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Strappare Lungo i Bordi

Attenzione: questo articolo contiene spoiler

Che cos’hanno in comune Xdono di Tiziano Ferro, Clandestino di Manu Chao e Non Abbiam Bisogno di Parole di Ron? 

All’apparenza niente, e soprattutto niente prima del 17 novembre. Poi Michele Rech, al secolo ZeroCalcare, ha deciso che era una buona idea posizionarle una dietro l’altra in quella che è l’unica opera in grado di mettere d’accordo tutto il paese dai tempi del compromesso storico: la serie animata Strappare Lungo i Bordi.

Dell’attesissima serie se ne sta parlando diffusamente, e – tranne qualche voce fuori dal coro sui social volutamente da bastian contrario – sempre con toni lusinghieri ed entusiasti, perché è oggettivamente un gran bel lavoro, frutto di una cura per i dettagli magistrale. E di conseguenza, altrettanto curata è la colonna sonora, eclettica e trasversale, talmente variegata da mettere anche lei d’accordo tutti, o quasi.

Partiamo dalle basi: esistono film in cui la colonna sonora a volte sembra quasi estranea. Magari decontestualizzata non sarebbe neanche malvagia, ma lì, in quella specifica situazione, in qualche modo stona. Qui invece, in sei episodi per un totale di un’ora e mezza, non c’è una nota fuori posto. Anche la giustapposizione fra Clandestino e Xdono per andare a descrivere i decisamente diversi input musicali di un adolescente nel 2001, per quanto suoni strana e faccia pensare “ma che c’azzecca Manu Chao con Tiziano Ferro”, funziona come la voce di Valerio Mastandrea sull’Armadillo, e cioè alla perfezione.

E poi c’è la varietà. Momenti accompagnati dal pop più ballabile a cui possiate pensare accanto ad altri in cui invece è la base strumentale a fare da padrona, lasciandosi avvicinare solo da qualche rara parola, come nel caso di Wait degli M83. Canzoni nazional-popolari vicine ad altre più ricercate, meno note sulla scena italiana, una su tutte Haut Les Coeurs del collettivo francese Fauve. Più che una canzone sembra quasi un discorso messo su una base; un ritmo incalzante fino a diventare ansiogeno, che poi si stabilizza nel ritornello e invita alla speranza molto più di quanto ci si aspettasse. Nonostante non sia nell’ultimo episodio, questo pezzo del 2013 riassume benissimo, a mio parere, il senso della serie.

“Tu vois, moi aussi j’ai peur, j’ai peur en permanence (Vedi, anch’io ho paura, ho paura in continuazione)
Qu’on m’annonce une catastrophe (che mi venga annunciata una catastrofe)
Ou qu’on m’appelle des urgences (che mi chiamino dal pronto soccorso)
Mais on a la chance d’être ensemble, tous les deux (ma abbiamo la fortuna di essere insieme, noi due)
De s’être trouvés, c’est déjà prodigieux” (di esserci trovati, ed è già un miracolo)

Bisogna poi parlare nello specifico di due pezzi. Il primo è ovviamente la sigla, Strappati Lungo i Bordi, realizzata ad hoc da Giancane. È una canzone potente, che ti si appiccica in testa e non ne vuole sapere di andare via. È una canzone che ti fa sentire giovane ma non incompleto, e mi perdonerà il Signor Italo Calvino, perché a suo modo ti fa sentire parte di un qualcosa e soprattutto ti fa sentire compreso, come se dicesse “Tranquillo che ce sta qualcun altro su ‘sta barca”. Anche altri pezzi strumentali apparsi nella serie sono stati curati da Giancane, che già aveva prestato a ZeroCalcare la sua Ipocondria per i video usciti durante il periodo del primo lockdown, a conferma di come questa collaborazione sia ormai già ben collaudata e fruttuosa.

L’altro pezzo che merita una menzione speciale è The Funeral dei Band of Horses, o come ormai può essere definito, dato il suo utilizzo nel mondo cinematografico e televisivo, “il colpo di grazia”. Fin dalle prime note, chi la conosce può presagire che stanno per arrivare le lacrime, ma in realtà è una canzone così eloquente che può intuirlo anche chi invece non ha familiarità. Ed è proprio questa eloquenza, questo quasi invitarti a piangere con i suoi silenzi e i suoi cambi di intensità studiati, che la rende perfetta per il commoventissimo finale della serie. 

Proprio come la voce dell’Armadillo.

 

Francesca di Salvatore

Pan American @ Tipoteca Italiana

Tundra, Paesaggi Sonori Contemporanei
Cornuda (TV) // 19 Novembre 2021

 

Pan American: un viaggio ad occhi chiusi

Non credo sia ancora stato fatto, almeno non che io sappia, e sta di fatto che al momento non ho voglia di cercare e magari smentirmi, tuttavia credo che qualche giornalista, scrittore, critico musicale, dovrebbe prima o poi scrivere una sorta di apologia per “coloro che chiudono gli occhi durante i concerti (ma non stanno dormendo)”.

