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Glen Hansard

All That Was East Is West of Me Now

ANTI-
20 Ottobre 2023
di Andrea Riscossa

Ho scritto una recensione ma era stonata.
Era fredda, era noiosa, era tecnica. E mi sono annoiato da solo. 

Forse Glen Hansard un po’ di colpa ce l’ha, ma questo è un disco nato dentro un pub, e forse, più che di musica, bisognerebbe parlare di come nascono i dischi, o di come certe sere, dopo un periodo di caldo anomalo, un album improvvisamente ha un altro sapore, e no, non è merito dell’ennesimo riascolto. Forse dell’autunno, forse della birra, forse serve meno attenzione, perché esistono bellissimi dischi che hanno un profumo e che non richiedono un’applicazione scolastica. 

Quanti forse. Chiedo scusa. Partiamo dall’inizio, da quando arriva in preascolto un album che aspetti, perché l’ultimo di Glen Hansard è un album che aspettavo, eccome. Voglio bene al vecchio Glen dai tempi di The Commitments, ed ancora di più per ogni volta che ha accompagnato Eddie Vedder nelle sue scappatelle da solista. In pandemia era uno dei pochi a cantare per due ore live sui social, senza steccare mai e dimostrando che la palestra dei buskers è la migliore, senza dubbio. 

Così, come sempre, quando inizia il primo brano, spero sia anche il principio di una nuova scoperta, il primo fotogramma di una nuova avventura, una lunga avventura. Può andare bene, e avrò nuove canzoni che si legheranno per sempre a un periodo della mia vita, nuove colonne sonore, e può andar male, e resteranno occasioni mancate. Poi, come nella vita reale, esistono inizi promettenti, meravigliosamente illusori, che sono solo belle copertine di entropie indesiderate. Per un po’ l’ultimo disco di Glen Hansard è stato esattamente questo: due canzoni a inizio album che portavano novità e un sound decisamente piacevole. La prima traccia, The Feast Of St. John, è davvero riuscita, grazie anche alla collaborazione con Warren Ellis dei Bad Seeds. La seconda, per gli standard cui ci ha abituato, è quasi black metal (sia messa l’iperbole a verbale). Il riff di Smoke on the Water riecheggia per tutta Down On Our Knees. Al che risulta normale iniziare a godersi il viaggio e mettersi comodi. 

Invece no. No Mountain è Glen Hansard al cubo. Voce, chitarra e Dublino. È come passare dalla quinta alla seconda, senza motivo alcuno. Sembra quasi chiedere scusa per essere andato fuori tema e si ritorna a una comfort zone di cui io, personalmente, non sentivo una profonda nostalgia. E la situazione scivola verso lidi pericolosi con la successiva Sure as the Rain, che sembra uscita dal suo album precedente, cupo e parigino, This Wild Willing. Il ritmo rallenta ulteriormente, si rimane quantomeno spiazzati. Il pezzo dura sei minuti, come il successivo, Between Us There is Music, che non cambia il movimento interno dell’album. Ghost, che sembra sospesa tra Radiohead e Beatles, cambia finalmente marcia. E difatti nella seguente Bearing Witness torna da subito un altro approccio, trascinandoci in una ballata che sembra arrivare dall’altra sponda dell’oceano. Short Life chiude il disco, perché di fatto il Reprise finale è un mezzo minuto strumentale che serve a svuotare l’ultima pinta e andare a casa. È nuovamente una canzone da quasi sei minuti, un crescendo perfetto per salutare tutti e farsi perdonare un paio di pezzi mal posizionati nella track list, e a ricordarci quanto suoni bene la musica che vive nello zio Glen. 

Al primo giro di pensieri, un album non perfetto. Squilibrato, assemblato male. Classico e con un paio di illusorie novità.

Poi scopri che è stato generato, testato e approvato in un pub.

All That Was East Is West Of Me Now, questo è il titolo dell’album, è il risultato di alcune serate live che Hansard ha organizzato presso un piccolo locale nel novembre dello scorso anno. Lo stesso cantautore ha raccontato che i pezzi sono nati tra giocatori di freccette ed operai intenti a bere Guinness, che spesso prestavano un solo orecchio alla band. In quel clima da tipico pub irlandese, è nato il disco. Seguendo quello che alla gente piaceva di più, scegliendo le canzoni che suonavano meglio tra pinte e biliardi. Il lavoro successivo è stato farsi guidare dal solito David Odlum nello studio di Dublino.
E allora, con un contesto e una storia, il disco ha un altro sapore, altri colori. Se vi capiterà, ascoltatelo pensando di essere in un pub, mentre la testa si fa leggera grazie alla birra e ai racconti di chi vi sta davanti. Intanto nell’angolo c’è un irlandese con una chitarra che non sbaglia una nota, e che racconta storie e nonostante le rughe giurereste di averlo pure visto in un vecchio film di Alan Parker, tanti anni fa. Suonava la chitarra anche lì, guarda che carriera strana ha fatto, il barba.