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Grian Chatten

Chaos for the Fly

Partisan Records
30 Giugno 2023
di Andrea Riscossa

Ci sono viaggi che vuoi fare in compagnia, altri che prevedono la solitudine. Servono a far maturare pensieri e a fare fiorire idee. Servono a crescere e a esplorare.
Grian Chatten, frontman dei Fontaines D.C., stava passeggiando a nord di Dublino, sul lungomare di Stoney Beach. Racconta che l’album è arrivato lì, tra la spiaggia e il vecchio casinò decadente. Arrangiamento, testi, crescendo di archi, tutto si è palesato, come se arrivasse dal mare.
Una delle conseguenze è stata anche la decisione di non portare tutto il materiale ai ragazzi della band. Chatten ha deciso di non giocare a fare il Waters di turno e di rispettare il metodo di scrittura collettiva dei Fontaines. Ha protetto la sua creatura, che, di fatto, è un qualcosa di molto, molto, molto lontano da quello che abbiamo finora visto dall’artista irlandese.
Non c’è più la furia né l’urgenza, non c’è sincope né urla. Rimane quella matrice folk che nei lavori di gruppo era marcata soprattutto all’esordio, anche se nel suo disco prende una piega vagamente lo-fi.
I brani sono più morbidi, sospesi in una dialettica tra analogico ed elettronico, con netta predominanza della prima componente. Sono chitarre, archi e pianoforte a farla da padrone. Ma sono soprattutto le parole a dominare in questo primo lavoro di Mr. Chatten.
Che ha sempre qualcosa di interessante da dire. Coi Fontaines tende a urlarlo, solista vanta più calma, anche se il messaggio è comunque di un notevole peso specifico.

Prodotto con Dan Carey, l’album spiazza fin dalla prima traccia, The Score: iniziamo con relazione e distanza, col tema del mare, dell’affondare, dell’amore come guerra di posizione.

Last Time Every Time Forever:
Without a chance I’m king
Of every single thing
And it’s the cheapest spend
To make a dead heart sing

Qui “si spalano nuvole”, un flusso di coscienza con un paio di etti di chiavi di lettura, tutte buone, tutte valide, tutte equamente contorte. Pirandelliano, financo nel titolo.
Il tema del re, del re del nulla, torna più volte nell’album, così come la presenza del mare, che dell’album è fonte ispiratrice e funziona da sfondo, o da rumore di fondo.
Segue Fairlies che è un po’ skiffle e un po’ lirico, o semplicemente è una ballata che sembra un fotogramma di un film di Wes Anderson popolata dai Monty Python.
Assurdo, intelligente, ironico, caustico, spietato, il tutto rigorosamente in tono pastello. 
È un disco decadente come certe città costiere, come se i Beach Boys a fine corsa fossero in realtà vissuti sulle sponde opposte dell’Atlantico. C’è un’aria marina, densa e carica, che rovina la vernice delle cose, che segna il tempo, che induce alla malinconia. Come Bob’s Casino, dove si sfiora lo swing, e sono gli ottoni a trasportarci in un altroquando musicale. Si celebra il non-compiuto, è un brindisi alle occasioni perdute, tutte figlie di decisioni sbagliate o dell’accidia che si lega all’aria iodata.
All The People analizza il rapporto artista/pubblico, in una elegia di tristezza per violino e pianoforte. Un po’ cliché, un po’, forse, è un sentimento che chi vive sul palco deve esorcizzare davvero. L’onda malinconica continua in East Coast Bed, un testo contorto su un amore passato, qualcosa che sa di mare e di quei groppi in gola che solo settembre sa portar con sé.
Per fortuna arriva Salt Throwers off a Truck, dove la pedal steel accompagna il racconto di un piccolo mondo, un quartiere di città, personaggi usciti dalla penna di Auster. Roba da buskers, robe da Dubliners.
Visioni d’amore tutt’altro che poetiche si affacciano nelle liriche di I Am So Far, ironicamente cantata con la compagna Georgie Jesson. Siamo nel buio-dell’oscurità-della-notte-della-fine-di-un-rapporto, una canzone dedicata a quel gusto un po’ ferroso che il nulla porta con sé. Amore? No, tutte bugie. A volte, sul lungo mare, il vento porta anche ricordi pesi.
E pioggia, e dolore, e noi stiamo lì, con la faccia di chi guarda partire il traghetto (cit.) nell’ultima traccia del disco, Season for Pain, che dichiara gli intenti con tre sole parole nel titolo. Non c’è redenzione, non c’è salvezza, il gusto è amaro, come le vite non vissute (parole di Chatten).
Insomma, l’album si chiude con un durissimo “If you have nowhere to go / Get used to the rain / I doubt you find what you’re looking for / I doubt the feeling remains / This is no season for loving / This is the season for pain”.
La buona notizia è che le stagioni passano, segnatevelo.

Che sia il Nebraska di Chatten o che sia semplicemente un esperimento, questo è un album onesto, forse troppo. Una confessione a fine estate, quando rimetti una felpa dopo mesi e senti che il groppo alla gola preme forte.
Non esistono solo dischi fatti di sentimenti o che raccontano storie. Esistono album che cantano il genio del luogo, in tutte le sue declinazioni. Pensate a dove avete passato le vostre vacanze, da bambini, attraverso l’adolescenza e fino a quando non vi siete stufati e l’avete abbandonato. Quel luogo conterrà per sempre storie, magari felici, altre tristi. Avrà le sue canzoni, i suoi angoli intrisi di ricordi. E allora questo album è uno spazio, un luogo, un’architettura che contiene emozioni. Che è giusto cantare, anche se fa male.

Sì, forse è il suo Nebraska, solo che questo profuma di mare.