Ieri sera, circondata da una leggera nebbiolina padana, la Tipoteca di Cornuda (primo inciso, luogo che meriterebbe una visita, quando incidentalmente doveste passare da quelle parti) ha ospitato, grazie a quegli impavidi di Lynfa, la prima data del mini tour italiano di Pan American (l’indomani sarebbe stata la volta di Jerusalem in My Heart, e sfido chiunque a trovare una doppietta più azzeccata per un festival che s’intitola Tundra – Paesaggi Sonori Contemporanei), il progetto solista di Mark Nelson, già chitarra e voce dei Labradford, ai quali il sottoscritto sarà eternamente grato.

Ero già stato in Tipoteca, almeno un paio di volte, per Chris Brokaw e Julia Kent se non erro, e il piccolo auditorium va pian piano riempendosi quando poco dopo le 21.30 il nostro guadagna il centro del palco, un timido (ma timido timido davvero) saluto al microfono un po’ in italiano, un po’ in inglese, e imbracciata la chitarra le prime note iniziano a diffondersi nell’aria.

Ora, il cappello iniziale non era buttato lì a caso, ma era un pensiero che ho elaborato mentalmente durante buona parte dello svolgimento del primo brano in scaletta, che in realtà trattavasi più di una suite lunga quasi mezz’ora, fatta di synth e arpeggi di chitarra, dilatati, languidi, dove verso la metà fa capolino anche la magnifica Memphis Helena, tratta dall’ultimo disco a nome Pan American, A Son con un sussurrato “I′m away from home / I’m away from home in time / We left it all behind”.

Non c’è illuminazione sul palco, la poca luce che si diffonde sulla scena è data dalla proiezione di una serie di video (riprese dal treno o da un auto durante una pioggia, semafori, palazzoni, campi di girasole, riprese subacquee da una piscina pubblica e a parere dello scrivente non così centrali e funzionali alla narrazione, ma si tratta di certo di un mio limite), e Mark Nelson, escluse la rare volte nelle quali si affaccia dalle parti del microfono, è spesso chino o davanti al laptop o accucciato ad armeggiare con i multieffetti della pedaliera, ed è chiaro che il messaggio che mi sta rivolgendo è “non c’è niente da vedere qui, dirigi il tuo sguardo altrove”; però con tutto il rispetto, non siamo all’interno di una sala rinascimentale rivestita di affreschi e decorazioni, il pur confortevole auditorium offre bianche pareti e lucido legno moderno, è chiaro che il viaggio da fare è più astratto, spirituale direi, e quale modo migliore per farlo che chiudendo gli occhi e abbandonandovisi.

Ed è quello che faccio.

Per oltre un’ora mi lascio condurre e trasportare, il concerto scivola via sorprendentemente veloce, nonostante la musica di Pan American sia lenta, minimale, impercettibile a volte, sfuggevole, dall’andamento e dalla struttura spesso simile eppure mi trovo a pensare che sebbene io abbia l’impressione di ascoltare sempre lo stesso pezzo mi trovi ogni volta in posti diversi, ugualmente affascinanti.

Ed in effetti in vita mia non sono mai stato tanto a nord, la tundra per me è solo una reminiscenza scolastica “tundra, taiga, muschi e licheni” e mi avvio verso casa, la nebbia di prima è ancora lì ad aspettarmi, d’altronde mi pare si sposi bene col contesto generale. 

Am I away from home?

 

Alberto Adustini

Oasis, Knebeworth 1996: questo weekend in TV

Arriva in TV questo weekend il docufilm degli Oasis Knebworth 1996, proiettato a fine settembre nei cinema italiani e raccontatoci dalla nostra Laura Faccenda nel suo articolo Oasis, Knebworth 1996.

Se vi siete persi la proiezione, non disperate!

Potete recuperare a partire da oggi, venerdì 19 Novembre, e per tutto il weekend fino a lunedì 22 Novembre su MTV, MTV Music e VH1.

Venerdì 19 Novembre
ore 20:00 – MTV Music (SKY: canali 132, 704)
ore 23:40 – MTV (SKY: canale 131; in streaming su NOW)

Domenica 21 Novembre
ore 19:00 – VH1 (Digitale terrestre: canale 67; Tivùsat: canale 22; SKY: canale 715)

Lunedì 22 Novembre
ore 22:10 – MTV Music (SKY: canali 132, 704)

The Darkness “Motorheart” (Cooking Vinyl, 2021)

Rock stravagante

Easter Is Cancelled, pubblicato nel 2019, è diventato il quarto disco nella Top 10 della band inglese, ottenendo ottime reazioni da fan e critica musicale; due anni dopo, The Darkness tornano in scena con Motorheart. Possiamo notare, già osservando la coloratissima copertina, come la stravaganza sia ormai una peculiarità, un marchio di fabbrica dei nostri. Ma riusciranno anche stavolta ad unire in modo equilibrato stravaganza e qualità musicale?

