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Arlo Parks

My Soft Machine

Transgressive [PIAS]
26 Maggio 2023
di Andrea Riscossa

Arlo Parks è una ventiduenne londinese, attiva dal 2018, che vanta un album di esordio clamoroso.
Collapsed in Sunbeams (questo il titolo dell’opera prima) portò a casa un Mercury Prize e un Brit Award. Un debutto che ha posto l’asticella in alto. Forse troppo. Era il 2021, eravamo tutti allegramente in burn out da pandemia e l’opera prima della Parks sembrò una sana seduta di psicanalisi collettiva, una condivisione in bei versi di temi discretamente pesanti, come ansia e depressione, cullati da melodiose ninne nanne.
Leggendo la descrizione che la stessa cantante fa del disco e del suo titolo, si poteva immaginare un degno secondo capitolo, nuove storie da aggiungere all’immaginario dell’artista, una fuoriclasse nella creazione di piccole storie, di brevi racconti, struttura e fulcro del primo lavoro.
Del nuovo album dice in sostanza che l’idea è nata durante la visione di the Souvenir, un film di Joanna Hogg, in cui uno dei personaggi sostiene che “we don’t want to see life as it is played out, we want to see life as it is experienced in this soft machine”.
Il cinema è spesso presente, con riferimenti sparsi, alcuni espliciti, come quello di Romeo + Juliet per la scena dell’incontro attraverso l’acquario, o la Juliette Binoche citata nella canzone Impurities
Sentimenti, esperienza e medium, il tutto condito con liriche sempre di notevole impatto. Un proposito impegnativo, quello dichiarato dalla giovane cantante.
Il senso delle tracce è analisi delle emozioni, dei sentimenti, attraverso personalissimi percorsi mentali. C’è un’urgente richiesta di affetto e di amore, con riferimenti non troppo celati verso Ashnikko, il suo partner attuale. La soft machine di Arlo è in azione e non è di semplicissima comprensione. 

È un disco col trucco. Le prime tracce infatti illudono l’ascolto: si inizia con Impurities, che apre con loop orientaleggianti, mentre le parole di Arlo ci offrono garanzia di comprensione, accettazione e redenzione. Il tutto è orecchiabile e salvifico, un meraviglioso benvenuto per aprire l’album. Segue Devotion che, dopo un circa un minuto introduce golosissime chitarre che ahimè non torneranno mai più. Già, perché l’album inizia a sfumare, soprattutto nella sua parte finale. Sia chiaro, nelle successive Blades, Purple Phase e Weightless tutto funziona alla perfezione, liriche con immagini che sono sempre centrate ed efficaci, come la decadente “there are sandflies in the champagne” in Weightless. Menzione d’onore però per Pegasus, in duo con Phoebe Bridgers, che ricorda molto da vicino le canzoni del suo primo album, sia a livello musicale sia testuale.
Come detto prima, però, dall’ottava traccia l’album perde la spinta iniziale e termina per inerzia fino a Ghost, canzone che chiude il secondo lavoro della Parks. 


È un lavoro ben confezionato, ben prodotto, sicuramente pieno di buone idee, ma non ha quella luce nuova del disco di esordio. E non è neanche una sua naturale prosecuzione, si vira da un indie-trip-hop-soul della prima opera a un pastiche sospeso tra sperimentazioni e synth sognanti del secondo. È una prova d’autore, che però non apporta né progressi né mirabolanti sterzate. Il suo titolo ha forse una interpretazione freudiana, in cui l’emotività è passata attraverso un processo meccanico. Manierismo et empatia, sempre ben presentate, sia chiaro.
Nel disco aleggia un sentimento di panica accettazione, di “delicatismo”. Dopo aver raccontato di sé stessa al mondo, delle proprie paure e sconfitte, il tutto in un contesto pandemico, in questo lavoro sembra sorgere il bisogno di un ritorno alla gentilezza e ai sentimenti amorosi.
Un po’ in comfort zone, un po’ troppo presto.
Rimangono quegli sprazzi di luce di cui si parlava sopra, nella speranza che siano sentieri inesplorati in cui Arlo avrà voglia di fare nuovi passi, lasciando vie note per sperimentare senza paura.