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PJ Harvey

I Inside the Old Year Dying

Partisan Records
7 Luglio 2023
di Alma Marlia

Orlam: un poema in musica

Tecnica. Appassionata. In ascolto. Tesa a percepire le sfumature degli altri ma anche di se stessa per trasformali in brani e ridarli nuovamente al mondo. Tutto questo è PJ Harvey, cantante, musicista e compositrice britannica indie rock. L’inquieta Polly Jean partita con esordi di scandali e atteggiamenti provocatori con testi a luci rosse, con il tempo è diventata un’icona di ricerche sperimentali e collaborazioni in altri generi come folk e blues. L’artista riesce a colpire il suo pubblico con il decimo album in studio I Inside the Old Year Dying per Partisan Records. 

Se attraverso progetti come Let England Shake e The Hope Six Demolition Project PJ ha documentato momenti difficili nel mondo, in I Inside the Old Year Dying si concentra su un mondo affascinante tutto suo. L’album trae spunto da Orlam, il poema epico scritto dalla stessa artista che narra di Ira-Abel, una bambina di nove anni del Dorset i cui compagni sono lo spettrale soldato Wyman-Elvis e Orlam, occhio di un agnellino allevato dalla bambina stessa ed è l’oracolo del villaggio. Ad un primo ascolto, I Inside the Old Year Dying appare complesso, eppure è possibile trovarvi una leggerezza particolarmente gradita e che la allontana dai toni troppo cupi dei progetti precedenti. Come Orlam, l’album si sviluppa utilizzando il vecchio dialetto del Dorset che l’artista ha conosciuto attraverso le canzoni tradizionali ascoltate nella giovinezza, mentre i modi di dire locali come Seem An I, cioè “sembra” ne aumentano la stranezza ammaliante. Nel brano, il dialetto si mescola ad un andamento jazzato e chitarre morbide, in un’atmosfera quasi vintage. Anche quando il linguaggio è cupo, lo stato d’animo è leggero quando Harvey canta dei “bambini gessosi di sempre” sopra le campane della chiesa, le chitarre fragili e i tamburi scoppiettanti della title track, mentre il sound diventa più psichedelico in A Child’s Question, July. Il cambiamento netto e irrevocabile emerge in A Noiseless Noise subito dopo la tagliente distorsione a cui segue il consiglio dato a Ira-Abel di lasciare il suo vagabondare. Un brano aspro, dove la chitarra è libera di distorcersi liberamente e librarsi nell’atmosfera per aprire squarci nell’ascoltatore. Cosa ci sia dietro ad ogni squarcio, poi, sta a noi scoprirlo. Nel suo progetto, Harvey si muove magistralmente nel mitico che trova la sua massima espressione in All Souls, un cigolio in punta di piedi che potremmo definire tra i suoi lavori più inquietanti, ma che coinvolge l’ascoltatore ai massimi livelli di percezione. In tutto questo, la voce di Harvey si conferma strumento stesso dell’artista sempre più modulata ed espressiva, capace di immergersi e rendere vivo un mondo fatto di ombre e luci, dove le contrapposizioni e i riti di passaggio che segnano la vita dell’essere umano diventano reali nonostante l’atmosfera mitica. Eppure nessun successo si raggiunge senza la giusta squadra e trasformare un poema in musica è stato possibile grazie alla collaborazione di Flood, John Parish e Adam Cecil Bartlett con cui l’artista ha sperimentato varie combinazioni sonore anche con tastiere e sintetizzatori analogici, meccanismi sintetici che ritroviamo nell’esoterica The Nether-Edge carica di sonorità ipnotiche.

Con questo decimo progetto registrato in studio, PJ Harvey si conferma una cantautrice eclettica e piena di intense emozioni pronta a trasformarle in sensazioni sonore per il suo pubblico. Lontano da rossetti scarlatti e look da femme fatale del rock degli esordi, PJ Harvey rimane costante nel costruire progetti forti, intensi e carichi di una certa densità musicale e concettuale che non possono che darle un posto privilegiato nel panorama musicale e negli spazi virtuali e non di chi nella musica ricerca quel qualcosa in più, una terra di mezzo tra il piacere e il pensiero. Un luogo spesso cupo e spettrale, ma una cupezza con cui l’artista prende confidenza, non per renderla più leggera, bensì per coesisterci senza paura.