Il primo brano della tracklist, Welcome Tae Glasgae, è parecchio carico. È chiaro, nulla di innovativo, le solite cavalcate di chitarra affiancate da acuti incredibili in puro stile Rock anni ’70, certo, ma questo mix funziona sempre, almeno con The Darkness. E in realtà l’intero album non rivelerà chicche o soprese, ma manterrà un tiro piuttosto costante. Alcuni brani sembrano essere perfetti per essere riprodotti durante un viaggio in auto, magari soprattutto in questo periodo autunnale, altri invece una sana carica preallenamento, come ad esempio la title track, con il suo riff di chitarra che ricorda le sonorità tipiche mediorientali, e Nobody Can See Me Cry. Molto suggestiva la mid-tempo Sticky Situations, che spezza l’album prima degli ultimi brani. Eastbound si rivela il pezzo dal timbro più classico, dal ritmo preciso e adrenalinico. Difficile non notare in alcune parti i tratti distintivi dei più grandi pezzi Rock di fine anni ’70 e inizio anni ‘80, in particolar modo quelli degli Asia. Più variegata e ispirata è Speed Of The Nite Time, che chiude il disco in bellezza.

Tirando le somme, Motorheart è il tipico album Glam Rock senza fronzoli che ci si può aspettare da una band come The Darkness. Una band che ormai sa il fatto suo e soprattutto sa cosa cercano i propri fan. Qui troviamo infatti belle atmosfere, chitarre pesanti, voci che più pulite e acute non si può, ma anche stravaganza e divertimento. Un album che senza dubbio non deluderà, ma che non raggiunge minimamente i livelli del precedente e sembra essere parecchio sottotono.

 

The Darkness

Motorheart

Cooking Vinyl

 

Nicola Picerno

SKY ARTE presenta INDIE JUNGLE • Un viaggio nella musica dal vivo con 11 concerti

SKY ARTE
presenta

INDIE JUNGLE
Un viaggio nella musica dal vivo con 11 concerti

AL VIA LA NUOVA STAGIONE

Con Ministri, Motta, Joan Thiele, Fast Animals and Slow Kids, Myss Keta, Francesco Bianconi, Melancholia, Tutti Fenomeni, NAIP, Vasco Brondi, Margherita Vicario

IN ONDA DA SABATO 20 NOVEMBRE ALLE 20.15 SU SKY ARTE,

ANCHE ON DEMAND E IN STREAMING SU NOW

CIASCUN LIVE SARÀ INOLTRE DISPONIBILE PER TUTTI SUL SITO DI SKY ARTE

 

 

La musica dal vivo torna su Sky Arte: dal 20 novembre al via la seconda stagione di INDIE JUNGLE, il programma di approfondimento musicale, che propone 11 puntate monografiche per altrettanti concerti.

Dopo il successo della prima stagione, che ha visto protagonisti alcuni tra i nomi più rappresentativi della scena musicale contemporanea, torna il nuovo format televisivo in cui gli autori della musica indie italiana si raccontano attraverso speciali interviste e si esibiscono in esclusive live session. Una formula dedicata al mondo dei live che propone sullo schermo l’esperienza di un intero concerto dal vivo.

Protagonisti della seconda stagione di INDIE JUNGLE sono: Ministri, Motta, Joan Thiele, Fast Animals and Slow Kids, Myss Keta, Francesco Bianconi, Melancholia, Tutti Fenomeni, NAIP, Vasco Brondi, Margherita Vicario.

Un parterre di voci e storie che rappresentano un importante spaccato della musica attuale. In calendario 11 serate alla scoperta delle sonorità e delle storie degli artisti coinvolti, attraverso un accurato ritratto che rende questi live dei veri e propri mini documentari.

Format dedicato alla musica live, INDIE JUNGLE è pensato come un momento per dare spazio e visibilità a nomi del panorama musicale italiano, focalizzando l’attenzione sull’esibizione dal vivo e sul racconto delle storie che si celano dietro la creazione artistica.

In onda su Sky Arte da sabato 20 novembre alle ore 20.15, INDIE JUNGLE sarà disponibile anche on demand e in streaming su NOW. La puntata integrale sarà inoltre visibile in streaming gratuito per tutti sul sito di Sky Arte https://arte.sky.it/.

Con 11 nuove puntate e nuove storie, INDIE JUNGLE si conferma uno speciale approdo per la musica dal vivo: uno spazio in cui nomi della scena italiana realizzano una esclusiva performance dedicata al pubblico televisivo.

Protagonisti della prima stagione sono stati Frah Quintale, Fulminacci, Calibro 35, Coma Cose, La Rappresentante di Lista, Gazzelle, Ghemon, Eugenio in via di Gioia, Colapesce e Dimartino, Selton, Lucio Corsi, Lucio Leoni. Straordinarie voci che hanno infiammato lo schermo, in un momento che vedeva l’assenza della musica live.

INDIE JUNGLE è un programma scritto da Max De Carolis e Fabio Luzietti e prodotto da ERMA PICTURES in collaborazione con Sky Arte, ATCL e Spazio Rossellini. È in onda dal 20 novembre su Sky Arte (canale 120 e 400 di Sky) e sarà disponibile on demand e in streaming su NOW. Visibile anche sul sito di Sky Arte https://arte.sky.it/.

Tutti i concerti sono stati registrati in studio presso il polo multimediale Spazio Rossellini a Roma.

CALENDARIO PUNTATE

20 novembre 2021 Ministri

27 novembre 2021 Motta

04 dicembre 2021 Joan Thiele

11 dicembre 2021 Fast Animals and Slow Kids

18 dicembre 2021 Myss Keta

08 gennaio 2022 Francesco Bianconi

15 gennaio 2022 Melancholia

22 gennaio 2022 Tutti Fenomeni

29 gennaio 2022 NAIP

05 febbraio 2022 Vasco Brondi

12 febbraio 2022 Margherita Vicario

 

Tre Domande a: Mått Mūn

Come e quando è nato questo progetto?

