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Sei tutto l’Indie Fest vol. III

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• Sei tutto l’Indie Fest vol. III •

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Monk (Roma) // 18 Maggio 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto: Matteo Cassoni

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The National “I am easy to find” (4AD, 2019)

Sono passati solamente due anni da Sleep well beast, un disco così bello che tutt’ora è fatica toglierlo dallo stereo, che The National sono pronti a dare al mondo il loro ottavo album I am easy to find.

Come ogni album de The National, il primo ascolto non è mai facile ma è quello che rivela al subconscio dell’ascoltatore le atmosfere e il contesto: se Sleep well beast era un album notturno, cupo, introspettivo, prodotto tra le quattro mura di casa, questo nuovo I am easy to find è un album fresco e femminile, la cui produzione abbraccia Europa e Stati Uniti.

Con gli ascolti successivi, si prende invece coscienza di qualcosa di diverso dai precedenti album e una domanda prende forma: com’è possibile che i National siano riusciti a fare un album così tanto tipicamente loro ma allo stesso tempo così non loro?

Che cos’è che definisce l’identità musicale del gruppo? Il timbro baritonale e sexy della voce di Matt Berninger o gli arrangiamenti e le melodie dei gemelli Aaron e Bryce Dessner?

Tante domande, ma tutte lecite dal momento che nella maggior parte dei brani la voce di Berninger è affiancata, se non del tutto sostituita, dai contributi vocali delle artiste che hanno partecipato alla realizzazione dell’album, tra cui Lisa Hannigan, Sharon Van Etten, Mina Tindle, Gail Ann Dorsey e Kate Stables, mentre le melodie si avvalgono degli strumenti di un numero cospicuo di musicisti e membri d’orchestra, incluso l’amico Justin Vernon.

Eppure, questa famiglia allargata non solo non ha messo a repentaglio l’identità musicale del gruppo nel risultato finale, ma l’ha esaltata. Togliere per dare valore: quando viene a meno la connessione immediata voce-di-Berninger = The National, allora l’orecchio cerca e trova in altri elementi l’identità del gruppo, ed ecco che emerge l’intro al pianoforte di Oblivions o il rullare di Rylan, elementi identificativi che farebbero riconoscere una canzone de The National anche ad un sordo.

I am easy to find è un esercizio corale sapientemente diretto, una costellazione di brani come palloncini che fluttuano in cielo, legati al nucleo dei cinque membri del gruppo da nastri colorati.

Ogni singola traccia del disco ha un elemento di originalità al suo interno che non la fa assomigliare a nient’altro della produzione de The National, però allo stesso tempo, proprio quando l’originalità potrebbe far spaventare l’ascoltatore, arriva quell’elemento peculiare, unico e familiare, che conforta e dà sicurezza.

Questa dinamica di spingere un po’ più in là il confine di ciò che è la sonorità National e poi tornare in territori conosciuti, espansione e contrazione, non-aver-paura-ad-allontanarti-io-sono-qui, non è solo a livello dei singoli brani, ma anche proprio a livello dell’intero album.

La sensazione, ascoltando tutti i 63’ e 35’’, è che il disco respiri: la tripletta di brani di apertura — inspira — continua il discorso dove Sleep well beast l’aveva lasciato; Oblivions, The pull of you e Hey Rosey — espirasono diverse, tentano ognuna qualcosa di nuovo, e ci riescono con grazia; I am easy to find — inspira — riporta l’ascoltatore nella zona di comfort, per poi lasciare spazio ad altre due tracce — espira — che aprono a nuovi ritmi e nuove sonorità. Arriva e se ne va Not in Kansas — inspira — tipica ballata che dipinge paesaggi assolati da Midwest; altri due brani — espira — diversi, dagli altri e tra di loro: So far so fast è rarefatta e femminile, Dust swirls in strange light sembra quasi composta per una funzione religiosa. Hairpin turns e Rylan — inspira sono tutto quello che amiamo dei National; Underwater — espira — è un inframezzo strumentale che prepara alla commovente chiusura dell’album — inspira — con Light years.

Dopo vent’anni di carriera, possiamo dire che The National con questo loro lavoro abbiano tentato qualcosa di nuovo, in modo cauto forse, e ci siano riusciti con l’armonia e l’eleganza che li contraddistingue.

 

The National

I am easy to find

4AD, 2019

 

Francesca Garattoni

Un’idea condivisa è un buon punto di partenza, ne sono un esempio i Geller

Ed eccomi qui in una notte romana, l’aria è abbastanza fresca per essere l’11 maggio ed io sarò in compagnia di due ragazzi da intervistare e fotografare: i Geller.

Loro sono Valerio Piperata (autore dei testi, batterista, drum machine e timpani) e Dario Gambioli (cantante, compositore, synth e timpani), si sono conosciuti in un condominio a Centocelle durante un home party e hanno scelto di formare un duo per esprimere i loro pensieri che oscillano tra dipendenze e amore nelle sue varie forme.

Inevitabilmente ci ritroveremo a viaggiare con la loro musica.

 

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Male Male è il loro ultimo singolo nonché il title track dell’album di debutto uscito il 19 aprile per Giungla Dischi, anticipato dai brani Pausa, Ci pensi mai, Bomba a mano e Sprite, tracce inserite nelle playlist Spotify di Scuola indie e in quella dedicata alla nuova generazione pop Indie Italia.

Da aprile la band è in tour e questa sera giocano in casa: nella capitale. Ci accomodiamo sui divanetti del locale La Fine.

Ho percepito la loro umiltà sin dal primo sguardo e dal loro modo di accogliermi. Intervistarli è stato come scartare un cioccolatino, sapevo di trovare qualcosa di buono!

 

Ciao Geller raccontateci del vostro progetto, com’è nato, se avete progetti futuri…

V.: Il progetto è nato da parole, alcuni testi che avevo scritto e non sapevo esattamente cosa farne e durante una serata un po’ particolare ho avuto l’idea di parlarne con Dario, gli ho chiesto se avesse voglia di farci musica, lui è un musicista e ha detto… cioè non ha detto niente! Il giorno dopo si è presentato con una canzone, abbiamo visto che funzionava, abbiamo continuato e così è nato un disco intero.

D.: Il progetto nasce dall’unione tra lo scrittore che ha buttato giù dei testi e ha chiamato me, che ho musicato le sue parole. Ho scritto la melodia, gli accordi, l’impronta di produzione e abbiamo contattato l’etichetta discografica Giungla Dischi a cui è piaciuto molto questo primo provino e ci ha spinto a continuare a scrivere e a fargli ascoltare ancora la nostra musica. Così è nato il progetto e si è sviluppato così, all’inizio non c’era neanche il nome, c’era solo la canzone.

 

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Il 16 aprile è uscito il singolo “Male male” il testo dice: “Hai sempre qualcosa da fare, qualcuno che credi di amare, mi servi che sto male” l’amore è qualcosa che arricchisce o una dipendenza? 

V.: Tutto il disco parla di questa dipendenza affettiva, in questo brano racconto di una ragazza in un periodo non facile e in questo caso l’amore è visto come una dipendenza.

D.: Un amore malato, ossessivo che quando manca crea disturbo.

 

Una curiosità i vostri testi sono a tratti malinconici e ribelli, sono esperienze personali o è la società vi è d’ispirazione?

V.: Noi siamo due persone super polemiche in realtà!

D.: Direi che è un connubio tra gli stimoli esterni che non ci piacciono e le nostre esperienze.

 

“Bomba a mano” lo dice il testo stesso è un’esplosione per liberarvi dai tormenti, in una scala di priorità cosa non tollerate assolutamente nella realtà che viviamo?

V: Hai colto bene, la bomba a mano è una liberazione da stati d’animo privati, personali che hanno a che fare più con la tua vita che con quello che ti capita.

