ma spesso agrodolce vanno giustamente a mortificare l’asettico sviluppo dei nostri calvari giornalieri.
E cosa possiamo dire in merito della musica?
Sono certo che la musica fino all’avvento di internet e dei famigerati masterizzatori avesse un peso umano sicuramente differente, si prendeva con i guanti, ci si documentava per interessi, c’era una cultura del tutto più “paziente”.
Per carità, non scannatemi, adesso è tutto pocket, è tutto smart, è tutto di facile accesso e le possibilità di ricerca sono assolutamente quintuplicate. Il concetto che voglio trasmettere è che forse si è arrivati ad un punto di saturazione tale, ad un livello di possibilità talmente amplio che anche la ricerca verso un genere o una band particolare perde di senso ed efficacia.
Io per primo sono legato come una sorta di schiavo moderno alla magnificenza di Spotify. In casa, sul lavoro, in macchina, appena sveglio, prima di dormire, in campeggio, in vacanza, in tour con la band. Comodità e possibilità ad un prezzo più o meno ragionevole, insomma il costo esatto di due birre medie al pub. Però è chiaro che bisogna diversificare la strada e l’esperienza di come si è arrivati a sto punto partendo da un fulcro generazionale di base e avere la totale cognizione di ciò che non si è perso lungo il cammino.
I cinquantenni ora come ora sono i soggetti più a “rischio” nella giungla di Facebook e dei social network, per l’inesperienza sul campo, non per demeriti intellettuali o cognitivi, ma semplice abitudine di azione. Col serio rischio di demolire sottilissimi argini di decenza con fake news e un mondo nuovo all’apparenza disordinato che scombussola l’ormone ormai indirizzato al declino, si può incappare nella più totale e illogica strumentalizzazione del canale. In maniera speculare, con connotati diversi ma concettualmente similari le nuove generazioni hanno lo stesso tipo di bombardamento, subire delle circostanze senza conoscerne la fonte ne la motivazione. Non generalizzo in merito ma per lo meno una grande fetta non ha la cultura e la sacralità del gestire e manovrare la musica col rispetto che merita. Non è una colpa che si deve additare ai soggetti in questione. La struttura egemonica dei colossi musicali non lascia troppo all’immaginazione, il martellamento mediatico è a prova di scudo e ribellione, la RICERCA MUSICALE non è più tale semplicemente perche è divenuta una RICERCA di MERCATO. Ed è qui che muore la sovranità dell’anima e del passare le notti a guardare il cielo.
E qui arrivo al punto bisogna trovare una soluzione, una speranza, un simbolo.
Su due piedi penso solo a una cosa. IL VINILE.
Cazzo il vinile ancora oggi quanto spinge? Quanto regala? Quanto gusto trasmette tenerlo in mano, sfilarlo con cura e poggiarlo sul gira dischi con flemmatica cura? Impagabile. Potrà sembrare un viaggio anacronistico ma è il vero e unico viaggio della speranza che ci resta. Una forma di contatto coi nostri genitori, una formula alchemica che soddisfa più sensi in blocco, quello della vista, il senso del tatto e il senso dell’udito. Quel fievole saltellare accompagnato da un soffio leggero che esce dalle casse prima che parta l’inconfondibile sonorità che solo il disco può regalare esploda nella sua magnificenza.
Si potrebbe e si dovrebbe fare un discorso di questo tipo a chi vuole approcciare alla musica, raccontare le scorribande in scooter verso la “Sound and Vision” non appena la paghetta entrava nel marsupio della Napapijri e setacciare ogni angolo infausto del negozio di dischi che diventava in quel lasso di tempo una caccia al tesoro troppo importante. Non si poteva tornare a casa con un album scontato e quindi partiva la guerra di chi difendeva il punk all’italiana, chi si faceva paladino del metal, chi con lo skate oramai adottato come un estensione del proprio corpo non vedeva altro che la California in ogni sua forma. C’era dialogo e c’era competizione, sana e genuina, di quelle battaglie costruttive che ora comprendo meglio e ne faccio tesoro come una lezione di filosofia.