Il progetto Mått Mūn ha rappresentato per me un nuovo inizio, un nuovo focus musicale. Negli anni precedenti avevo spaziato tra molti generi e stili, sempre con delle band, e ad un certo punto, precisamente nel 2018, ho sentito che era arrivato il momento di trovare una nuova forma, un’incarnazione definitiva e totalmente personale, per poter fare un passo avanti, per venire completamente allo scoperto e poter crescere, mostrando tutto ció che avevo dentro in una dimensione più matura, al massimo della creatività.

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Profonde emozioni, caleidoscopiche sensazioni, idee e curiosità per il variegato mondo che ci circonda e per le meravigliose e sconfinate connessioni tra l’essere umano e il cosmo a cui appartiene.
Mi piacerebbe dare qualcosa di originale, di profondo, portando l’ascoltatore su altri mondi attraverso le melodie e le tematiche espresse, cercando di trasmettergli un po’ del mio animo sognante.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Sceglierei proprio il singolo in uscita in questi giorni, Iridescent, primo estratto dal nuovo album LUX. I motivi sono molteplici…Innanzitutto perchè credo che il brano abbia un perfetto mix e una giusta alchimia per quanto riguarda i generi che più amo e che più ho cercato di approfondire negli ultimi anni: l’elettronica, il rock, il synthpop. Inoltre Iridescent è una canzone energetica, positiva, colorata, luminosa, con un ritornello molto orecchiabile, con un tema di base che ritengo interessante e ricco di sfumature.

NAFTALINA – Online il nuovo singolo “Betta 96”

Naftalina

Il Nuovo Singolo

Betta ‘96

 Disponibile dal 16 Novembre
su tutti gli store digitali

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Inizia un nuovo capitolo per i Naftalina che cambiano decisamente aria.

Peter, fondatore della band, sceglie la strada di un album solista, molto diverso dai lavori precedenti, abbandonando definitivamente il genere Pop-Punk che lo ha contraddistinto per anni, ricercando nuove sonorità più cupe, un sound emotivamente più triste, ricco di atmosfere malinconiche circondate da pianoforti, violini e synth, mantenendo lo pseudonimo originale.

Il nuovo singolo si chiama Betta ‘96 e potete ascoltarlo qui.
ed è un tributo e ricordo del primo concerto dei Prozac+ che vide il cantante dei Naftalina il 12 aprile del 1996 in provincia di Ravenna.
Fin da subito divenne un loro grande fan, poi un amico, seguendoli a più date possibili in giro per l’Italia.
Il testo attraversa l’atmosfera del concerto, ma anche di una giornata tipica della band di Pordenone in Tour, sempre in viaggio su un Van, i vari preparativi, dallo scarico del furgone, il soundcheck, e ovviamente il ricordo di una Elisabetta Imelio al basso, sempre super energica e positiva, con il suo stile inconfondibile sul palco, tra salti e sorrisi e l’inesauribile voglia di parlare a fine concerto con i propri fans.

I Prozac+ furono il progetto musicale più innovativo e brillante di quegli anni ’90 in Italia, portarono sulla scena musicale nostrana una vera e propria ventata d’aria fresca raggiungendo il loro apice con Acido Acida , la Hit che fece storia fino a diventare una canzone Cult tutt’ora suonata ovunque.

 

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Musica, testo, arrangiamenti, voce, piano, chitarra, basso: Peter Torelli
Batteria: David Sabiu
Chitarra acustica: Riccardo Faedi
Quartetto d’archi dell’orchestra sinfonica di Parma:
I violino: Cesare Carretta
II violino: Michela Zanotti
Viola: Aldo Maria Zangheri
Violoncello: Anselmo Pelliccioni

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Tre Domande a: Aligi

Come e quando è nato questo progetto?

Il progetto di questo nuovo disco è nato circa due anni fa durante il primo lockdown. Ero a Milano e avevo da poco ricavato un piccolo studio di registrazione nel ripostiglio degli attrezzi che avevo sul terrazzo di casa. Quella è diventata la mia tana che poco tempo dopo ho soprannominato “la nave”: intere mattinate e nottate a suonare, a scrivere e a scartare materiale per poi affacciarmi dalla finestra e assistere a quei momenti dilatati e così inaspettati. Ho imparato ad avere fiducia nei primissimi momenti di scrittura, quando è tutto nella tua mente, ma tu già lo vedi e vorresti come per magia essere al punto in cui stai rifinendo le ultime cose. E invece ero soltanto all’inizio e stava tutto a me, così ho iniziato a tirare fuori suoni da un nuovo synth analogico che avevo comprato da poco, collegato a una drum machine e, sempre presente, la mia chitarra. Ricordo poi con precisione un momento successivo, un’intuizione, la visione sonora di come sarebbe stata effettivamente la strada del mio nuovo percorso creativo. Ho cominciato a unire un suono più acustico e dalle influenze indie-rock con l’elettronica, il sapore psichedelico e sognante delle armonizzazioni dei cori e delle slide guitars a un’atmosfera più clubbing, dove linee di synth bass e arpeggiator si incastrano perfettamente con drum kit caldi e potenti. Infine, la voce. La voce quasi come uno strumento, dove più linee vocali si sommano e armonizzano così da creare un impatto deciso e delineato. Volevo poi poter descrivere quelle sensazioni di incertezza e di mistero che si respiravano in quelle giornate di primavera così insolite e a volte tragiche. Direi che quel periodo è stato davvero decisivo per la realizzazione dell’EP che uscirà, sia nei contenuti dei testi che nelle sue sonorità.

