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IDLES

TANGK

Partisan Records
16 Febbraio 2024
di Andrea Riscossa

No god / No king / I said love is the thing
No crown / No ring / I said love is the thing

TANGK è il rumore delle corde della chitarra.
È, a detta degli IDLES, un sigillo onomatopeico di una vita dedicata all’amore. Il bacio delle corde di Bowen sulle liriche di Talbot, ma anche una nota a piè di pagina sulla copertina, inusuale ma doverosa: questo album non urla (sempre), trasuda vita e amore e ha financo un messaggio salvifico.

Pare che gli IDLES abbiano deciso di virare dal politico all’evangelico o, più semplicemente, sperimentano qui il potere del bello e dell’amore, sigillato in riff di prima qualità, un nuovo produttore e una idea tutta matta di stupire chi si aspetta un altro album fatto di muscoli, slogan e barbe sudate.

Del resto i vecchi dischi erano dritti come un pugno in faccia (Ultra Mono lo esplicitava direttamente in copertina) e i ragazzi hanno impiegato quattro album per iniziare a elaborare una risposta alla rabbia che ha segnato i primissimi lavori. Se inizialmente i temi trattati erano l’omofobia, il ruolo (tossico) del maschio (tossico), la Brexit, lentamente si è arrivati a un quarto album, Crawler, che portava in nuce nuovi temi. Azzardo: quel disco ha permesso alla band di scalare di marcia e magicamente il panorama si è riempito di dettagli.

TANGK rallenta ancora di più. Sia chiaro, ci sono sempre momenti di crescendo, buoni per timidi e privati moti di violenza interna, ma l’architettura dei brani, e quindi dell’intero disco, è in qualche modo fiorita. Dal brodo primordiale dei primi lavori, dai petti sudati e dalle barbe incolte, si è passati a un ambiente più civile, ricercato, che ha una grammatica non più solo basata sul grugnito e sul testo usato come un guantone da boxe. Siamo a una degustazione di vini in cui si sputa per terra, giusto per mantenere un minimo di legame col passato, ma le bottiglie stappate sono di qualità superiore.
Fine delle metafore.

È possibile che uno dei colpevoli del cambiamento in atto in TANGK sia uno dei suoi produttori, quello che, a leggere bene nei crediti, fa saltare sulla sedia: Nigel Godrich. Forsenontuttisannoche questo nome si lega a quasi tutta la discografia dei Radiohead, dei progetti solisti di Yorke, del primo album de The Smile, qualche lavoro sparso con Beck, R.E.M., Arcade Fire (anche se la vera perla è il suo esordio: 1990, assistente tecnico del suono per Gianna Nannini ai tempi di Scandalo).

È noto che il produttore abbia seguito gli IDLES negli ultimi due anni, tanto che la prima traccia è figlia dell’incontro tra Bowen e Godrich nel 2022. Il titolo della canzone, IDEA01, non è cambiato da allora. È testimonianza di un’eleganza inattesa, inaspettata, che alza moltissimo l’aspettativa per i brani che seguono. Il testo è un elenco dei traumi infantili di Talbot, inanellati in una Gymnopédies elettrificata, cupa e psicanalitica. Siamo nel sogno, nell’inconscio del leader degli IDLES, accompagnati da un pianoforte e un cantato quasi sussurrato.
Segue Gift Horse, che toglie ansia a chi pensa che la band sotto Godrich sia diventata una versione steroidea de The Smile. Nella seconda traccia infatti siamo in pieno paradigma IDLES. Una poesia futurista, che nasce da zoccoli cromati e termina con una incoronazione della propria figlia a centro e baricentro del proprio mondo interiore.
POP POP POP sembra nata attorno a un tavolo da tè con gli Sleaford Mods. Suona come un pezzo del duo di Nottingham, è un loop ipnotico, figlio anche dell’amore di Talbot per l’hip hop più retrò. Testo geniale, una catena di parole che si srotola a partire dal primo anello, chiave di tutto: la freudenfreude, la gioia per la gioia altrui.
Roy è un elegantissimo pezzo sull’amor cortese, anzi, sulle corti d’amore, divertente passatempo del passato in cui si giocava di ruolo, processando, letteralmente, il nobile sentimento. Qui gli IDLES sposano la visione dantesca: l’amore eleva, l’amore rende immortali.
Gospel è di nuovo un passo laterale, con piano e violino, figlio di un disco che sta cambiando colore davanti a noi. Amore che vieni, amore che vai: dopo aver celebrato la potenza dell’amore, Talbot ci presenta subito il lato oscuro, la fine di un rapporto, magistralmente accompagnato da un piano struggente e da un lento che rimane lento, perché è il canto di una fine. Senza urla, senza esplosioni.
Ma i papà hanno vite anche fuori della sfera genitoriale e lontano da concetti stilnovisti. Ecco allora una Dancer, collaborazione con gli LCD Soundsystem, uno dei singoli che hanno accompagnato l’uscita del disco, e in cui il nostro paroliere torna adulto, torna sporco, torna sboccato. È un ballo sudato, fatto di corpi, c’è molto poco amore e sentimento, e molta dinamica dei fluidi.
Grace torna a mettere al centro l’amore (ripetuto in questo album 29 volte in quaranta minuti), mettendo politica e religione ai gradini più bassi del podio. Amore che viene citato quasi in ogni strofa della seguente Hall and Oates: siamo all’apoteosi, al trionfo in salsa hardcore, in un pezzo che vede gli IDLES tornare a sonorità più muscolari e decisamente meno raffinate.
Ennesima virata con Jungle, che suona come un inno sulla perdita di identità sull’autodistruzione che Talbot ha assaggiato nel suo vissuto. Niente paura, abbiamo anche un lieto fine.
C’è anche una Gratitude a ricordarci questo percorso di perdita di sé e di salvezza, condito da visioni del proprio funerale. Talbot forse vede una trama, un messaggio, o quantomeno un racconto degno di essere ascoltato. È sì una storia di speranza, ma è anche il racconto di un uomo che sta facendo pace con un passato piuttosto cupo.
Non chiamiamola redenzione o peggio ancora resilienza.
Del resto “c’è una crepa in ogni cosa e da lì entra la luce”.
Lo sosteneva un certo Leonard Cohen.
TANGK ci congeda con Monolith, un testamento finale accompagnato da uno straziante sassofono. 

Questo album è fatto di capitoli sparsi che portano all’incoronazione della figlia come nuovo centro di gravità. C’è molta meno politica e molto più vissuto. C’è il concetto di amore già presente nel disco precedente, che qui però assume i ruoli di fine, mezzo, tramite e motore primo.
È una confessione, un flusso di coscienza un po’ schizofrenico e recitato da attori diversi che indossano la stessa maschera.
Troverete meno esplosioni di rabbia, e molte più sfumature. Gli IDLES ci raccontano che la persuasione è più efficace della forza, il che sembrerebbe un primo passo fuori dalla loro adolescenza musicale. Muscoli e barbe incolte iniziano a lasciare il posto per una nuova ricerca, musicale e di contenuti, che prende vita nelle nostre orecchie che suona quasi inaspettata. Quello con Godrich è un incontro fortunato, lo testimoniano undici tracce che diventano undici scorci di quello che gli IDLES sanno creare e di quello che potranno essere.
Dalla tossicodipendenza alla paternità, dalla perdita di sé alla freudenfreude, dalla rabbia all’amore panico.
Tutto ciò che sta in mezzo è musica.