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Thurston Moore

Flow Critical Lucidity

Daydream Library
20 Settembre 2024
di Gianluca Maggi

 

“Il cinema, come ogni altra arte, è come un grande albero con molti rami, alcuni vecchi e grandi, altri piccoli e giovani […]. Il corpo principale può essere sostenuto dalle radici, ma sono i piccoli rami, le foglie e le gemme fresche che portano il sole e la vita all’albero. Un albero non può sopravvivere senza foglie”

La citazione in epigrafe appartiene a Jonas Mekas, pioniere di una nuova forma di cinema sviluppatasi nel corso degli anni ’60 a New York, città adottiva di Thurston Moore, e credo che in qualche modo spieghi la continua ricerca sonora e l’esasperato sperimentalismo che scorrono nelle vene dell’ex leader dei Sonic Youth. L’autore di Flow Critical Lucidity  infatti ha avuto (e ha tuttora) una carriera cangiante, in costante aggiornamento ed evoluzione, come conferma quest’ultima fatica discografica che si pone in continuità rispetto al passato e al contempo introduce novità sul piano sonoro, compositivo e filosofico. In sintesi, Moore riprende in quest’album il discorso iniziato più di quarant’anni fa con Lee Ranaldo, Kim Gordon e Steve Shelley cambiandone il contesto; abbandonando i feedback spaccatimpani e la scena punk (ma non la sua attitudine anticonformista e anticommerciale) per entrare in una dimensione artistica altra, matura e semiacustica. 

Per comporre le sette tracce più una di questo Flow Critical Lucidity, Moore si è recato in Svizzera (per la precisione sul lago di Ginevra, che continua ad ispirare musicisti dopo gli exploit dei Deep Purple e dei Queen) ed il risultato è un album contemplativo il cui tema principale è la natura, cantata e suonata in un modo sognante che riflette la spiritualità mistica di Patti Smith, per amore platonico della quale Moore si trasferì nella grande mela. Ed in effetti, il meraviglioso paesaggio lacustre e allo stesso tempo montano e floreale di quella zona non può che evocare riflessioni sulla natura. 

Il disco si apre con New in Town, che con le percussioni tribali e il “tono metallico standard” della voce di Moore delinea perfettamente la matrice sonora di Flow Critical Lucidity e ne tratteggia il filo conduttore: il recupero di uno stile musicale primitivo che passa attraverso la ripetitività e le strutture aperte dei brani, come ha confessato lo stesso autore. Talvolta, come in questo caso, la sua tendenza ad improvvisazione porta l’ex cantante dei Sonic Youth a trasfigurare il concetto stesso di canzone, cosa che sembra accadere anche in Sans Limites. Il pezzo, che è anche uno dei singoli, inizia infatti con il melodioso suono di un carillon seguito da tre minuti circa di jam proemiale; un sofisticato intreccio di chitarra, basso e pianoforte che ricorda Empty Page (i nostalgici, come me, apprezzeranno) e che, nel momento in cui entra la batteria, si trasforma in una bellissima ballata nello stile dei Sonic Youth, ma con il distorsore spento. Il tutto viene impreziosito dalla voce di Laetitia Sadier, alla quale Moore lascia il ritornello, se così lo si può chiamare, e da un videoclip che, con gli scricchiolii e le imperfezioni della pellicola, ricorda uno di quei filmini amatoriali girati durante una giornata in famiglia e che per questo comunica un senso di innocenza, fanciullezza e nostalgia. Una canzone da ascoltare e riascoltare. 

A questo punto, Moore intraprende il suo viaggio (e noi con lui) verso l’oscurità. Il disco si fa sempre più claustrofobico, dark e ipnotico. Shadow ricorda troppo Venus in Furs dei Velvet Underground perché questa somiglianza sia frutto del caso e sembra la colonna sonora di un film thriller con le sue note noir cariche di suspense e l’assolo noise conclusivo. We Get High si muove nella stessa direzione grazie ai riverberati schizzi chitarristici, al salmodiare monocorde di Moore e all’atmosfera rarefatta di laneganiana memoria, mentre Hypnogram (a partire proprio dal titolo) rappresenta il vero manifesto di questo disco. Si tratta di una ballata funerea tipicamente shoegaze, la cui scrittura forse risente della presenza nella band di Deb Googe, bassista dei My Bloody Valentine, anche se contraddistinta da un tocco à la David Gilmour in cui si trova il perfetto equilibrio tra passato e presente. Ci sono infatti l’accordatura aperta, vero marchio di fabbrica di Moore, il giro di accordi e l’assolo sghembo che ricordano i tempi dei Sonic Youth, ma è una canzone che rispecchia la sua attuale posizione nel mondo: è una canzone radicale e per nulla addomesticata, ma è adulta. Sul finale poi, Flow Critical Lucidity rallenta. Thurston Moore pizzica delicatamente le corde della sua jazzmaster generando note limpide e psichedeliche che riverberano per gli otto minuti abbondanti della conclusiva The Diver, che ricorda una versione stanca di The Diamond Sea

Nel complesso, credo che questo Flow Critical Lucidity sia un disco concettuale, un po’ come l’arte contemporanea. Sembra che Thurston Moore abbia voluto ripercorrere le tappe della sua educazione artistica newyorkese rifacendosi agli artisti, in parte già citati, che più lo hanno ispirato. Sembra inoltre che l’ex leader dei Sonic Youth non abbia voluto scrivere un album convenzionale, fatto di semplici pezzi che si susseguono, ma costruire un ambiente emozionale dal quale l’ascoltatore esce pervaso delle sensazioni che vi sono contenute. In quest’ottica va dunque vista la scelta di escludere dalla scaletta e pubblicare come bonus track Isadora, che forse è il brano migliore di tutti, ma va fuori tema. Chissà se da qui Thurston Moore ripartirà per il prossimo capitolo della sua carriera che sarà sicuramente spiazzante e diverso perché “un albero non può sopravvivere senza foglie”.