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Keaton Henson

House Party

PIAS
9 Giugno 2023
di Alberto Adustini

Questa non è una recensione del nuovo disco di Keaton Henson perchè House Party non è il nuovo di Keaton Henson. 

Credo si tratti di un curioso quanto fortuito caso di omonimia, altra spiegazione fatico a trovarla.

Mi pare doveroso e corretto premettere che la prima volta che ho ascoltato il lavoro in questione non avevo ancora aperto la classica cartella stampa provvista di comunicato, cover, foto e quant’altro. Lo avessi fatto, col sennò di poi, la mazzata che ho ricevuto tra capo e collo dopo pochi secondi di I’m Not There, il brano di apertura, sarei forse stato in grado di schivarla, o quantomeno di attutirne la violenza.

E invece no, sbam, un pop ballabile in quattro quarti, coretti, batteria incalzante, l’assolo di chitarra, qualcosa che mi ricorda vagamente James Blunt (e questo andrebbe letto come un complimento) e una mezza dozzina di diversi cantanti pop radiofonici dei quali è piena la terra.

“Volevo fare un disco pop ottimista sulla depressione e sull’essere un artista” ha detto il barbuto cantautore nato a Londra, e c’è da dire che sentendo Envy o Parking Lot l’obiettivo è stato centrato in pieno.

Del Keaton Henson capace di incidere col suo stile intimo e perennemente triste, quando non proprio depresso, una serie di lavori di una bellezza disarmante, probabilmente culminati con Kindly Now, dove la sua forma trova perfetto compimento, rimane qualche retaggio, Two Bad Teeth in primis, o Late To You, ma è un inganno di un attimo; brani come Stay o Hooray ci riportano al clima disteso e pregno di positive vibes che permeano questo House Party

Devo essere sincero fino in fondo, non me l’aspettavo per niente, e per quanto possa accettare la scelta artistica e personale di Keaton Henson, anzi la rispetto nella maniera più assoluta, non capisco e non trovo un senso a tutto ciò.

House Party finisce alla lunga per assomigliare a centinaia di dischi già sentiti che finiscono per perdersi nell’anonimato, fatto però da un artista che assomigliava solo a se stesso, la cui cifra stilistica era ben definitiva, riconoscibile, inconfondibile, peculiare.

Se si tratti di un unicum o piuttosto di una nuova strada solo il tempo ce lo potrà dire, nel frattempo tolgo il disturbo e torno ad ascoltare You Don’t Know How Lucky You Are, se permettete.