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Con la mia musica cerco di portare chi ascolta (e me stesso in primis) verso una dimensione sonora capace di guidare in atmosfere spesso sognanti. Vorrei far ballare, perché anche io amo ballare, e vorrei che le persone potessero sentire quella stessa esigenza che sento io di scavare sempre più in profondità nella vita, di ricercare l’energia che spinge ad andare avanti, a stupirsi, a non demordere, a sfidarsi, a credere in se stessi e credere che ogni essere umano abbia appunto “una luce sua”, una luce interiore. A volte c’è una velata nostalgia nel mio processo creativo, sia per quanto riguarda le musiche che i testi; altre volte c’è un fuoco dirompente di estasi e di voglia di festa e leggerezza, senza fine. Come sempre luce e ombra coesistono, devono esserci, mi piace tantissimo quest’aspetto delle cose che si ripercuote in tutto, in natura così come nell’arte e nella musica. Esporre il lato più sensibile e autentico di quello che vedi e poi saper accoglierne le sue oscurità più improvvise. A questo proposito, cito Il Piccolo Principe perché penso sia un grande esempio artistico e letterario, una grande guida per molti di noi (e a volte, io mi rivedo un po’ in lui).
Dal punto di vista sonoro, mi piace invece pensare e comunicare che la mia musica sia un mix tra le armonizzazioni psichedeliche e taglienti dell’album Revolver dei Beatles e le incessanti e aggressive drum machines dei Chemical Brothers, dove il Cosmo dei giorni nostri è sicuramente un artista da cui prendere esempio per stile e inventiva.

 

C’è un artista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare?

Uno dei miei sogni sarebbe quello di poter conoscere e collaborare con Josh Homme, frontman e leader dei Queens of the Stone Age. Amo il suo sound e le cose che ha creato, anche nelle produzioni che ha fatto separatamente con altri artisti, c’è qualcosa di mistico e spirituale nella sua musica che sento molto vicino e mi incanta sempre. Mi piacerebbe poter andare insieme nello studio che ha nel Joshua Tree che si chiama Rancho de la Luna e registrare qualcosa, magari un nuovo EP o delle Desert Sessions. Spesso fantastico su quanto potrebbe essere stimolante e interessante lavorare al suo fianco, unendo il suo stile ipnotizzante e dal sapore californiano alle mie visioni più elettroniche e “danzerecce”(cantate, perché no, anche in italiano).

 

Damon Albarn “The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows” (Transgressive Records, 2021)

Era il 1818 quando Caspar David Friedrich dipinse il suo Der Wanderer über dem Nebelmeer, noto a noi come il Viandante sul mare di nebbia. Il quadro diventò presto un’icona del movimento Romantico tedesco, perché rappresentava una sintesi di tutti quelli che erano i concetti e i dogmi del nascente pensiero romantico.

Un uomo, controluce, contempla la natura che si manifesta davanti a lui. È un gioco di contrasti, di antitesi, tra razionale e mistico, tra definito e indefinito, tra chiaro e scuro, tra immanente e trascendente. Ma è anche un gioco di metafore e di ruoli, come quello dell’uomo e del suo rapporto con la natura. E il mare fatto di nebbia, spettacolo “meraviglioso, come a volte ciò che sembra non è”, ci porta dentro un labirinto di metafore e allegorie quasi senza fine.

Ascoltando l’ultimo album di Damon Albarn, il suo secondo lavoro solista, ho avuto la sensazione di essere davanti a un Viandante che la nebbia non l’ha solo descritta, ma è andato anche a cercarsela.

Aggiungiamo il tema del sogno, quello fatto da un Damon bambino, che sogna un volo sopra una spiaggia nera. Luogo che noterà in un documentario del National Geographic nel ’97, durante un tour con i Blur. Da allora sa che in Islanda esiste il luogo dei sogni.

Altro ingrediente è l’isolamento. Che finalmente possiamo trattare come una scelta personale, come un esperimento, e non più solo come una costrizione dettata da momenti storici poco felici. Ricorda Yann Tiersen e la sua isola col faro, ricorda mille altre storie di persone che nell’isolamento contemplativo hanno trovato la strada per cantare il loro personale mare di nebbia. Perché il signor Albarn ha comprato casa in quell’Islanda dalle spiagge nere, e si è rinchiuso in uno studio circondato dalla natura, nel tentativo di rendere i lockdown momenti positivi e produttivi.

