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Squid

Cowards

Warp
7 Febbraio 2025
di Andrea Riscossa

Molly Ringwald arriva al ballo di fine anno vestita di rosa.
Per un intero anno scolastico ha dovuto subire pressioni e ostilità varie da parte dei compagni di un liceo che lei frequenta grazie a una borsa di studio, ma che è destinato a ceti sociali ben lontano da quello cui lei appartiene. Lei però è brillante, intelligente, ostinata e alla fine qualcuno si innamora di lei.
Arriva al ballo dopo essere stata letteralmente scartata dal bello di turno, che prima vacilla, poi ritratta e infine tradisce. Molly arriva con un outfit autoprodotto da capogiro, che suggella il climax perfetto: crollano anche i muri delle differenze di ceto e di reddito, tutto è possibile. 

Gli Squid sono stati la mia Molly. Li avevo notati, anni fa, sul palco di un ToDays, a fine estate. Frontman comodamente seduto dietro la batteria, loro tutti in riga sul palco, in una sorta di democratica e teatrale formazione tipo. La loro Houseplants finisce in heavy rotation nelle mie playlist di allora. Poi li ho persi, anche perché escono due dischi in tre anni, vari EP, alcuni tour e nel mentre altri gruppi emergenti producono capolavori dalle stesse lande da cui provengono i nostri.
E ora invece sono qua, davanti a me e dentro le casse dello stereo, belli in rosa, e io che mi sento maledettamente in debito. Sto ascoltando una evoluzione inaspettata di stile, forma e contenuto, un salto in avanti notevole, ma anche laterale rispetto a gruppi cui erano stati accostati in passato, per similitudine anagrafica e di genere.
Sento qualcosa degli Idles, ma con un clavicembalo in più. Qualcosa dei Black Country, New Road, ma più ordinati. Lo so, pare strano.

Vi presento quindi Cowards, terzo album in studio degli Squid, prodotto da Marta Salogni e Grace Banks, ovvero coloro che stanno dietro a This Could Be Texas degli English Teacher.
L’album ci accoglie con Crispy Skin, che inizia con un simil assolo di clavicembalo e termina con un crescendo di fiati. In mezzo eleganza ed elegia per cannibali. Perché il pezzo, a detta dello stesso Ollie Judge, frontman della band, è ispirato a Tender Is The Flesh di Agustina Bazterrica, romanzo distopico e vagamente splatter in cui la carne del titolo non è di fassona.
Segue Building 650, che con le sue chitarre prog-orientali ricorda quasi un pezzo degli ultimi The Smile, salvo per il testo, che si interroga sul nostro rapporto con la malvagità e con la colpevolezza altrui. C’è una sorta di unione tra indulgenza e lassismo, una dedica all’anestesia collettiva nei confronti della violenza: “There’s murder sometimes / But he’s a real nice guy”. E va bene così.
Blood on the Boulders ci porta invece tra i luoghi dei delitti di Manson, con lo scopo di raccontarci la versione feticista del turismo dell’orrore.
Le due Fieldworks sono dei crescendo psichedelici ed eterei sul tema del rimpianto. 
Finora tutto bene, direbbe qualcuno. Il disco ha un tema dichiarato, del resto lo stesso Judge lo ha spiegato in una intervista, Cowards è “a book of dark fairytales”, una antologia di piccole storie che raccontano personaggi o situazioni non esattamente esenti da ombre, colpe, dannazioni varie.
Nebraska di Springsteen è tra le fonti citate come ispirazione dalla band. L’impianto è quello, ma in Cowards non si parla di strade polverose e di antieroi, qui il protagonista è il Male, globalizzato, generale, declinato in nove tracce diverse.
Cro-Magnon Man si lancia in un groove più vicino agli Squid d’antan, anche se il testo è un criptico messaggio su ciò che resta di un uomo, e in ciò che resta della canzone si ripete a lungo un lugubre “I’ll frame my life in the bones that I have left”.
Cowards, title track, vanta un elegante loop di fiati e percussioni che portano aria a un testo claustrofobico che parla di isolamento e di relazione con l’esterno, sia fisico, sia mentale.
L’oscurità incombe sempre, ci segue lungo le canzoni, ci assale con esplosioni di strumenti o con una riga di testo piuttosto riuscita. Non c’è luce, o almeno, ce n’è pochissima, perché il taglio della narrazione è piuttosto freddo, a tratti da titolo di giornale. La parte musicale riesce a salvare l’ascoltatore, come in Showtime!, forse il pezzo più riuscito dell’album, soprattutto nella parte finale, dove corre, si apre, fa portare le mani alle cuffie per cogliere tutte le sfumature presenti e i suoni nascosti in terza fila.
Il disco si chiude con una delirante Well Met (Fingers Through the Fence), otto minuti abbondanti di un qualcosa realmente post-post-post-punk, che prende il concetto di genere e lo devasta, facendo in assoluta leggerezza ciò che vuole degli strumenti (qui, credo, siano 45), della melodia, dei tempi, della razionalità e del “facciamo un pezzo buono per le radio – pensiero”. È un flusso in cui perdersi e che, una volta terminato, farà sentire la sua mancanza. Era un bel posto in cui stare, e non è una cosa così frequente.
Sia messo a verbale che, quando riparte la prima canzone (noioso e frequente scherzo del programma usato per i preascolti) Crispy Skin risulta perfettamente coerente anche dopo l’ultima traccia. Un loop perfetto, un giro in punta di piedi sui mali del mondo.
Lynchani, anche nella struttura.

Concludo.
Cowards è il disco della maturità degli Squid. Mostra lati ancora nascosti della band e rimane imprevedibile, ma lo fa con gusto e mestiere. È un lavoro coerente nel suo movimento di continua esplorazione e contiene visioni così laterali da sembrare un gioco, uno scherzo. E invece Cowards ci mostra uno spunto nuovo, crudo e algido, per riflettere sul mondo e sui suoi mali. La sensazione, a fine album, è la stessa dopo aver chiacchierato con qualcuno di sconosciuto e intelligente: una inaspettata e rinnovata fiducia verso il prossimo, puro piacere della novità e della sua scoperta e infine qualche grado di apertura mentale in più nella personale visione del mondo.
Solido, maturo e profondo, sia musicalmente, sia nella sua parte testuale, davvero un ottimo lavoro.