D: Quello che non tolleriamo fondamentalmente è la superficialità, la mancanza di cultura, il voler dire per forza la propria senza avere gli strumenti per potersi interfacciare con il discorso in questione.

V: In Italia è un periodo in cui si ha questa tendenza… te lo abbiamo dovuto dire!

D: E’ la prima volta che tocchiamo questo tasto, non ce lo hanno mai chiesto.

 

Come sta andando il vostro tour? C’è qualcosa che ricorderete con stupore o delusione?

V: Siamo un po’ storditi ancora, perché siamo stati catapultati in qualcosa che non abbiamo mai fatto, in un progetto esclusivamente elettronico in cui ci siamo soltanto io e Dario sul palco, dipende tutto da noi lo show e quindi stiamo affrontando ogni concerto in ogni città come fosse la prima volta.

D: Questa è la terza data, siamo in fase di rodaggio totale, stiamo ancora capendo se questa cosa la sappiamo fare…

 

Chi ha creduto in voi? C’è qualcuno che vorreste ringraziare?

V: Chi ha creduto in noi dal principio è Andrea Rapino, manager, discografico di Giungla Dischi.

D: Sì lui ha abbracciato il progetto da quando c’era solo un provino fatto con il mio telefono. Aveva percepito qualcosa che poi si è confermata con tutti gli altri brani. Vorrei menzionare Spotify che ci ha dato un grosso spazio senza avere nessun tipo di connessione o di motivazione particolare per farlo, quindi vuol dire che il progetto è piaciuto per aver puntato su di noi nelle playlist e questo lasciacelo dire, fa piacere!

 

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Piacere mio avergli stretto la mano e aver assistito subito dopo ad un live electro-pop. Non ho dubbi, la musica sanno farla proprio bene! Lasciarsi cullare dal suono sotto le mani di Valerio e dal tono di voce caldo di Dario è stato travolgente e in un attimo via tutti i pensieri! Prima di tornare a casa ho fatto una passeggiata lungo Trastevere, ammirando Castel Sant’Angelo con il sorriso sulle labbra. Apprezzo questi momenti di vita vera, dove si è uniti anche tra sconosciuti, dove ci si sfiora e si canta guidati solo dalle emozioni, non serve nient’altro per star bene.

Abbiamo bisogno di semplicità e al tempo stesso di contenuti e i loro brani meritano l’ascolto, vengono memorizzati, ricordati e cantanti sin da subito.

L’amore va cantato ma ricordiamoci, non deve far male!

 

Foto e intervista di: Silvia Consiglio

 

Redh “Torneremo EP” (Artist First, 2019)

Torneremo di Redh è un EP di sei brani che strizza l’occhio completamente al pop italiano indie. Sonoritá, riferimenti testuali, riverberi, tastiere: ogni elemento ci porta a pensare che l’obiettivo dichiarato sia finire sulla playlist Spotify “Indie Italia”, o quantomeno sulla playlist “Scuola indie”.

Già dall’apertura del primo brano Dormi veniamo proiettati in atmosfere da tastiere new-anni ’80 stile Thegiornalisti. Poi parte la voce, e ci togliamo ogni dubbio: molto riverbero, voce molto eterea alla Tommaso Paradiso.

Scorrono i brani e le caratteristiche di cui sopra si confermano passo dopo passo. Le canzoni scorrono tra sonorità orecchiabili, synth retro e testi che trattano di amori post adolescenziali-pre ingresso nei 30. 

Tutte e sei le canzoni infatti raccontano storie d’amore (spesso finite male o mal corrisposte) dal punto di un vista di un ragazzo giovane, presumibilmente universitario. I toni non sono mai però drammatici e i riferimenti linguistici che raccontano le sensazioni del cantante sono molto concreti e di facile comprensione.

Da un punto di vista strumentale, vengono elette come protagoniste le tastiere. La chitarra ha un ruolo marginale, usata quasi sempre per aggiungere colore piuttosto che per dettare la linea armonica, eccezione fatta per il malinconico brano Ci credi, in cui le chitarre escono fuori come protagoniste. La parte ritmica delle canzoni è dominata invece dalla scelta di utilizzare la drum machine elettronica al posto della batteria acustica. Scelta condivisibile che rende le sonorità dell’album complessivamente fresche e moderne.

Riguardo alla produzione musicale da un punto di vista tecnico, possiamo affermare, come detto sopra, che la scelta stilistica dei mix e dei master dei brani riflette anche in questo caso la tendenza a volere seguire le sonorità dell’indie italiano. E, quindi, si accentua molto l’utilizzo del riverbero sia nelle tastiere che nella voce, il basso non viene fatto uscire troppo nel mix e le chitarre lavorano molto sulle note singole spesso messe in delay. Ma, se nella parte strumentale questa scelta stilistica è premiante e rende il sound fresco e coerente con il mondo indie italico, nella voce il risultato non è altrettanto apprezzabile. Infatti, la voce risulta essere troppo appesantita da un eccesso di riverbero che le fa perdere un po’ di chiarezza, portandola a non amalgamarsi completamente nel mix complessivo dei brani e nascondendosi tra le frequenze dominati delle tastiere, anch’esse, come già detto, molto riverberate.

Per quanto riguarda la struttura delle canzoni — strofa, ritornello, variazioni — Redh mostra una buona consapevolezza e maturità compositiva: i brani scorrono tutti fluidi e arrivano alla fine con leggerezza, senza cadere in inutili barocchismi. Gli intro durano il giusto, le strofe conducono correttamente ai ritornelli, i quali entrano puntuali e assumono la giusta importanza nell’equilibrio dei brani. Anche da un punto di vista armonico, i ritornelli sono ben valorizzati e spesso risultano essere ben orecchiabili.

Per concludere, Redh ha creato sei brani leggeri, abbastanza maturi da un punto di vista della produzione — eccezione fatta, forse, per la scelta sbagliata nel missaggio della voce — e con un’apprezzabile capacità nel creare melodie orecchiabili e piacevoli accompagnate da un sound moderno ed azzeccato.

La parte debole dell’album sono, invece, i testi delle canzoni: da un lato troppo monotematici (si parla sempre e solo di storie d’amore) e dall’altro lato privi di spunti interessanti nella scelte stilistiche e lessicali. Mancano infatti quelle metafore, quelle parole giuste, quelle frasi apparentemente idiosincratiche che ti fanno dire “wow” mentre le ascolti. Forse, manca anche un po’ di ironia nel modo di raccontarle, queste storie d’amore.

 

Redh

Torneremo EP

Artist First, 2019

 

Michele Mascis

Ultimo @ Mediolanum_Forum

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Mediolanum Forum (Milano) // 16 Maggio 2019

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Grazie a VIVO Concerti

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Pearl Jam: l’amore rischioso per tutto ciò che è possibile

<< I Pearl Jam sono stati uno dei pochi gruppi con la resistenza fisica e le doti critiche e di autoanalisi necessarie a superare il momento di maggior successo e continuare a servire un pubblico che è in cerca di musica essenziale. E di se stesso >>. – Bruce Springsteen

 

Lo ammetto. Se avessi una macchina del tempo, non dubiterei nemmeno un secondo su quale periodo e su quale luogo scegliere come mete del mio viaggio. O permanenza, da inguaribile grungettona esistenzialista. Inizio anni Novanta. Seattle. La città dove lo Space Needle sembra toccare quel cielo spesso scuro, plumbeo, argentato di stelle del nord. Suona così, all’epoca, la musica. Dipinta di indaco, luminosa, melodrammatica, cinica e ironica, a volte. La rivoluzione che sta per esplodere risiede fra gli scatoloni dei garage in cui musicisti dai lunghi capelli si ritrovano per comporre, scrivere, creare, trovare una personale espressione. E ascoltare, soprattutto. Sentire musica e catturarla nel modo giusto.