Per realizzare The nearer the fountain, more pure the stream flows si è ispirato al lavoro del poeta ottocentesco John Claire, autore di Love and Memory. E i testi dell’album sono effettivamente centrati sui temi del ricordo, dell’amore, della malinconia, del lutto. E c’è la natura, ci sono colori, c’è il contrasto della sua isola, così fredda e piena di lava. E c’è acqua, tantissima acqua, dalle onde del mare fino al rumore delle gocce che cadono. È un disco acquatico, a volte subacqueo, capace di geyser e di ghiaccio.

I brani sono un patchwork delle ispirazioni di Albarn, dal quasi Blur(esque) di Royal Morning Blue, al folle e malinconico pezzo dedicato a un palazzo anni venti di Montevideo, The Tower of Montevideo appunto, dove l’altrove è un posto lontano, dove la malinconia diventa un genere. E poi synth sparsi, alternati al pianoforte, testi meravigliosi come quello di The Cormorant, colori (silver and blue) in Daft Wader, fino a Esja, una suite vichinga per pelli di narvalo e ansia.

Sono appunti sparsi dai confini del mondo, sulla fine del mondo. Una riflessione, una contemplazione sul mare di nebbia islandese, in cui la musica è lo strumento di analisi, ma è anche il prodotto, è sintesi e sintassi.

E infine è un viaggio o una tappa di un percorso. Perché Damon Albarn incarna perfettamente il ruolo di esploratore, di sperimentatore. Consapevole della meraviglia che un percorso simile comporta, affronta con uno spirito romantico il ruolo di artista. Un Ulisse, consapevole del carico di responsabilità, conscio dei rischi, ma entusiasta per la continua scoperta.

Se l’Islanda sarà la sua Itaca o l’ennesima tappa, lo sapremo solo quando si fermerà a contemplare un nuovo mare di nebbia.

 

Damon Albarn

The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows

Transgressive Records

 

Andrea Riscossa

Idles “Crawler” (Partisan Records, 2021)

“Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere. Chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista, è il cosiddetto moralista.” 

Così diceva Pasolini durante la sua ultima intervista nel 1975, riguardo al suo film Salò o Le 120 Giornate di Sodoma, e sembra che gli Idles abbiamo preso questa frase alla lettera.

Che i moralisti si tengano a debita distanza, dunque, perché loro intendono scandalizzarci portando la loro musica sempre al limite, sperimentando nuovi sound e fondendo il tutto con attacchi improvvisi di punk.

Se il 2020 è stato l’anno della rivelazione, il 2021 è quello della consacrazione grazie al loro ultimo lavoro, Crawler uscito dopo un anno da ULTRA MONO.

Sulla carta possono essere identificati come appartenenti al post punk all’inglese per via della particolarità del timbro vocale del cantante Joe Talbot, della rozzezza delle linee di basso, dei suoni distorti e delle tematiche trattate, ma il gruppo stesso (già dal precedente album) non accetta di essere categorizzato in una nicchia così ristretta e hanno solo voglia di dire le cose a modo loro. Divertendosi, nel frattempo. 

La loro voglia di sconvolgere è palese già con il primo singolo, The Beachland Ballroom, una ballata dall’intro delicato e romantico, lontanissima dalle corde della band. Eppure l’enorme talento e l’accorata interpretazione di Talbot rendono il pezzo inequivocabilmente malinconico e rabbioso.

Nonostante non vogliano dedicarsi solo al punk, provando ad inserire sempre elementi sonori innovativi per creare qualcosa di unico, la loro anima post punk esplode in When the Lights Come On, che risuona di chiare vibrazioni alla Joy Division.

Basso, batteria e le due chitarre (rispettivamente Adam Devonshire, Jon Beavis, Mark Bowen, Lee Kiernan) non si tirano indietro quando c’è da pestare seri, e in The New Sensation e Meds si fanno ben sentire.

La genialità di questo gruppo risiede nel fatto che tutti i membri hanno una personalità e un talento allucinante, ed ogni strumento risuona chiaro e preciso. A testimoniare ciò è l’incalzante intro di The Wheel, che prosegue per tutto il brano con un ritmo convulso, e la linea di basso è sempre più profonda e scandita. Il brano parla di un rapporto problematico con la propria madre e il ritmo insistente riesce a trasmettere l’angoscia di quella relazione complicata.

La dimostrazione della loro versatilità invece la troviamo in Car Cash, iniziando il brano con del rap metal (alla Rage Against The Machine), per poi concludere il pezzo con qualcosa simile a The Smashing Pumpkins (solo per far capire le sonorità trattate).

Uno dei brani più peculiari è senza dubbio Progress, un qualcosa che assomiglia più ad un mantra. Un brano utilizzabile tranquillamente per la meditazione, l’ennesimo esperimento stilistico degli Idles. Subito dopo, Wizz: trenta secondi di grindcore puro. Dopo la calma benefica di una preghiera c’era bisogno di una botta di adrenalina, è un po’ come il sorbetto di limone per togliere il sapore del pesce.

Quattordici brani per un’esperienza fuori dal comune. Una band che racconta di traumi, relazioni difficili, abbandono e sofferenza, ma anche di ripresa e auto-realizzazione. 

Una band che possiede talento, cuore e personalità.

E voi, siete dei moralisti?

Nel caso la risposta sia “No”, andatevi ad ascoltare questo album e lasciatevi scandalizzare!