Semplicemente non ci siamo accontentati e abbiamo cercato e cercato la nostra strada fino a capire quale fosse il lido giusto in cui approdare, senza però perdere la libertà di scoprire e sperimentare.
Scrivendo queste righe mi accorgo della fortuna che ho avuto, non me ne faccio vanto come una mia conquista, il merito va ai miei genitori che di vinili e musica “buona” sono tutt’ora ghiotti ed è stato forse facile crescere con questa mentalità. Essendo sempre stato libero di scegliere ogni mia mossa, senza che mi fosse recriminato mai nulla anche quando della musica non me ne fregava troppo e pensavo solo a diventare un calciatore.
Insomma non si può recriminare un intera generazione se le cose vanno da schifo, se la politica collassa, se lo sport è un concorso di bellezza e se la parola e il dialogo sono stati soppiantati da uno smartphone. Loro, i giovani, ci sono nati in questo brodo fetido e non possono agire diversamente se non hanno esempi.
Quindi lunga vita a chi ci prova con la forza dell’interesse e della determinazione, a chi spende parole, tempo e penseri affinché vengano presi e coltivati da menti che hanno bisogno di essere plasmate. A chi non resta nelle quattro mura di casa, a chi spalanca le finestre ed alza al massimo volume la propria musica, la colonna sonora della propria vita. Una dedica ai miei colleghi di Vez Magazine, pionieri moderni di una vecchia ed immortale regola di vita, L’amore per la musica, fiero di farne parte al vostro fianco.
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[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Cliccate qui e seguite P0P su instagram!
“Stai Bene Così” è il nuovo video di TACØMA disponibile da oggi 17 luglio suYouTube. Il singolo è invece disponibile dal 9 luglio suSpotify e tutte le principali piattaforme streaming.
Gabriele Centelli, in arte TACØMA, è un compositore e autore livornese, già attivo dal 2013 nel mercato discografico indipendente con la band Platonick Dive con cui ha pubblicato tre album ed effettuato numerosi tour tra Italia, Europa e Stati Uniti. I testi e la musica di TACØMA sono un mix di cantautorato e sound urbano contemporaneo con un approccio decisamente pop-elettronico moderno. L’esigenza di scrivere in italiano, nata in maniera del tutto naturale e spontanea, affonda le radici nell’esperienza individuale ed artistica dell’autore, che racconta storie reali di vita vissuta del nostro quotidiano e di come l’era digitale dei social networks abbia ridotto, se non abbattuto, molte barriere culturali e professionali del passato ma abbia contribuito, a sua volta, ad aumentare il divario sociale nelle nostre relazioni sentimentali e personali. Il suo primo singolo “Ossigeno“, pubblicato il 31 maggio, ha esordito su Spotify nella playlist New Music Friday Italia.
“Stai Bene Così” è una canzone agrodolce che ha due volti: quello del sound, colorato e uptempo, e quello del testo, malinconico e nostalgico. Nel video TACØMA, con un look fortemente moderno in contrasto con l’ambientazione classica della location, si aggira da una stanza all’altra incontrando sul suo percorso ragazze e ragazzi che ballano sulle note della sua canzone. Come il brano ha un mood malinconico e al contempo ritmato ed estivo, così il video ripropone questa contrapposizione attraverso un pianosequenza al rallenty in un ambiente luminoso e festoso.