Nell’autunno 1990, in una sala prove, avviene un incontro che profuma di miracolo. Stone Gossard e Jeff Ament, già conosciuti nell’ambiente per essere stati compagni di band nei Mother Love Bone di una gloria locale, il carismatico Andy Wood, morto a 24 anni di overdose, tentano di rimettere insieme i pezzi. Fanno circolare una cassetta con una demo, l’antenata Times of trouble e la futura Footsteps, che finisce nelle mani di un surfista e benzinaio di San Diego. Una voce sovraincisa, la voce che fa scoccare di nuovo la scintilla, fa credere di nuovo in un inizio. Eddie Vedder arriva a Seattle e vuole cominciare subito, mettersi alla prova, indossando la sua espressione stupita, dietro la chioma ondulata. Parla poco ma fa di tutto per diventare ingranaggio di quel mondo. << Ogni volta che Vedder tirava indietro i capelli e ti guardava con quegli occhi luccicanti e maliziosi…capivi >> – confessa il regista e storico amico Cameron Crowe – << Quel ragazzo condivideva lo stesso amore rischioso per tutto ciò che era possibile >>.

Da lì, nel giro di un anno, l’album di esordio, Ten, catapulta i Pearl Jam nel firmamento delle celebrità. Infiniti gli aneddoti, le avventure, le perdite, le esperienze, la fuga dalle luci della ribalta, il rifiuto di girare videoclip, la battaglia contro Ticketmaster, la tragedia di Roskilde, l’impegno nel sociale. Eddie Vedder fonda addirittura una radio indipendente da cui trasmette in diretta dal furgone che guida, da solo, mentre raggiunge i compagni che, invece, atterrano in aereo nelle località scelte per il tour di Vitalogy.

Ecco, non ricordo quanti anni fa, proprio alla radio di un’auto, stava girando un disco di colore rosso con una freccia nera rivolta verso l’alto. Un greatest hits, raccolta che di solito non compare mai tra i cd che colleziono. << Chi sono questi…? >>. << Dai… I Pearl Jam >>. È stato amore a primo ascolto, è stata magia. Una chiamata. È stato abbandonare quei sedili, scendere, per accettare un passaggio da sconosciuti. Un viaggio di sola andata, il cui diario di bordo si riempie di canzoni, versi, storie narrate e vissute. Da loro, da me. E poi attese, concerti, vicinanza, empatia, volume che scorre nelle vene, parole e simboli impressi sulla pelle.

I Pearl Jam non sono, infatti, soltanto quelli di Alive, di Even Flow, delle arrampicate e dei voli folli dalle americane, degli stadi sold out. I Pearl Jam sono anche, e soprattutto, il racconto di un percorso di evoluzione, in evoluzione. È arduo descrivere a parole il legame osmotico che mi connette a questi cinque artisti. Credo che chiunque mi osservi nel momento in cui ascolto la loro musica, capisca tutto dall’espressione dei miei occhi. Voglio provarci, però. In fondo, è stato concepito con tale intento l’articolo che sto scrivendo.

E lo voglio fare creando la mia personale playlist: un brano, per ogni disco pubblicato. Il mio brano “preferito”, o meglio, quello che per me ha rappresentato e rappresenta una chiave di lettura, in musica, di frangenti di esistenza. Un puzzle. Dei tasselli che, uniti con cura, disegnano l’immagine della band. Un invito, una scintilla di curiosità sia alla lettura che all’ascolto. Quindi… cuffie alla mano e alle orecchie. Si parte!

 

Pearl Jam 1

 

  • RELEASE (TEN, 1991): All’interno del dvd che celebra i vent’anni di carriera del gruppo di Seattle, Twenty, si assiste a una scena in bianco e nero. Una radura, un fuoco accesso, il tronco di un albero su cui è appoggiato il cantante. Come colonna sonora, un arpeggio iniziale. Sembra quasi il suono distratto di chi sta accordando uno strumento. In quella sala prove, dove tutto è iniziato, è stato scambiato proprio per una semplice successione di note. Una formula magica, però. Un mantra. La preghiera a cui viene affidata la liberazione dalla volontà di rivincita di Alive, dalla rabbia di Once, dalla solitudine di Deep, dalla sofferente conclusione di un amore di Black. << Una sera, mentre sedevamo a gambe incrociate a casa di un amico ascoltando cassette di Neil Young, Eddie mi ha raccontato la storia di quando ha scoperto che il suo padre biologico era un amico di famiglia che era morto >> – ricorda Crowe – << È stato un breve momento di riflessione malinconica da parte di Eddie, quasi la confessione dell’origine profonda della rabbia che si trova in certe sue canzoni >>. Con la figura paterna, evocata nella seconda strofa con l’informale “dad”, viene ricercato un contatto, un dialogo, una risoluzione dal dolore (I’ll hold the pain / Release me). Collocato in chiusura della setlist dell’album, Release è il primo brano del primo concerto, il 22 dicembre 1990, in apertura agli Alice in Chains all’Off Ramp Cafè, un bar per motocicliste nella capitale dello stato di Washington, lo stesso dove verranno girate alcuni frame del film, firmato proprio da Cameron Crowe, Singles – L’amore è un gioco. Il regista è presente quella sera assieme a Susan Silver, manager dei Soundgarden e allora compagna di Chris Cornell, la quale ripercorre il clima di attesa prima che la nuova formazione di Jeff e Stone esordisse in scena: << Tutti erano nervosi. Volevano vedere la fenice alzarsi. Era quella la prima volta che molti fan avrebbero visto Eddie e si chiedevano chi fosse quel ragazzo, se fosse abbastanza in gamba per prendere il posto di Andy Wood >>. Continua Crowe: << La prima canzone che hanno fatto è stata Release. Ho guardato mia moglie Nancy e ho detto: “Quello è il ragazzo timido? Oh mio Dio”. Presto lo vedemmo dondolarsi dalle impalcature. In qualche modo fu una specie di finale per Eddie-il ragazzo dalla timidezza atroce >>. È un battesimo artistico ed umano. Una catarsi. La rielaborazione di lutti tanto personali quanto comuni. In molti lo accolgono fin dal primo momento; quasi nessuno, però, in platea sospetta la maestosità della fenice che sta rinascendo. Dopo il debutto, per ancora un po’ di tempo, i cinque continuano a girare con il nome Mookie Blaylock, in onore dello storico cestita dell’NBA. Dal giocatore viene anche il titolo Ten, dieci, come il numero della sua maglia. Tuttavia, con la firma del contratto discografico la band deve pensare a una ragione sociale priva di complicazione di diritti. Nessuna delle versioni sulla genesi di Pearl Jam sembra appurata con certezza. La parola ai diretti interessati: << La miglior giustificazione per il nostro nome sta nel riferimento alla perla stessa e al processo naturale da cui proviene: parte da scarti ed escrementi per diventare qualcosa di bello. È così che è iniziata la nostra band >>. (“Cultivate the Pearl” è la frase che accompagna il mio tatuaggio con lo stickman, simbolo identitario del gruppo).

 

  • INDIFFERENCE (VS., 1993): Al contrario di quanto possa far intendere il titolo, la traccia che chiude Vs. è tutt’altro che un’ode all’indifferenza. È il manifesto dell’indole dei Pearl Jam a dire la propria, a prendere una posizione nelle questioni sociali, politiche, umane. Non a caso, forse, quando viene scelta come brano finale di un concerto, la band rimane sul palco ma le luci sono già accese. È una liturgia: l’unico momento in cui, in oltre due ore, ci si riesce a guardare in faccia l’uno con l’altro, a lume di candela, di fiammifero. Affrontare. Seguire, come un manuale, le istruzioni indicate già dall’inizio. “I will light the match this morning, so I won’t be alone/ Watch as she lies silent, for soon light will be gone / I will stand arms outstretched, pretend I’m free to roam / I will make my way through one more day… in hell. How much difference does it make?” Che differenza fa? Me lo sono chiesta anche la scorsa estate, il 24 giugno, al termine del live allo Stadio Euganeo di Padova. Ogni volta, la risposta risiede in ognuna delle affermazioni, delle intenzioni, dei sentieri declinati al futuro che, verso dopo verso, si aprono con I will. Un invito a tenere accesa una scintilla, seppur impercettibile. Farsi strada anche attraverso le difficoltà. Stringere nel palmo di una mano il fuoco che alimenta la passione, fino a bruciarsi se necessario. Prendere pugni, fino a farli stancare. Fissare il sole, fino ad accecarsi. Ingoiare veleno, per diventarne immune. Urlare a pieni polmoni, riempendo i vuoti siderali dei silenzi. Fare la differenza. Essere la differenza, sempre.

