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Bodega

Our Brand Could Be Yr Life

Chrysalis Records
12 Aprile 2024
di Andrea Riscossa

“Pop Art is: Popular (designed for a mass audience), Transient (short-term solution), Expendable (easily forgotten), Low cost, Mass produced, Young (aimed at youth), Witty, Sexy, Gimmicky, Glamorous, Big business.”

– Richard Hamilton

L’ultimo disco dei Bodega non è l’ultimo disco dei Bodega. 
Questa è stata, in estrema sintesi, la dura realtà cui mi sono dovuto confrontare dopo l’iniziale entusiasmo per l’annuncio di un nuovo album della band newyorkese. Our Brand Could Be Yr Life è un remake, una sintesi, una rielaborazione del primo lavoro della band di Ben e Nikki, allora noti come Bodega Bay. È rimasto il titolo, identico, ma si sono ridotte le dimensioni, passando da trenta tracce del disco del 2015 alle quindici di quello appena uscito. 

Il titolo è una citazione del libro di Micheal Azerrad Our Band Could Be Your Life: Scenes from the American Indie Underground, un’analisi della scena musicale indipendente nella decade 1981-1991, della sua cultura e della sua eredità negli anni seguenti. Ma se “band” diventa “brand”, il giudizio che i Bodega danno a questa eredità risulta piuttosto tranchant.

È in qualche modo un concept album, quantomeno ha come sfondo un tema, quello del rapporto dell’indie con il proprio canone, con la stessa struttura commerciale che ha assunto. Un meta-album, che finisce col dissacrare stereotipi e manierismi di categoria.
Tanto che il cuore del disco sta negli otto minuti occupati dai vari capitoli di Cultural Consumer, una trilogia nonché un’analisi in pala d’altare su spleen, decadenza, incapacità e produzione artistica, pastiche postmodernista sul ruolo di chi si professa “artista”.
L’album è un discreto melting pot che mostra chiaro e cristallino il potenziale poi esploso nei dischi successivi. È un prequel pieno di riferimenti e di anticipazioni, seppur rielaborati e rivisti, che ampliano lo spettro di colori entro cui si muovono i Bodega. È un viaggio nel viaggio, perché questo lavoro aveva già la caratteristica dei dischi successivi della band: è al suo interno disomogeneo e per questo sempre sorprendente, è squilibrato al primo incontro, per poi invece trovare un senso dopo qualche ascolto. Un disco intelligente, autoironico e allo stesso tempo leggero. 

Al suo interno si trovano anime diverse, c’è tanto college rock e un’eco sempre presente al sapor anni ottanta, ma anche spigoli e ruvidità, come in ATM o Set the Controls for the Heart of the Drum (citazione tutta per i Pink Floyd, anche se, a livello musicale siamo a distanze siderali).
Abbiamo power pop q.b. e tanta melodia, suggellata da Cultural Consumer III, che puzza di Beatles e vinile. 
Webster Hall invece sembra un tributo ai R.E.M. e alle chitarre di Peter Buck. I Bodega si muovono tra Devo e Weezer, qualcosa dei Velvet Underground riecheggia in Protean, mentre l’approccio intellettuale e dissacrante sembra raccogliere l’eredità dei Talking Heads
C’è tanto, tantissimo peso specifico in questa riedizione del loro primo lavoro. Un album di pop art con una coscienza e una missione, coerente nella forma e dissonante nel contenuto, che dall’interno del canone lavora per mettere a nudo ogni singola contraddizione. 
Nikki chiude il disco con una traccia inedita dedicata a New York, città natale della band. E in qualche modo Brooklyn e la grande mela sono nel DNA della band, tra afflati bohémien e radical chic figli dei social, tra urgenze creative e creativi con urgenze, la band si specchia nel suo ambiente e ne estrae un distillato dolce e pungente, perfetto per un aperitivo con sconosciuti che “fanno cose e vedono gente”.

Morale: l’ultimo disco dei Bodega non è un nuovo disco dei Bodega, ma ribadisce quello che la band ci racconta da nove anni. Lo fa suonandolo meglio, lo fa aggiungendo qualche capitolo. Se li conoscete già, sapete il valore che hanno, se invece partite da zero, questo è il capitolo giusto da cui iniziare.