““Ho sempre pensato che il video di ‘Stai Bene Così’ dovesse essere qualcosa di molto particolare, dal forte impatto visivo e scenico, ispirandosi a campagne pubblicitarie di un certo spessore e fondendo un’ambientazione barocca con un mood moderno e colorato. Ecco infatti l’intenzione di creare un vero pezzo d’arte, una vera performance di canto, musica e danza in un unico piano-sequenza sfruttando dei colori molto forti e cercando di esaltare la bellezza di ciò che ci circonda. Il contrasto tra l’andamento danzereccio del brano ed il girato in slowmotion è la perfetta contrapposizione per evidenziare ulteriormente i piccoli dettagli della performance audio-video, come le liriche malinconiche che viaggiano in antitesi con la parte musicale decisamente estiva e orecchiabile””
“Stai Bene Così” è stata scritta da TACØMA, in collaborazione con Fabrizio Pagni per arrangiamenti e produzione. Il mix e il master sono a cura di Giuseppe Taccini. Il video è stato scritto e diretto da No Elevator Studio. Promozione a cura di RC Waves & dontcallmejoe.
Compendio e al tempo stesso ulteriore evoluzione. Esperimento, eppure definitivo manifesto. Visionario, per quanto tremendamente e terribilmente realistico.
Too Old to Die Young è tutto questo, ma prima di tutto è l’ennesimo capolavoro di Nicolas Winding Refn, registra e sceneggiatore danese che non ha più bisogno di presentazioni dopo il successo di Drive e la definitiva consacrazione con l’ipnotico The Neon Demon.
Proprio la pellicola del 2016, candidata alla Palma D’Oro del Festival di Cannes, offre una chiave di lettura, l’unica realmente efficace, per scardinare il grande enigma che si cela tra i lentissimi piani sequenza che mostrano personaggi completamente allo sbando, vittime delle proprie perversioni, prigionieri in una spirale autodistruttiva a cui non possono più rinunciare.
C’era una strega in The Neon Demon, una truccatrice quasi invisibile agli occhi dei più, che si cibava, letteralmente, di giovani modelle, della loro bellezza fanciullesca, del loro fascino ferino. In Too Old to Die Young, invece, c’è una veggente, diretta incarnazione di una madre tanto amata, anche carnalmente, che da lontano, e senza darlo a vedere, ordisce, tira le fila, muove come burattini i suoi uomini che pur sembrano costantemente al comando.
La donna, per il più recente Nicolas Winding Refn, esercita il potere servendosi di doti sovrannaturali, tessendo diaboliche e complesse trappole in cui restano stritolati uomini incapaci di reagire, schiavi di pulsioni tanto ancestrali, quanto contaminate da una contemporaneità gretta, degenere, corrotta.
In The Neon Demon le vittime erano il povero Dean, il cui amore non bastava per domare la bestia che cresceva, di pari passo con la sua fama, nella sedicenne Jesse; il subdolo Hank, interpretato da un sempre bravissimo Keanu Reeves, costretto ad una vita di compromessi e di solitudine; Jack, fotografo rinomato, che ad ogni inquadratura sembra possa esplodere in un raptus di violenza carnale, ma che in realtà è solo ossessionato da un fascino, quello di Jesse per l’appunto, che fatica ad imprigionare nelle sue foto.
In Too Old to Die Young, tra gli uomini impotenti spicca Martin, detective dalla condotta morale tutt’altro che irreprensibile, la cui parallela attività di violento vigilante, lo porterà, sempre indirettamente, a scontrarsi con la bruja messicana. Figura centrale della serie, che si protrae per dieci episodi, molti dei quali di una durata ben superiore ai sessanta minuti, il poliziotto incarna in qualche modo tutti gli archetipi dei protagonisti dei film di Refn, tendenzialmente taciturni, rissosi, pulsanti di vita solo quando si tratta di toglierla a qualcun altro.
Dialoghi dilatati ed inquadrature che indugiano oltre ogni possibile immaginazione, sono i principali strumenti linguistici di una regia che non scende mai a compromessi, intransigente al punto da diventare quasi patetica, insopportabile, incomprensibile.