 

  • NOTHINGMAN (VITALOGY, 1994): Tra i cattivi presagi, le figure sataniche, gli scarafaggi e i canti sciamanici che dominano le grigie atmosfere del terzo lavoro in studio dei Pearl Jam, appaiono due uomini. Il più conosciuto, alla traccia numero undici, è il Better man contro il quale sfocia la rabbia di Vedder adolescente, figlio e uomo che per anni ha visto una donna, Karen, imprigionata nella relazione con Peter, “il bastardo che ha sposato mia madre”, così presentato durante il concerto ad Atlanta nel 1993. Risalendo, fino al quinto titolo, ci si imbatte in un individuo meno definito, meno circoscritto a una identità. È un’ombra, i cui contorni assumono progressivamente il suono di un’interpretazione da brividi e la forma di una granitica consapevolezza: la fine di una storia d’amore. Sembra uno spin off di Black con lo stesso protagonista, ma adulto: anche lui ha perso tutto, i pensieri lo tormentano e vaga da solo. La discrepanza, probabilmente, è solo astrologica: nel capolavoro di Ten, la figura femminile è descritta con la metafora della stella, qui prima è comparata a un fulmine, poi al sole, alla luce, che, una volta persa, acceca e brucia. In senso di perdita in un ultimo volo, degno del mito di Icaro. << Nothingman è stata scritta in un’ora e per questo mi piace ascoltarla, perché ha catturato uno stato d’animo che c’era in quel momento, almeno per quanto riguarda la mia parte vocale >> – dichiara Vedder in un’intervista di quel periodo per il Los Angeles Times – << L’ho scritta prima di sposarmi (con la prima moglie Beth Liebling). Può essere che abbia messo qualcosa che so sulle relazioni ma è stata scritta pensando a qualcun altro che sta attraversando quella fase, qualcuno che ha mandato tutto a puttane. Io non ce le ho mandate. L’idea alla base è che se ami qualcuno e quel qualcuno ti ama, non devi mandarle a puttane, perché ti ritrovi a essere meno di niente. Le relazioni possono essere difficili. Ci sono delle volte in cui… la musica mi prende un sacco di tempo, spesso non dormo la notte; penso di essere una persona difficile con cui avere a che fare. Le cose sembrano non adeguarsi mai alla normalità e Beth si trova a dover affrontare tante cose. Non voglio entrare nel nostro privato ma a volte c’è della tensione. Immagino che a volte siamo tutti un po’ egoisti ma so per certo che senza di lei, io sarei un aquilone senza corda: un uomo da niente >>.

 

  • OFF HE GOES (NO CODE, 1996): Quando qualcuno mi pone la domanda da un milione di dollari su quale sia il mio album preferito della discografia, la prima copertina che visualizzo è il collage delle 144 polaroid di No Code. I pezzi che lo compongono sanciscono la differenza tra quello che i musicisti erano e quello che saranno. Un nuovo inizio artistico, senza regole precise, senza definizioni. L’unica decodificazione è il senso della freccia su cui corre la nostra esistenza: da sinistra a destra, in avanti. Il doloroso ma inevitabile passaggio alla vita da adulti è personificato dal protagonista di Off he goes. Un uomo dall’espressione tesa, sempre in movimento, come una motocicletta contro il più forte dei venti. Un insieme di caratteristiche nelle quali ho rintracciato, ad ogni ascolto, la mia incapacità di restare ferma, di voler vedere che cosa c’è al di là del limite, del farmi carico di situazioni fino a non riuscire più ad essere avvicinata. In realtà, come ha ammesso anche Bruce Springsteen, durante i suoi spettacoli a Broadway, in relazione alla volontà di andarsene lontani dai luoghi natali, alla fine è sempre lì che si torna. Il bagaglio si arricchisce e pesa così tanto di esperienze che, ad ogni ritorno, muta la modalità di vivere la dimensione familiare, le birre con gli amici, le persone di cui si è sentita la mancanza. E torna la voglia di andarsene, nuovamente. Per poter fare ritorno, in una spirale dall’andamento costante. “To go off” può anche non significare andarsene fisicamente, ma soltanto lasciarsi distrarre da preoccupazioni, “spegnersi”. << Salto fuori, chiedo se è tutto apposto e non mi faccio vedere per un po’ >> – confessa il frontman in merito al suo modo di concepire i rapporti con gli altri. Quante volte mi sono specchiata in quella frase, nel tentativo di un compromesso fra il desiderio di empatia e quello di solitudine. Un compromesso che, nel punto critico di crollo, Eddie ha abbracciato, suggerito e descritto nell’invocazione che chiude e compie il senso dell’intero disco: I’m open. La porta è ora aperta. Non per uscire ma per far entrare. “Sono aperto”, al contatto, al confronto, all’aiuto e alla rinnovata capacità di accogliere, di immaginare. Decidere di sognare se stessi, per se stessi. I’m open è una preghiera, una lettera a cuore aperto spedita senza il nominativo e l’indirizzo del destinatario. Afferma l’autore: << È come un mantra. Non so se riguardi la religione o una storia d’amore. Riguarda l’essere aperto a qualsiasi cosa ci sia là fuori. Come dire: “Sono qui, sto ascoltando” >>.

 

  • GIVEN TO FLY (YIELD, 1998): Nel documentario Single Video Theory, dedicato alla stesura di Yield, scorrendo le mani sul manico della chitarra e riproducendo l’incantesimo generato dall’accostarsi delle note introduttive, Mike McCready dichiara: << Questa canzone mi ricorda una specie di onda, inizia dal basso e poi cresce sempre più alta, sempre più grande. Viene fuori da un periodo in cui stavo finalmente rimettendo insieme la mia vita, dopo aver attraversato l’oscurità. Musicalmente, rappresenta una specie di risveglio per me, un periodo di rinnovamento, dove ho capito come tornare a vivere la mia vita. Ora che avevo le idee più chiare, mi venivano in mente questi spunto che avevano un che di celebrativo… ecco perché ci sono tutti questi picchi e queste discese>>. A Eddie Vedder è affidata, invece, la stesura del testo, i cui versi emanano la potenza evocativa di un racconto fantastico, di una fiaba, come la definì egli stesso. Tra realtà e fantasia, viene narrata la storia del riscatto di un uomo che, nonostante i colpi ricevuti, è destinato a volare alto, a compiere un’eroica missione d’amore. Tra realtà e fantasia, ciò che conta è il lieto fine. << La musica riesce a darti il senso del volo e mi piace davvero cantare la parte finale che parla del sollevarsi al di sopra di quello che dicono gli altri di te e continuare comunque a dare il tuo amore. Non finire amareggiato e solo, non condannare tutto il mondo per le azioni di pochi>>.