 

IDLES

Crawler

Partisan Records

 

Marta Annesi

 

PS: Per capire la grandezza degli Idles consiglio l’ascolto di The God That Failed contenuto in The Metallica Blacklist. L’identità musicale della band è talmente consolidata da stravolgere completamente il brano per farlo definitamente loro.

Tre Domande a: Davide Sammarchi

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Nel momento in cui decido di pubblicare un mio brano mi piace, che chi lo ascolta lo faccia nel modo più personale possibile, perciò tendenzialmente lascio una grande libertà all’ascoltatore di associare qualsiasi cosa alla mia musica, di viaggiare con la mente, andare lontano, dove più preferisce. Questo, per me, dà un senso profondo a ciò che faccio. Quel momento in cui una musica che ho composto raggiunge la sensibilità di chi ascolta e gli viene attribuita un’emozione, qualsiasi essa sia, lì trova la sua ‘conclusione’.

 

Progetti futuri?

Fare musica, naturalmente. Non potrei fare altro, sto già lavorando a dei nuovi brani.
Continuare a lavorare sul suono del pianoforte per renderlo sempre più personale e riconoscibile, come fosse un’estensione della propria voce.
Sto anche pensando a delle visuals da portare nei live, per creare uno spettacolo ancora più coinvolgente per lo spettatore.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Probabilmente sceglierei Ad occhi chiusi che è il brano che ho scelto come prima traccia, in apertura del disco ‘And in silence I found my voice’. È caratterizzato da una melo- dia particolarmente spontanea, che mi è uscita di getto e non ha avuto bisogno di parti- colari revisioni o scritture successive…è il mio ‘attestato’di sincerità, che rappresenta una componente fondamentale del perché faccio musica.
Semplicemente non potrei farne a meno. 

 

VEZsparks: Fatherson “The Rain”

di Laura Faccenda

 

Da più di un decennio, con l’avvento dello streaming e delle piattaforme digitali, la musica viene ascoltata in modo differente, rivoluzionario – per certi versi – rispetto alla concentrazione e all’attenzione analogiche al cospetto di un giradischi, di un mangianastri o di un lettore cd. Skippare una canzone, in quei casi, richiedeva un gesto meccanico di non poca responsabilità. Si avvertiva quasi una sorta di reverenza di fronte alla volontà dell’artista di concatenare i brani proprio in quell’ordine matematico. Ancora oggi, in molte interviste, i musicisti rimpiangono quei tempi d’oro, complici nell’infondere ai propri lavori in studio senso e continuità. 

Tuttavia, oltre qualsiasi nostalgia anacronistica, oggi a prevalere è la legge del salto compulsivo e la logica del singolo che anticipa – con una promo ben studiata – album e dischi attesissimi. Spotify ci ha dato in pasto tutta la musica immaginabile ma, per quanto questo sia un gran beneficio, il rovescio della medaglia è il rischio di mancato approfondimento. “Ah, non ci sono più le band di una volta, quelle che appassionavano e facevano sentire parte di qualcosa”, si sente dire spessissimo. Forse dipende anche da quanto ci si possa perdere nell’oceano di novità, senza mai trovare un porto sicuro. Ma deve scattare qualcosa affinché questo avvenga, affinché si possa scorgere una stella polare come bussola della navigazione.

La nuova rubrica bisettimanale #VEZsparks tratta proprio di queste illuminazioni. Brani che, attraverso playlist, radio, classifiche, reminiscenze di ogni genere, anno e provenienza sono riusciti a catturarci e a far sorgere le fatidiche domande: “Ma chi sono questi? Di chi è questa canzone? Quale disco la contiene?”. La scintilla, appunto, per bruciare di curiosità. Per correre a scoprire, collegare, ampliare la rete dei propri ascolti. Cliccare play e farsi cullare, poi, dalla tracklist completa. E La Scintilla è anche il titolo di uno dei tre paragrafi in cui è suddiviso il format, assieme a quello dedicato alla review della traccia e alla presentazione della band o dell’artista in questione.

Allora, accendete i vostri dispositivi preferiti. Accendetevi. Si parte con The Rain dei Fatherson.

Buona lettura e buon ascolto!

 

Il brano

Quando ci si approccia all’ascolto di un disco, la canzone di apertura porta sempre con sé una grande responsabilità. Possiede un’aura particolare, riconoscibile – talvolta – pur non sapendo con precisione l’ordine della tracklist. The Rain, traccia numero uno di Sum of All Your Parts (2018) dei Fatherson, si cala perfettamente in questo ruolo. L’intro, distillata in note chiaroscurali al pianoforte, si distingue già come uno scrigno di sperimentazione sonora, marchio di fabbrica del gruppo. Il fruscio meccanico che si innesca nei primi secondi e che rimanda ad un’antica cinepresa tornata in vita è, in realtà, la campionatura di un radiatore elettrico presente nella stanza dell’autore al momento della composizione. “Si adatta così bene a quel frangente iniziale” – ha dichiarato il frontman Ross Leighton – “Mi ricorderò sempre dove ero quando è successo e chi ascolta metterà in relazione questo particolare con il nostro album. Penso sia un ulteriore elemento per imprimere una certa personalità”. Personalità che emerge sia nel timbro vibrante, sapientemente calibrato tra asprezza e morbidezza nei momenti di picco e quelli di risoluzione, sia nell’effetto evocativo del testo, in catarsi ascendente, in corrispondenza con la linea melodica. Una coltre argentata di versi ed accordi enigmatici ma ispirati per la libera interpretazione ed identificazione. Una pioggia che, dal nembostrato di significato universale, penetra in quello personale, intensificandosi in un temporale di emozioni. E chissà, in quiete dopo la tempesta.