Eppure, la magia del regista danese funziona anche stavolta, grazie ad una fotografia semplicemente straordinaria, capace di dipingere scenari onirici, lisergici, sospesi nel tempo. C’è tanto Lynch nelle sue inquadrature, ma nel set design sembra di vedere all’opera Stanley Kubrick e il suo amore per le geometrie perfette. Non c’è mai un oggetto fuori posto, né un dettaglio lasciato al caso. Ogni fascio di luce, ogni oggetto, ogni silenzio è un’allegoria, una metafora, l’ennesimo enigma consegnato ad uno spettatore che deve destarsi di continuo da una trance resa tanto più potente da una colonna sonora strepitosa.
Cliff Martinez, ormai spalla inseparabile di Refn, compositore della soundtrack, non si sposta più di tanto dalle sonorità già apprezzate in The Neon Demon, giocando con l’elettronica, con i suoni ondulati, usando tastiere e sintetizzatori quasi fossero moderni theremin.
Too Old to Die Young, nel pieno rispetto della poetica di Nicolas Winding Refn, non è una serie per tutti. I tempi morti abbondano e la trama, di per sé, è di una semplicità tale da risultare quasi banale. Eppure, qualsiasi amante di buon cinema, resterà folgorato ad ogni piano sequenza, indissolubilmente attratto dalla sinistra e malsana storia di sangue e depravazioni, inscenata con uno stile ineguagliabile e sconosciuto alla quasi totalità delle recenti serie TV.
Da qualche anno a questa parte sembra essere esplosa una sorta di Frida Mania.
Il volto dell’artista messicana sembra essere riprodotto ovunque su magliette, biglietti, scarpe, borse e tatuaggi. Folte sopracciglia, capelli neri e corona di fiori, un profilo facilmente identificabile da tutti.
Frida Kahlo è senza dubbio un’icona ma chi era veramente questa donna che tutti riconoscono ma pochi conoscono sul serio?
Una femminista dal carattere forte e indipendente, un’artista e un’attivista politica. Tutti conosciamo il volto di questa donna dalle mille sfaccettature.
Appassionata, sognatrice ma dal fisico minato.
Frida Kalho potrebbe essere presa come emblema della resilienza: nonostante le difficoltà che la vita ha messo sulla sua strada lei non si è mai fermata, non si è mai arresa.
La sua arte è un inno alla vita, è quello che le ha dato la forza di andare avanti senza mai arrendersi.
Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderon nasce il 6 luglio 1907, anche se lei diceva di essere nata nel 1910 con la rivoluzione che ha portato al Nuovo Messico. Un legame forte e intenso quello che aveva con la sua terra tanto da portarla a considerarsi una figlia della rivoluzione.
Sono nata con una rivoluzione. Diciamolo. È in quel fuoco che sono nata, pronta all’impeto della rivolta fino al momento di vedere il giorno.
Malata di spina bifida, erroneamente confusa con la poliomerite, non verrà curata nel modo corretto e dovrà convivere con una deformazione alla gamba destra per tutta la vita. Da piccola questo difetto le varrà il soprannome di Gamba di Legno. Ma Frida non si è mai nascosta. Ci ha insegnato che la cosa più importante è amare noi stessi.
Nel 1925 rimarrà vittima di un terribile incidente: l’autobus su cui viaggiava si scontrò con un tram e Frida venne trapassata dal corrimano del mezzo.
Non versai alcuna lacrima. L’urto ci trascinò in avanti e il corrimano mi attraversò come la spada il toro.
Si salvò per miracolo ma riportò diverse ferite gravissime tra cui fratture alla colonna vertebrale e il bacino. Fu durante la sua convalescenza, costretta a letto per diversi mesi, che si avvicinò all’arte.
Sdraiata su un letto a baldacchino, su cui avevano fatto montare uno specchio, inizierà a dipingere degli autoritratti.
Dipingo me stessa perché passo molto tempo da sola e sono il soggetto che conosco meglio.