 

  • PARTING WAYS (BINAURAL, 2000): Lo spettro più spaventoso per chi vive della passione per la scrittura, per le parole, per la musica è il blocco creativo. Le ragioni per cui, talvolta, sopraggiunge la totale aridità di ispirazione possono essere molteplici. Le conseguenze, ancora più catastrofiche: << Può far diventare la tua relazione un inferno >>. Sono profondamente legata a questo pezzo proprio per il nodo che crea, o scioglie, tra il macrocosmo dei legami e quello della realizzazione artistica. Da una parte, ho sempre ammirato con quanto orgoglio, pudore e stoica malinconia sia dipinta la scena di un allontanamento che sfuma tra le note di un violino. Dall’altra, ricollego questo brano a un sussulto ben preciso che non dimenticherò mai. Mi trovavo a casa, da sola. Il lettore cd con Binaural, con gli ultimi minuti, con gli ultimi versi di Parting ways. Immersa nelle mie attività, non sono andata a stoppare. Ormai tutto taceva, ero ripiombata nel silenzio. Il trascorrere di qualche minuto ed ecco arrivare alle mie orecchie forse la più struggente ghost track che abbia mai ascoltato. Un ticchettio, il suono delle dita che premono sui tasti di una macchina da scrivere. È la macchina da scrivere di Eddie Vedder. Per una musa che se ne è andata, l’altra è ritornata. La fantasia, l’immaginazione. Nelle ultime pagine del booklet, è riportata la sigla J.F.M., “Just Fucking Music”. È “Solo Fottuta Musica” il motivo per cui la relazione di chi canta è andata in frantumi, è “Solo Fottuta Musica” l’unico frutto che volesse vedere nascere dalle sue dita. È “Solo Fottuta Musica” l’unica cosa a cui continuerà a dedicarsi, malgrado tutto.

 

Pearl Jam 2

 

  • THUMBING MY WAY (RIOCT ACT, 2002): Dal 2017 ad oggi, ogni qualvolta che nelle cuffie inizia a girare questo pezzo, scorgo davanti a me uno scenario preciso: il mare di notte, l’abbraccio di mura antiche, le luci violacee ad illuminare il Teatro Antico di Taormina. Ricordo nitidamente l’attacco della chitarra acustica, l’istante di magia che si crea quando si riconosce una canzone. La canzone che ha racchiuso il significato del live indimenticabile a cui ho assistito. Forse perché, quella sera, ero io ad indossare i panni logori dell’autostoppista esistenziale che cammina lungo le note e le parole di Thumbing my way. La decisione di partire, nel tentativo di lasciarsi alle spalle qualcosa, o qualcuno, per ripercorrere la strada verso il proprio paradiso. Un itinerario tutto in salita, con una valigia carica di ricordi, rimpianti, domande in sospeso. Un tunnel da attraversare, in inverno, che si affaccia su una nuova stagione, la primavera. Voler scegliere tra il bene e il male e non tra quello che è giusto o sbagliato. Non perdere la fiducia in chi si può incontrare nella via apparentemente deserta di ritorno al paradiso. Il/la protagonista deve trovare qualcuno che ce lo accompagni, anche per un tratto soltanto. Un’anticipazione della lezione, musicata da Vedder, appresa da Christopher McCandless al termine del suo viaggio Into the wild: la felicità è reale solo se condivisa.

 

  • INSIDE JOB (PEARL JAM, 2006): il brano in questione è il primo che porta il sigillo del chitarrista Mike McCready. I suoi fantasmagorici assoli diventano i reagenti perfetti per un esperimento tanto coraggioso quanto vitale: fare pace con il proprio passato, anziché continuare a fuggirne, con l’obiettivo di scendere alle radici di ciò che non lo rende ancora libero. La droga, l’alcool, la dipendenza come gabbie. L’inspirare e l’espirare insicurezza (“breathing insecurity out and in”), probabilmente origine del problema. Una parola chiave, per me, “insicurezza. Motore e sabotaggio, allo stesso tempo. E che cosa c’è oltre il velo nero del timore di non essere abbastanza? Oltre quel velo, c’è una scelta: How I choose to feel / Is how I am. Ho scelto di sentirmi per come sono. Essere come sono. Una forma mentis che deriva, unicamente, da un profondo lavoro interiore. << Buttare uno sguardo all’interno se non altro aiuta a cambiare te stesso >>. “Shining a human light”, brillare della propria umanità, dopo aver scoperto, o riscoperto, la più personale luce.

 

  • AMONGST THE WAVES (BACKSPACER, 2009): Sull’artwork di Backspacer, nell’angolo in basso a destra, tra gli altri “fumetti” che raffigurano la tracklist traccia per traccia, appare l’immagine di una donna a testa in giù. È immersa nell’ondeggiare dei flutti, che la avvolgono, la cullano, la completano quasi a trasformarsi nei suoi capelli. Tra le onde. Quello dei Pearl Jam con l’acqua, come elemento naturale, è un legame che è sempre esistito e si è evoluto e disteso nel tempo. Dall’onda di dolore da cavalcare di Release, al malinconico sentimento di distanza di Oceans, alla pioggia attraverso cui correre di Inside job, ora, finalmente, il “riding amongst the waves” rimanda alla grandissima passione di Eddie Vedder, il fare surf. Un collegamento che si è sviluppato seguendo le tappe della loro carriera, ripercorse, in metafora, nelle strofe della canzone. La musica pacata, all’inizio, con il mare solo leggermente ondulato. Dopo aver apprezzato il piccolo grande istante di respirare a pieni polmoni, in Just Breathe, ora, sulla battigia, ci si gode la calma dopo la tempesta. Condividendo quella serenità (“just you and me and nothing more”), ricordando da dove si è partiti, focalizzando il punto in cui si è arrivati. L’amore, che ha permesso di non annegare. Tuffarsi, senza troppi pensieri e cavalcare le onde: << Nel fare surf c’è sempre qualcosa di liberatorio. Mantenendo l’equilibrio, restando in piedi, apprendi di essere vivo >>. Il confronto con il mare, qui, non serve a ridimensionare l’uomo davanti all’inafferrabile, all’imprevedibile. Immergersi significa, piuttosto, restituirsi al posto a cui apparteniamo, un gesto di resa e rinascita insieme. Sentire di nuovo la forza dei raggi del sole che filtrano le nuvole, per sorridere. Recuperare tutta la voce necessaria ad urlare al mondo la bellezza della propria anima, tratta in salvo. Better loud than too late.

 

  • FUTURE DAYS (LIGHTNING BOLT, 2013): Qualche giorno fa, una persona mi ha scritto: << I Pearl Jam non azzeccano una ballata dal 2002 >>. Ho risposto: << Non so se riesco a reggere un’affermazione del genere >>. Ho percepito un senso di ingiustizia nei confronti di Future days, chiosa finale della discografia finora all’attivo della band. Con lo storico produttore Brendan O’Brien come ospite, al pianoforte, la canzone viene eseguita per la prima volta al Wrigley Fields, lo stadio dei Chicago Cubs, alla serata di apertura delle Baseball World Series nel luglio 2013. Un tempio sacro, quello, che i cinque giovani musicisti che avevano esordito all’Off Ramp Caffè di Seattle non avrebbero mai pensato di varcare. << Penso che sia uno di quei pezzi che farà piangere le persone >> – dice McCready – << Quando l’abbiamo suonata al Wrigley Fields mi sono sentito un tutt’uno con il pubblico >>. Se, infatti, tutti gli inguaribili romantici vorrebbero essere i destinatari di una dichiarazione d’amore così profonda e incondizionata, il significato racchiuso in questa dolce poesia è ben più ampio. Come sottolineo spesso, parlare di futuro è una scelta coraggiosa. Perché per guardare oltre, si deve prima metabolizzare, analizzare, accettare quello che è stato. Le porte in faccia, le parentesi buie, le cadute, le perdite: << Quando le grandi lenti della tragedia ti puntano, tu cambi. Diventi più empatico >> – spiega Eddie – << È anche questo che dice il disco. Non aspettare che la tragedia ti colpisca direttamente prima di capire cosa stanno passando gli altri >>. Perché per guardare oltre bisogna avere ferma fiducia in qualcosa. In questo caso, nel loro caso, nel mio caso, la musica. << Abbiamo cominciato a fare musica per soddisfare noi stessi. Credo che questo fosse il piano all’inizio. Quel che non avremmo mai immaginato è che tante persone avrebbero stretto amicizie, scambiato idee e condiviso la propria umanità attraverso la nostra musica >>. Da Release in poi, tutte le tracce di chiusura, come nel compimento di un cerchio, o meglio, nello slancio nella spirale, hanno gettato l’occhio a quello che sarebbe stato. In Future days, il potere salvifico sta nella capacità stessa di sperare un domani, di riuscire a scorgerlo, conoscendosi e riconoscendosi, ogni giorno, nel presente. Per dirlo con le parole, con la voce di chi ci ha accompagnato fin qui: << La cosa più importante è imparare a capire chi sei adesso, nel presente >>.