 

 

La scintilla

In merito a The Rain, a conquistare è proprio l’effetto catarsi. L’espansione di toni e ed energia che viaggia in parallelo alla compatta simmetria del brano, permettendo l’esaltazione dei particolari più pregnanti. E più disperatamente contraddittori. La parola “violins” della prima strofa muta, con un raffinato espediente, in “violence” nella seconda (anche i Pearl Jam avevano utilizzato un simile vezzo, fonetico e non lessicale in quel caso, in Daughter); l’esaltazione di una priorità — “You sleep in the exit rows / when there is a problem you will be the first to know” — assume contorni di irrinunciabile presenza, pur nel dolore. Un microcosmo di confessione racchiuso in un macrocosmo di distorsione. Distorsione di suono, negli effetti elettrizzanti della chitarra e del basso, e di visione del reale, nel sentirsi sovraesposti emotivamente, sottoposti ad una pioggia metaforica che scava le pareti del cuore. Come nel titolo dell’album la contiene, anche in questa canzone si può rintracciare una somma, un avvicendarsi di frequenze che — come gocce velocissime su una superficie vitrea — crescono in numero e potenza, intersecandosi, senza perdersi mai. Lo sviluppo strumentale d’impatto, supportato dall’esplosiva sezione ritmica, infonde un’aura di epica resilienza, di consapevolezza del qui ed ora (“But this violence / is just present tense”), nonostante l’imperversare del temporale. L’acqua, come simbolo di purificazione, lava via persino la rabbia. Nell’epilogo, infatti, una richiesta, una preghiera: “Call me when you need me over / call me when you need it done”. Per trovare riparo. O per ballare, insieme, tra un tuono e l’altro. O per aspettare, con fiducia, che torni il sereno.

 

La band

Arrivano da Kilmarnock, nella contea dell’East Ayrshire, in Scozia. Sono giovanissimi, sono un trio e sono anche fermamente convinti che se non avessero formato una band chiamata Fatherson non avrebbero potuto suonare con nessun altro. Ross Leighton (voce e chitarra), Mark Strain (basso) e Greg Walkinshaw (batteria) si conoscono dall’età di otto anni ed hanno iniziato a sognare insieme dai tempi della secondary school. Una crescita, un’indole alla costruzione che ha a che fare con la vita. Vita che confluisce, in modo autentico e diretto, nella loro musica. Canzoni strutturate, empatiche, edificanti che necessitano di sedimentazione per sprigionare la magia. Non c’è bisogno di altro, nessuna strategia da hit, né stratagemmi per attirare pubblico. “Se fai sul serio, se la fiamma viene dal cuore, le persone capiranno”. Così i Fatherson hanno conquistato grande seguito in patria, guadagnando consensi e passaggi nelle principali radio, già a partire dai primi due album, I Am an Island (2014) e Open Book (2016). Nel Regno Unito, il loro nome è apparso come opening act di gruppi del calibro di Idlewild, Twin Atlantic, Lonely The Brave, We Were Promised Jetpacks, Enter Shikari, Biffy Clyro, Frightened Rabbit. Ed è la formazione capitanata dal compianto Scott Hutchison ad aver delineato uno sliding doors fondamentale nel percorso tre dei amici e colleghi. “Ci siamo ispirati ai Frightened Rabbit da sempre. Midnight Organ Fight è stato ciò che di meglio la musica scozzese abbia prodotto negli ultimi venti anni. Ed è un’opinione assodata, già prima che Scott ci lasciasse. Gli dobbiamo molto. Quando avevamo sedici anni, dopo che ci vide suonare in una data locale, ci trovò uno slot per esibirci allo show Next Big Thing di HMV. È stato incredibile”. Parlano di eredità, riguardo Scott, sia in termini generali sia per le influenze che hanno plasmato il terzo disco all’attivo, Sum of All Your Parts, registrato in una full immersion di quattrocento giorni in una casa/studio indipendente. “Siamo soltanto dei ragazzi emo cresciuti ascoltando i Death Cub For Cutie ed i Manchester Orchestra, prima di innamorarsi di Radiohead e Bon Iver. Tuttavia ci rendiamo conto di quanto ci riflettiamo nelle nostre radici. Molti scherzano su noi musicisti scozzesi… Sono convinti che siamo condizionati da un grigiore meteorologico, che passiamo molto tempo chiusi in casa con la chitarra, in mancanza di alternative. Credo, invece, che questa attitudine, questa spinta ad andare a fondo nei significati non sia tanto un mood depresso quanto un’imprescindibile sensibilità. Fa parte della nostra identità. Potrebbe essere un cliché parlare di scena scozzese ma ce n’è davvero una. Gruppi che non si prendono mai troppo sul serio, che abbracciano le stesse riflessioni e guardano nella stessa direzione. È una consapevolezza che ci lega, oltre ogni genere musicale”.