I dolori provocati dall’incidente, che la accompagneranno per tutta la vita non riuscirono però a fermarla.
L’arte di Frida si ispira alla cultura popolare e a quella precolombiana sia per l’abbigliamento delle figure che per gli elementi naturalistici.
Nel 1928 incontra Diego Rivera, uomo di 20 anni più grande e noto donnaiolo, che rimase incantato dallo stile e dalla personalità dell’artista. Conscia dei tradimenti che sposarlo avrebbe comportato l’anno seguente convolano a nozze.
Ho subito due gravi incidenti nella mia vita…il primo è stato quando un tram mi ha travolto e il secondo è stato Diego.
Spirito libero ed anti conformista ebbe numerosi amanti di prestigio (uomini e donne) tra cui figurano il politico Lev Trockij, il poeta Andrè Breton e probabilmente la fotografa Tina Modotti.
Frida Kahlo e Diego Rivera
A causa dell’incidente non riuscì mai a portare a termine le gravidanze e questo per lei fu un duro colpo. Nel 1939, a seguito del tradimento con la sorella minore Cristina, lei e Rivera divorziano per poi risposarsi l’anno seguente.
La foro fu una storia all’insegna del tradimento, della passione e soprattutto dell’arte.
E’ stata una femminista, una politica una donna forte e indipendente.
La sua figura, la sua vita e ovviamente le sue opere hanno ispirato diversi artisti, anche in ambito musicale.
Nel 1954, 8 giorni prima di morire, Frida dipinge una tela dal titolo Viva la Vida: Angurie. Si tratta di un dipinto che rappresenta dei cocomeri. I colori predominanti sono il rosso, il verde e l’azzurro. Un dipinto allegro su cui, in primo piano, inciso nella polpa del frutto spicca la scritta VIVA LA VIDA Frida Kalho.
Viva la Vida, 1954
I Coldplay, per la loro canzone Viva la Vida del 2008, hanno preso spunto proprio da questo quadro
“Come sappiamo lei è passata attraverso tanta di quella merda eppure dopo tutto ciò ha voluto realizzare un grande quadro in cui si leggeva, appunto, Viva la vida. Ho amato il coraggio di questo gesto.”
Con queste parole Chris Martin spiega cosa ha spinto lui e la band ad intitolare così la canzone e l’album omonimi.
Diversa la scelta fatta da Florence and the Machine che in What I Saw in the Water si ispirano al quadro Lo que el agua me dio.
Lo que el agua me dio, 1938
Il quadro è una visione onirica della vita umana, rappresentata attraverso una serie di corpi che fluttuano nell’acqua di una vasca da bagno. La canzone, invece, traendo ispirazione dai corpi in acqua pone l’accento sui bambini che vengono trascinati via dalla corrente del mare.
Anche il nostro connazionale Marco Mengoni nell’ultimo album Atlantico ha inserito una traccia dal titolo La Casa Azul.
La Casa Azul, foto di Valentina Bellini
Il brano erige Frida a simbolo di forza: dobbiamo prendere esempio dalla sua storia per imparare a trasformare le sofferenze in qualcosa di positivo.
La Casa Azul è il luogo in cui Frida è nata e in cui ha vissuto per gran parte della sua vita. Fu trasformata in un museo a lei dedicato per volere di Rivera che però morì prima dell’inaugurazione avvenuta il 30 luglio 1958.
Frida e la sua vita, costellata dal dolore, andrebbero ricordate e studiate affinché la sua figura non sia usata come un semplice oggetto di merchandise.
E’ stata una donna che ha lottato, aggrappandosi alla vita con le unghie e con i denti, e che ci ha insegnato l’importanza di rimanere sempre fedeli a noi stessi senza mai snaturarci. I suoi lavori sono stati in grado di prendere le brutture della vita e trasformarle in gioielli.
Frida ormai non è più solo un’artista, è una donna entrata nel mito.