 

*BONUS TRACK. HUNGER STRIKE (TEMPLE OF THE DOG, 1990): Non mi dilungherò sul significato di questo capolavoro. Non è stato scritto dai Pearl Jam. Appartiene a una band che è durata il tempo di un disco, di un’opera d’arte: i Temple of the Dog. Il mio desiderio è solamente quello che, adesso, lo ascoltiate. Tanti i temi, attuali ora come allora: lo sguardo attento al mondo, la premura per i più deboli, la coscienza politica e sociale, il pensiero per qualcuno che se n’è andato e a cui sono state dedicate dodici melodie senza tempo. L’assonanza, nel ritornello, tra “I’m going hungry” e “I’m going angry”. La proclamazione di uno sciopero della fame, di un digiuno, di una protesta dietro la quale tutto era già scritto e tutto era ancora da scrivere. Due sono le voci. C’è il tono basso, solenne di Eddie Vedder. E poi c’è la potenza, l’anima, il grido, l’unicità di colui che è stato bandiera di quella rivoluzione. C’è un artista che, sabato 18 maggio, manca terribilmente da due anni. C’è l’Uomo a cui vorrei dedicare questo articolo. C’è Chris Cornell.

 

Laura Faccenda

Foto di Henry Ruggeri

 

Diario di una Band – Capitolo Quattro

“Con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia, ma colpisco un po’ a casaccio perché non ho più memoria

E a un Dio senza fiato non credere mai”

 

F.De Andrè

 

 

Contaminazioni. La vera storia, il vero percorso musicale di una persona nasce in tempi remoti, laddove la memoria del soggetto in questione probabilmente non riesce ad arrivare, se non scavando veramente a fondo, rosicchiando forse quei primi passi che i timpani assorbivano, zampettando dolcemente nella più totale e caotica beatitudine che un pargolo può avere.

Una spugna che assimila le influenze dai genitori, dai fratelli maggiori o dagli zii. Molte volte è un concorso di colpe che crea veri e propri “mostri” di personalità, a volte arroganti, a volte riflessivi, a volte melanconici, a volte trascinatori inesauribili o testardi senza freno inibitorio.

Quando l’ascolto e la passione per l’ascolto diventano uno stile di vita, quando si scalfisce in maniera preponderante il peso specifico caratteriale andando cosi a contemplare la potenza della magia del pentagramma.

La colonna sonora di una vita è costellata di periodi più o meno lunghi e più o meno stratificati, più o meno incisivi forse, ma ognuno lascia un segno, un particolare che rende unico e originale ogni persona che vede la musica come un’autostrada da percorrere giornalmente.

A volte su una fuoriserie sportiva, a volte andando al galoppo di un drago, a volte semplicemente passeggiando sotto la neve. La cosa bella è che ognuno ha la libertà di scegliere la strada musicale da percorrere e corredare a proprio piacimento i dettagli, decidere se sacrificarli, se farli esplodere, se crederci o meno, per l’appunto, ai dettagli, vero ago della bilancia in questione.

Tutto ovviamente in base alle esigenze mentali e fisiologiche del caso. Il contorno che avvolge le proprie intenzioni durante il viaggio è un gioco di specchi che riflette ogni sfaccettatura caratteriale di un individuo andando a consacrare cosi una statua granitica di melodie.

Mia madre mi dice sempre che sono un “giovane vecchio”, come biasimarla. Sono riuscito nell’intento, senza nemmeno volerlo, di imparare ad amare tante tipologie di musica, figlio della curiosità, ho solo una sola certezza in questa vita, ovvero i miei antagonisti acerrimi: la noia e la soffocante routine.

Ho fatto un gioco, un piccolo esperimento che al fine risulta anche simpatico. Ho provato a scavare nel baule del tempo i primi tre dischi che ho ascoltato all’esasperazione, scarnificato, spolpato. Dopo averli focalizzati, ho provato a capire se hanno inciso sui gusti, su l’attitudine, su la personalità, tratti identificativi che oggi compongono il MIO essere, musicale e non.

Col massimo stupore il rapporto si sostiene bene. Gioco che invito ogni lettore a provare, sicuro che il collage dei ricordi sarà più amplio del solito, sicuro del fatto che si apriranno automaticamente tante piccole finestre sul passato.

Ci rimasi di stucco quando, una volta composto questa particolare graduatoria ho realmente appioppato un peso equilibrato ai tre dischi in questione plasmati alla mia vita.

Dookie dei Green Day fu un regalo di mio fratello Mattia nel lontano luglio del 1995. Ho compiuto dieci anni e come prima cosa, arrivato in doppia cifra ho scoperto il punk rock.

Mi innamorai istantaneamente della disinvoltura come respiro primario, mi innamorai della chitarra distorta, folgorato da quell’ approccio sfrontato al quotidiano che rimbombava come uno “WOW” interminabile e di quella vena ribelle che ovviamente ai tempi non potevo conoscere e concepire, ma quel lenzuolo di stoffa ruvida me lo sentivo veramente comodo sulle mie piccole spalle.

Resta l’album che ha spalancato le porte della rozza vena che amo ancora mettere davanti a ogni mio proposito musicale. Un disco che scivola via dalla prima all’ultima canzone.

Oggi come ieri un rifugio di immagini e ricordi, di campeggi con le chitarre acustiche scordate e l’avvento dei primi sogni di gloria, quando per sfida o presunzione cercavo di assomigliare a Billy Joe, recependo gli input della sua immagine come una vera e propria figura mistica.

Credo di essere una persona del tutto propensa al divertimento, tentando di sorridere al massimo delle possibilità, cercando sempre di prendermi poco sul serio quando può giovare chi mi circonda e godendo in compagnia, facendo dell’auto ironia un’arma di condivisione di massa. Questa attitudine jokeristica la devo senza a dubbio all’album di Elio e le Storie TeseEat The Phykis 1996.

Togliendo il fatto che la suddetta band è una vera officina di tecnica e precisione, accademia pura per ogni tenace ascoltatore, volevo focalizzarmi su un’altra sfaccettatura. Ciò che prendo in esame e che ora posso vedere in maniera più cristallina è la delicata causa dell’ironia, della metafora e della denuncia mai diretta, ma velata e nascosta dietro all’aneddoto e alla similitudine.

“La terra dei cachi” nel suddetto anno fece la fortuna e scalfì la sfumatura un po’ eversiva del Festival di San Remo, fin li rimasta abbastanza sterile di personalità dai tempi di mostri sacri come Rino Gaetano e Luigi Tenco.

Lo dimostra il fatto che, nella finale, agli artisti veniva concesso un singolo minuto di tempo per poter convincere il pubblico a spingerli verso la vittoria. La logica e l’ordinario, il canonico e conseguenziale pensiero strategico metteva questo minuto a disposizione dello spezzone più incisivo del brano, in linea di massima il ritornello governava questi 60 secondi di “dentro o fuori”.

