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I Hate My Village

Nevermind the Tempo

Locomotiv Records
17 Maggio 2024
di Alberto Adustini

Se c’è un aspetto che è cambiato in me negli ultimi diciamo venticinque anni nell’ascoltare un disco nuovo non è l’entusiasmo, nemmeno la curiosità di scoprire una traccia dopo l’altra. Ciò che ho imparato e affinato negli ultimi tempi è di non riporre aspettative eccessive in ogni nuovo disco pubblicato da chicchessia. Nella mia mente, per molto tempo, ogni uscita potenzialmente poteva essere il disco dell’anno perché l’artista che lo aveva inciso aveva nelle intenzioni quelle di registrare il miglior disco della storia. È un approccio malato, ne convengo, eppure ho sempre ritenuto inimmaginabile uno scenario diverso da questo. 

Ebbene col tempo, molto tempo, ho scoperto che no, escono dischi bellissimi, escono dischi bruttissimi, escono dischi bellissimi che i loro autori considerano mediocri, dischi mediocri considerati “la cosa migliore che abbiamo mai fatto” (e qui potrei come non potrei riferirmi ad una dichiarazione letta da qualche parte e rilasciata dal frontman di una band grunge da poco uscita col suo dodicesimo lavoro). Ma la cosa che ho realizzato, e questo grazie alla crescente percentuale di cinismo che col tempo si impadronisce man mano del tuo corpo, è che molte volte chi fa un disco non lo fa pensando “cambieremo il corso della musica per sempre e tutte le generazioni ci renderanno omaggio amen”, e molto spesso nemmeno “questo è quanto di meglio possiamo offrire ai nostri fan”.

A volte accade che semplicemente che un gruppo di amici, accantonati per un po’ gli impegni primari, decida di trovarsi, cazzeggiare, provare, suonare, registrare e mandare in stampa un disco.

As simple as that.

E tutto questo preambolo nulla ha a che vedere con la qualità del risultato ma aiuta ad approcciarsi all’ascolto con la giusta attitudine e propensione.

In quest’ottica il nuovo lavoro degli I Hate My Village si colloca alla perfezione, le dieci tracce compongono una prosecuzione del precedente album omonimo, anche se musicalmente più variegato e al contempo più ruvido. Il filo conduttore continuano ad essere quei fraseggi di chitarra e synth battlesiani, come nella iniziale Artiminime o ancor più in Mauritania Twist, uno scherzo in orbita Animal Collective quasi. Il quantitativo di talento presente è così elevato che anche in un brano quasi di passaggio, come la strumentale Dun Dun, è possibile individuare e riconoscere lungo gli oltre quattro minuti di durata l’apporto di ogni singolo membro, come se ciascuno passasse a mettere la propria firma. I momenti frenetici e sincopati disseminati lungo questo Nevermind The Tempo trovano infine quiete e pace nella conclusiva Broken Mic, un perfetto esemplare di “exit song” e degna conclusione di un disco che conferma quanto già sapevamo, riguardo agli I Hate My Village sicuramente, una band con una precisa e definita identità, e con le idee ben chiare su cosa vuol trasmettere e su come farlo. E a chi ascolta il compito di lasciar perdere sovrastrutture, ragionamenti troppo sofisticati o complessi. Ma ascoltare, dall’inizio alla fine. E se incontra i propri gusti magari riascoltare. In caso contrario ce n’è per tutti. 

As simple as that.