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Roger Waters

The Dark Side of the Moon Redux

Cooking Vinyl
6 Ottobre 2023
di Alberto Adustini

Esiste una regola non scritta nel mondo del coding e della programmazione che recita più o meno “Never change a running system”, o in alcune varianti, con accezioni e sfumature diverse “If it ain’t broke, don’t fix it”.

Ora.

Io non sono un programmatore, la mia esperienza sui PC si riduce al minimo indispensabile utile alla sopravvivenza. 

In tutta onestà non ricordo nemmeno dove mi sia imbattuto in queste citazioni, se esistano realmente, se non siano forse un’elaborazione inconscia del mio cervello al fine di darmi ragione e supportare le mie convinzioni.

Tuttavia da qualche parte dovevo partire per cercare di parlare di questa versione redux che Roger Waters ha fatto di The Dark Side Of The Moon.

E sebbene utilizzare metafore afferenti il campo semantico della fredda, algida informatica possa non sembrare esattamente confacente a quello musicale, beh per il disco in questione, considerata come avvenne sia la genesi che la realizzazione, ed il peso che ebbe una figura come quella di Alan Parson, ingegnere e tecnico del suono (tra le altre cose) che tendeva ad avvalersi nei suoi studi di registrazione delle tecnologie più evolute al tempo esistenti, forse non pare troppo azzardato ecco.

E quindi?

E quindi niente. All’inizio mentre ascoltavo ero perplesso, poi leggermente contrariato, per qualche momento sono stato anche deluso a dire il vero. Non che avessi chissà quali attese a dire il vero ma non ero preparato a sentire un disco come The Dark Side Of The Moon diventare totalmente altro.

Parliamo di un album che, parere del sottoscritto, non è nemmeno sul podio dei migliori dischi dei Pink Floyd (il che non significa che non sia clamorosamente bello sia chiaro), sebbene la sequenza Brain Damage / Eclipse si issi sul podio delle migliori creazioni del quartetto inglese; ma canzone dopo canzone, ascolto dopo ascolto, più passava il tempo e meno trovavo una spiegazione, una motivazione valida per giustificare un’operazione di questo tipo. 

Ho letto in un’intervista che Waters diceva che The Dark Side era stato originariamente pensato quasi fosse il lamento di un anziano, ma che al tempo in cui lo scrissero, i Pink Floyd erano giovani, per cui gli era sembrato in qualche modo necessario rivedere il tutto dalla tua posizione di fresco ottantenne.

E quindi eccole qui le dieci tracce ridotte, spogliate, riarrangiate, ripensate, ricantate, rivoltate, private della loro originale natura, della loro epicità, della produzione maniacale di Alan Parson, degli arrangiamenti immortali, della loro unicità, della loro profondità.

Di profondo c’è invero solamente la sua voce, grave e cavernosa, quel timbro che pare non avere fondo, ad introdurre (quasi) ogni brano, con riflessioni, racconti, aneddoti, punti di vista e pareri, e ammetto candidamente che questa teatralità, questa impostazione, non ci mette troppo a diventare indigesta, eccessiva, affettata, ridondante ecco. 

Soprattutto perchè poi le canzoni non partono mai, il mood generale si attiene al tuo timbro, e l’ascolto si fa lento e faticoso.

In sostanza, senza voler mancare di rispetto e rischiare il reato di vilipendio (che tanto poi Waters non lo verrà mai a sapere ed io continuerò a volergli un gran bene), mi sento sommessamente di dire che siamo in presenza di un disco che si colloca in una posizione piuttosto lontana dal concetto di bello.