Gli anni del revival del post-punk finiranno mai? Sinceramente, spero proprio di no. È vero che la scena è ormai affollata e satura, ma questo non fa che alzare la posta in gioco: per emergere e distinguersi, è necessario impegnarsi ancora di più, creando dischi che non solo colpiscano l’ascoltatore, ma che lo coinvolgano emotivamente, lo turbino e lo lascino con un senso di scomodità che si attacca addosso, proprio come questo album. Un lavoro che non si dimentica facilmente, che ti entra sotto pelle e resta lì, a fare il suo effetto.
Sto parlando di Blindness, il terzo album de The Murder Capital, registrato a Los Angeles con il produttore John Congleton, che lavora con gente del calibro di St Vincent e Angel Olsen.
La giovanissima band post-punk racconta di quanto sia stato complesso il processo creativo che li ha portati fin lì, infatti Blindness è nato durante alcuni momenti cruciali nella loro carriera, un periodo segnato tanto da infinite opportunità quanto da una profonda angoscia. Avevano fatto il loro grande debutto nel 2019 con l’acclamato When I Have Fears che li ha fatti notare al pubblico internazionale, ma il vero successo è arrivato con il loro secondo album, Gigi’s Recovery, uscito nel gennaio del 2023. Il disco ha avuto l’effetto che ci si aspettava: ha aiutato la band a farsi conoscere dal grande pubblico e a suonare in tutto il mondo (hanno aperto anche per Nick Cave, non proprio noccioline insomma),consolidando la band come uno dei live act più intensi della scena. Ma quando il cantante James McGovern riascolta Gigi’s Recovery, non può fare a meno di notare una certa claustrofobia nell’album: “Sento che a volte è un disco sovrascritto. Abbiamo avuto troppo tempo per trovare problemi in brani che non ne avevano. Non stavamo remando nella stessa direzione, è stato un incontro di idee creative troppo distanti. Ma Blindness segna la prima volta che siamo riusciti a far funzionare tutto insieme. Siamo arrivati a un punto in cui tutti spariamo a pieni cilindri, puntando verso lo stesso obiettivo”.
Quindi siamo ad un punto di svolta nella breve seppur sofferta storia della band, e si sente.
Le undici tracce dell’album vengono introdotte dal singolo Words Lost Meaning, un brano che cattura subito l’attenzione con un giro di basso crudo e perentorio, che definisce il tono deciso e senza compromessi del pezzo. La sezione ritmica, asciutta e penetrante, si fonde perfettamente con il testo, che si fa riflessivo e amaro, esplorando un tema tanto universale quanto delicato: l’abuso della parola “ti amo” all’interno di una relazione. La canzone scava nel modo in cui l’uso eccessivo di questa espressione, se svuotata di sincerità, può perdere il suo significato originario e ridursi a una sorta di convenzione vuota. In questo contesto, il “ti amo” diventa una parola che perde forza, si annacqua, fino a diventare un automatismo privo di vera emozione. Un brano che, in modo tanto diretto quanto sottile, mette in luce come l’abitudine e la superficialità possano intaccare la genuinità dei sentimenti, trasformando un’espressione di affetto profondo in un mero luogo comune privo di valore.
Al primo ascolto, tuttavia, il brano che mi ha colpito maggiormente è stato senza dubbio Death of a Giant. McGovern stesso racconta di averlo scritto in seguito alla marcia funebre di Shane McGowan, il leggendario leader de The Pogues, storica band folk punk anglo-irlandese attiva soprattutto negli anni ’80 e ’90. Un vero e proprio tributo sentito e commosso, che si fa carico della tristezza e dell’emozione di un’intera generazione, un commiato a un gigante della musica. La melodia che accompagna il brano è pervasa da un’atmosfera tenebrosa e cupa, riflettendo la pesantezza di quel momento, mentre tutta Dublino si raccoglie per salutare la dipartita di un’icona che ha segnato la cultura musicale del suo tempo. Un altro brano che mi ha particolarmente colpito è Love of Country, che trasuda una miscela di rabbia e patriottismo. La chitarra, lenta e dolorosa, accompagna un testo riflessivo che mette in luce il pericolo insito nel patriottismo quando sfocia, inevitabilmente, in xenofobia. Un pezzo che invita a riflettere sul confine sottile tra l’amore per la propria terra e il rischio di cadere in forme di nazionalismo estremista, alimentando l’odio verso l’altro.
The Murder Capital vengono spesso etichettati come i nuovi Fontaines D.C., ma non hanno davvero nulla da invidiare ai loro colleghi irlandesi. Le similitudini tra i due gruppi sono evidenti, eppure è anche chiaro che la scena post-punk contemporanea è particolarmente affollata. Nonostante questo, The Murder Capital riescono a emergere, dimostrando una padronanza totale del loro suono e un’incredibile capacità di creare un album abrasivo, intenso e mai monotono. I loro brani sono arricchiti da testi crudi e spettrali, che catturano un senso di inquietudine emotiva, trasmettendo un’energia palpabile che non può lasciare indifferenti. Per apprezzare davvero la profondità di questo disco, però, l’esperienza migliore rimane senza dubbio quella dal vivo. The Murder Capital, infatti, brillano particolarmente sul palco, offrendo performance vibranti e potenti che amplificano l’impatto emotivo della loro musica. L’unica data italiana sarà il 5 maggio all’Alcatraz di Milano: un’occasione da non perdere per chi vuole vivere questa band nella sua dimensione più pura e coinvolgente.