La follia o la prospettiva, non so come chiamarla, ma Elio e Co. presero la loro canzone, raddoppiarono la metrica, suonarono “la terra dei cachi” in maniera impeccabile e velocizzata, restarono dentro il minuto disponibile. Per me, undicenne fu epico. Sconvolto!!!

Un messaggio chiaro, affascinante, ero divertito, stregato. Mi feci comprare il cd dai miei vecchi che ai tempi ordinavano spesso dischi e quant’altro su di un catalogo musicale che si chiamava “OK MUSIC”. Volevo saperne di più, volevo capire cosa potesse esserci dietro a quegli “scappati di casa”.

Quello che venne in futuro in compagnia dei dischi di Elio e le Storie Tese è semplicemente storia.

La bellezza del rischio, di osare, di vedere un finale diverso e perché no, un finale ontologico, mantenendo il sorriso e il coraggio. Senza dubbio virtù trasmesse alla leggera dagli zii di Milano.

Ultimo ma non ultimo, sempre nello stesso periodo, forse l’anno dopo, scoprì la bellezza e l’ammirazione che provo con rinnovato affetto anch’oggi per la rima. Divenuta in seguito una compagna fedele, amica sempre pronta alla “battaglia” che pareggia ogni mio stato d’animo quando ne percepisce l’affanno.

Iniziai a scrivere molto presto, e ricordo che la prima canzone che buttai giù, per esigenza, rigorosamente in rima e senza sapere minimamente tenere in mano una chitarra fu un inno all’Uomo Ragno, potevo avere 9 anni, non di più. Mia nonna Clara e mio nonno Mario tenevano un’edicola a San Carlo, il mio paese di nascita.

Avevo a disposizione una vasta gamma di fumetti, ma Peter Parker aveva qualcosa che andava oltre gli altri paladini dell’universo Marvel. Il mio super eroe al fianco di Dario Hubner e Marco Van Basten. Quindi tra un fumetto e un giornaletto porno che di soqquatto finiva nel mio Seven assieme ai libri di scuola, (mossa faceva le gioie dei miei compagni di classe ovviamente), scoprì l’amore per la scrittura e di conseguenza per le donne.

In quel periodo storico esplose la melodrammatica guerra giovanile nella mia zona tra chi ascoltava il Rap e chi ascoltava il Punk California modalità skate. A me il rap ha sempre destabilizzato, se non qualche sberla del primo Neffa e dei Sangue Misto, o di precursori come I Cavalieri della notte, altri tempi.

Però esplodeva a livello commerciale e radiofonico in quel periodo il successo nazionale degli Articolo 31 e Così com’è mi ha insegnato quella linea di scrittura martellante, incalzante, accattivante, rigenerante.

Ai tempi non scriveva cazzate J AX e per un adolescente brani col ritornello che fa “Con le buone si ottiene tutto” era un monito chiaro. E’ ovvio che bisogna avere la scaltrezza e la fortuna di assorbire e apprendere certi segnali dall’universo, ma quella frase, di una canzone che poi è passata in tempo celere nel dimenticatoio, mi ha sempre battuto sulla spalla, come un soffio di educazione mai svanito.

Ho scritto una canzone rap nella mia vita e mi ha pure soddisfatto ma prendo da quei tempi passati la voglia e la necessità di non banalizzare una canzone con testi scontati, frivoli o poco significativi, per lo meno per me.

Cosi come un tatuaggio, una canzone credo vada fatta per necessità interiore, per un tangibile sostentamento emotivo. Scrivere per trasmettere credo debba valere come cicatrice che nel bene o nel male farà sempre parte di te, parlerà sempre di te.

Fatevi un giro nel passato, tirate fuori le vecchie foto dagli album di famiglia, mettetevi intorno a un tavolo con amici e parenti e aprite il baule magico del passato, della spensieratezza, del collaudo verso la vita.

Son sicuro scoprirete più sensazioni e propositi che sono stati sepolti per anni, e che nella frenesia di oggi porteranno una boccata d’aria senza dubbio rigenerante.

 

Vasco Bartowsky Abbondanza

Built to Spill @ VoxHall

Aarhus, 13 May 2019

It’s a sunny spring evening in Aarhus and VoxHall is open tonight to host Built to Spill, on their tour to celebrate the twentieth anniversary of Keep It Like a Secret.

The concert is scheduled to start at 20:00, and a few minutes before the opening band takes the stage I enter the venue and I find it suspiciously desert: a handful of people, a few known faces and most of the attendees enjoying a drink beyond the bar that shields the floor from the golden light coming from the wide windows looking at the small river that cuts the city.

Lights dim and Oruã from Brasil start playing: dark, noisy guitars, hypnotic drums and a vocal attitude that recalls Cedric Bixler-Zavala. Listening to them was a continuous in and out of a timeless dimension, a sort of black hole inside of which there was music but on the outside time was passing very slowly: to me, the hour of their set seemed longer than the twelve years I had to wait to see Built to Spill again.

By the time Oruã set was over, the venue was a bit more crowded, but still far from the expectations: why? …and the answer is: there is another band to go!!!

A bit scared of another endless hour of wait, I lean on the barrier in front of the stage with no expectations at all.

The second band of the bill is Slam Dunk from Canada, a happy crazy quartet on their last date of the tour. Their rock is fresh and catchy, their attitude on the stage a storm of energy: jumps, jokes and messing around are the perfect entertainment to keep the crowd awake and allow the late people to fill the floor.

Once they carry out of the stage their guitars, there is nothing much to arrange to host the main act of the night, as all the three bands share the same drum kit, a few ampli on the back of the scene and… basically that is it: simple, open, essential, a setup that is so typically Built to Spill.

Doug Martsch walks in, carrying his inseparable backpack, like he is just another sound tech, as usual: he sets up his pedals, whatever he has on top of a case next to the mic and as soon as the three other touring members of the band take the stage, he starts. Not a word, but You Were Right, the eighth track of the record we are here to listen to.

It is an interesting choice, the fact of playing every evening the tracklist of the record shuffled: most of the bands, when they play an anniversary-of-some-record show, play the record top to bottom. How innovative. Despite I could understand that it is what the audience expects, it is also true that listening to very well known songs in a different order sparkles something new, a nuance that you would not have noticed otherwise, and that is the magic and the craftsmanship of a live show.

There are no frills on the stage, the lights are wisely balanced to allow the crowd to see the musicians on the stage but at the same time low enough to give a feeling of intimacy. The songs flow one after the other with no effort: Time Trap arrives and goes, I am completely lost in the extended guitar solos; The Plan, memories of a past life that come back.

Sidewalk, a string on Doug’s guitar breaks and in front of a full house, on the stage, there it is, the embodiment of humility: a man and his only guitar, no fancy backups, no frenetic helpers that come and change it because show must go on, no. The band keeps playing without looping, improvising a solo that it seems it has always been there, as part of the song, and in the meantime the string is changed, a truly genuine moment.

The main set ends with Broken Chairs, during which I cannot help taking the following note while I am both lifted and intimidated by the guitar solos: “these solos are some of the finest examples of musical architecture, precisely built to be both slender and solid like the arches in a gothic cathedral: clean, immense and strong enough to carry the weight of a heart full of the emotions”.

The band leaves the stage, but we all know they will be back because one song is missing from the setlist played so far, and it is probably the gem of the album: Carry the Zero.

It is not time to say goodbye yet, so before we get to the closing of the concert, we are treated with a handful of songs that spans through the whole production of the band, and a cover, and a stage invasion by the opening bands and finally, with dimmed lights and a slight melancholic feeling, we finally get to that carried zero that changes everything.

I am well aware those are the last minutes of a one and a half hour delight and on those parting words a hint of sadness slips under my skin — luckily, those two wild clowns of Slam Dunk frontmen show up on the stage again, transforming this intimate goodbye into a party, while a shy smile finds its way on Doug Martsch’s face.

Pictures courtesy of Steffen Jørgensen

ita

Miles Kane @ Santeria

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• Miles Kane •

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+ Angelica

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Santeria Toscana 31 (Milano) // 15 Maggio 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto: Alessandra Cavicchi

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AngelicA

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Grazie a Indipendente Concerti

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FABER NOSTRUM | Una Recensione

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 P0P

presenta:

FABER NOSTRUM

Una Recensione

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Built to Spill @ VoxHall

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• Built to Spill •

 

VoxHall (Aarhus) // 13 Maggio 2019

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]È una soleggiata serata primaverile ad Aarhus e il VoxHall è aperto stasera per ospitare i Built to Spill, in tour per celebrare il ventesimo anniversario di Keep It Like a Secret.

Il concerto inizia alle 20:00, e pochi minuti prima che il gruppo di apertura salga sul palco, entro nel locale trovandolo sospettosamente deserto: una manciata di persone, qualche faccia conosciuta e la maggior parte della gente che si gode un drink dall’altra parte del bar che si separa l’area concerto dalla luce dorata che entra dalle ampie finestre sul fiumiciattolo che attraversa la città.

Le luci si abbassano e gli Oruã dal Brasile iniziano a suonare: chitarre cupe e rumorose, ritmi ipnotici e una voce che strizza l’occhio a quella di Cedric Bixler-Zavala. Ascoltarli è un continuo entrare ed uscire da una dimensione senza tempo, una sorta di buco nero al cui interno c’è musica ma al di fuori il tempo scorre molto lentamente; per me, l’ora del loro set è stata più lunga dei dodici anni che ho dovuto aspettare per rivedere i Built to Spill.

Alla fine del set degli Oruã, il locale è un po’ più pieno ma ancora lontano dalle aspettative: perché? …e la risposta è: c’è ancora un’altra band!!!

Un po’ spaventata dal pensiero di un’altra infinita ora di attesa, mi appoggio alla transenna senza alcuna aspettativa.

Il secondo gruppo della serata sono gli Slam Dunk dal Canada, un quartetto pazzo e felice alla loro ultima data del tour. Il loro rock è allegro e coinvolgente, il loro atteggiamento sul palco un uragano di energia: salti, scherzi e confusione sono il perfetto intrattenimento per tenere il pubblico sveglio e permettere alle ultime persone di riempire il locale.

Finito di portar via dal palco le loro chitarre, non resta molto da sistemare prima dell’arrivo del nome principale della serata, in quanto i tre gruppi condividono la stessa batteria, qualche amplificatore sul fondo della scena e… fondamentalmente è tutto lì: semplice, aperto, essenziale, un allestimento così tipicamente Built to Spill.

Doug Martsch entra come se fosse solo un altro tecnico del suono, portando in spalla il suo zainetto come al solito: si prepara la pedaliera, sistema non so cosa sopra ad una cassa di fianco al microfono e non appena gli altri tre membri del gruppo entrano in scena, inizia. Non una parola, ma You Were Right, l’ottava traccia dell’album che siamo qui ad ascoltare.

È una scelta interessante, quella di suonare ogni sera la tracklist dell’album mischiata: la maggior parte dei gruppi, quando suonano un qualche anniversario di disco, suonano il disco dall’inizio alla fine. Quanta originalità. Nonostante possa capire che quello sia ciò che il pubblico si aspetta, è anche vero che ascoltare canzoni che conosciamo bene in un ordine diverso può far emergere qualcosa di nuovo, delle sfumature che magari non avremmo colto altrimenti, e questa è la magia e l’artigianalità di uno spettacolo dal vivo.

Non ci sono fronzoli sul palco, le luci sono sapientemente bilanciate da permettere al pubblico di vedere i musicisti sul palco, ma allo stesso tempo abbastanza basse da dare un senso di intimità. Le canzoni scorrono una dopo l’altra senza sforzo: Time Trap arriva e se ne va, io sono completamente persa negli assoli dilatati delle chitarre; The Plan, ricordi di una vita passata che riaffiorano alla mente.

Sidewalk, una corda della chitarra di Doug si rompe e di fronte al locale pieno, sul palco, c’è l’impersonificazione della parola umiltà: un uomo e la sua sola chitarra, niente costosi backup, niente aiutanti frenetici che arrivano con una chitarra fresca perché lo spettacolo deve continuare, no. Il gruppo continua a suonare, ma senza entrare in loop, improvvisando assoli come se fossero sempre stati lì, parte della canzone, e nel frattempo la corda viene cambiata in un momento di vera autenticità.

Il set principale si chiude con Broken Chairs, durante la quale non posso fare a meno di annotarmi il seguente pensiero mentre sono al contempo sollevata ed intimorita dall’assolo di chitarra: “questi assoli sono tra le più raffinate architetture musicali, costruiti con precisione per essere snelli e solidi come gli archi in una cattedrale gotica: puliti, immensi e forti abbastanza da sostenere il peso di un cuore pieno di emozioni”.

La band lascia il palco ma sappiamo tutti che torneranno, perché manca una canzone dalla scaletta suonata finora, ed è probabilmente la perla dell’album: Carry the Zero.

Non è ancora un vero e proprio commiato, perciò prima di arrivare alla conclusione del concerto siamo coccolati con una manciata di canzoni che coprono l’intera produzione del gruppo, e poi una cover, e poi un’invasione di palco da parte dei gruppi di apertura e poi, finalmente, con luci soffuse e un vago senso di malinconia, arriviamo a quello zero riportato che cambia ogni cosa.

Sono ben consapevole che questi sono gli ultimi minuti di un’ora e mezza deliziosa e sulle parole d’addio della canzone un accenno di tristezza s’insinua in me — fortunatamente, quei due pagliacci sgangherati dei frontmen degli Slam Dunk tornano sul palco di nuovo, trasformando questo intimo arrivederci in una festa, mentre un timido sorriso si fa largo sulla faccia di Dough Martsch.

 

Francesca Garattoni
Foto per gentile concessione di: Steffen Jørgensen

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Wacken Open Air: Tre giorni di musica Metal!

Era il 1990 quando il villaggio di Wacken, nel Nord della Germania a circa 70 km da Amburgo, ospitava il primo Wacken Open Air. All’epoca si esibirono 6 band tedesche e parteciparono circa 800 spettatori.

Nel 2019, alla trentesima edizione, il festival si conferma essere uno dei principali eventi heavy metal a livello mondiale, con la presenza di 200 gruppi internazionali e un pubblico di 80.000 persone.

Le vendite hanno fatto registrare il tutto esaurito per 15 anni consecutivi. Dal 2008 ogni anno viene infranto il record di sold out anticipato, fino ad arrivare al 2015, quando i biglietti sono stati venduti tutti in 12 ore.

Negli anni hanno partecipato al W:O:A band del calibro di Nightwish, Iron Maiden, Motörhead, Mötley Crüe e Judas Priest, oltre ad artisti come Alice Cooper e Ozzy Osbourne. Una menzione particolare va fatta anche ai nostri Lacuna Coil presenti a più edizioni.

Quest’anno sarà la volta di Airbourne, Slayer, Anthrax, Of Mice & Men e Within Temptation.

Dall’1 al 3 agosto i campi intorno a Wacken verranno invasi dalle tende da campeggio dei partecipanti e verrà allestita una vera e propria città in cui le migliaia di persone, accomunate soltanto dalla voglia di esserci, vivranno per la durata dell’evento.

Ci saranno 8 palchi, una chiesa per speciali concerti in acustico, ristoranti e beergarden in piena tradizione tedesca.

Se qualcuno, per assurdo, si stancasse di assistere agli spettacoli potrebbe distrarsi in piscina o con i numerosi eventi collaterali proposti.

L’appuntamento per ogni fedele del metal, anche quest’anno, è a Wacken.

 

Mirko Fava