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Tag: album

Boston Manor “Glue” (Pure Noise Records, 2020)

I Boston Manor, quintetto di Blackpool formatosi nel 2013 ha già al suo attivo un EP Saudade (2015) e due album: Be Nothing (2016) e Welcome to the Neighbourhood (2018) sotto l’etichetta Pure Noise Records.

Sono una delle band britanniche che più di altre, con grande impulso creativo, affrontano temi forti, proponendosi al pubblico e ai fan come gruppo con “qualcosa da dire” come nell’ultimo album Glue: la colla ti invischia come una pervasiva angoscia, ma potrebbe essere invece la sostanza che ti tiene insieme, che ti ricompone.

Henry Cox, talentuoso e carismatico frontman, in tutta la sua discografia affronta un percorso di recovery da ciò che apparentemente sembrava averlo toccato solo marginalmente durante la sua infanzia trascorsa nell’attraente città di mare del Lancashire: all’età di dieci anni aveva assistito alla morte per suicidio di un uomo. Proprio nella sua città Cox ha sviluppato il suo percorso creativo cogliendone il background meno luccicante e più problematico.

In questo disco compie un ulteriore passo avanti e mette la sua esperienza a disposizione dei suoi fan e del suo pubblico. I temi che affronta sono importanti soprattutto nel nostro tempo: la mascolinità tossica, la salute mentale, il suicidio, le difficoltà di alcuni classi sociali dopo la Brexit.

Nei progetti precedenti queste tematiche erano già presenti, ma espresse attraverso metafore: in Glue diventa tutto più esplicito, diviene bisogno di condivisione, di non tenersi tutto dentro e mostrarsi con il cuore in mano.

Le sonorità dell’album hanno perso l’effervescenza del pop-punk e si sono orientate più verso il punk hardcore, generando uno stile più aggressivo e variabile con riff energici e suoni elettronici che sembrano arrivare dal futuro.    

Alcuni brani hanno un contenuto che si può definire politico, di denuncia, ed il rinnovato stile che Cox ci propone si fonde perfettamente con esso 

On A High Ledge, che inizia con Father, I think I’m different / I don’t like playing with the other boys / Father, I’m different / I like the way the flowers smell”, parla della mascolinità tossica insita nella cultura britannica e di come questa possa avere una responsabilità nell’importante numero di suicidi di giovani maschi. Ha un incipit lento con sonorità elettroniche che sembra prendere per mano e portare l’ascoltatore a riflettere sulla propria sensibilità. 

1’s & 0’s è una critica ad una generazione invecchiata che ha votato per la Brexit senza alcuna considerazione per il futuro dei giovani mentre Everything is Ordinary tratta dell’insensibilità diffusa e dell’ignavia del nostro tempo; entrambi sono brani squisitamente politici e di una straordinaria energia che fanno trattenere il fiato fino alla fine.

Ratking, con alcune reminescenze grunge che rimandano ai Soundgarden o agli Alice in Chains, è una metafora del forte individualismo: nel cercare di salvare solo noi stessi, senza collaborare, finiamo per distruggerci.

Glue è un album maturo con dei messaggi forti in quest’epoca così complessa: quello che auspica Henry Cox è una maggiore empatia, sarà forse una goccia nel mare ma rincuora sentire chi tende una mano ad una generazione in seria difficoltà.

 

Boston Manor

Glue

Pure Noise Records

 

Margherita Lambertini

Ghemon “Scritto Nelle Stelle” (Carosello Records/Artist First, 2020)

Ci sono artisti che è più facile inquadrare, attorno ai quali — volenti o nolenti — si creano determinate aspettative e quindi rischiano di sentirsi ripetere la solita solfa del “eh ma non è più quello di una volta” ad ogni tentativo di cambiare rotta. E poi ci sono quelli che sfuggono ad ogni classificazione tradizionale e dai quali non si sa mai cosa aspettarsi. Gianluca Picariello, in arte Ghemon, è sicuramente uno di loro e con il suo ultimo disco ne ha dato ulteriore conferma.

Uscito tre anni dopo il suo ultimo lavoro e anticipato dai singoli Questioni Di Principio, In Un Certo Qual Modo e Buona Stella, Scritto Nelle Stelle fa sentire tutta questa distanza temporale. È un album più sereno, più consapevole e, se la vita fosse un film, sarebbe il naturale sequel di Mezzanotte, quello in cui il protagonista riconosce l’importanza del passato, se lo lascia alle spalle e approda così alla serenità. 

Champagne, terza canzone del disco, parla proprio di come ormai siano stati regolati i conti con il passato e il ritornello recita “Stappo una boccia di champagne / Per il pericolo scampato / Chissà se non mi fossi fermato, dove sarei a quest’ora”. Anche in Inguaribile e Romantico si prende consapevolezza di ciò che si era e si è, ma c’è una persona importante accanto che capisce, sostiene e incoraggia quando sembra di non farcela.

I toni quindi sono più chiari rispetto al passato, ma non mancano la sincerità e la genuinità che contraddistinguono la sua discografia. Anche i momenti della quotidianità più banali, quelli che meno si prestano a diventare canzoni, vengono fissati in una traccia da 3 o 4 minuti. È questo che si vede ad esempio in Due Settimane, che inizia con “Spero che tu non abbia niente in programma stasera / Perché io appena metto il culo sul divano sverrò”. 

Non di soli eccessi vive la musica, evidentemente…

L’onestà dei testi si inserisce su musiche molto diverse tra loro, che vanno dal cantautorato al rap, dal soul all’hip hop, passando per sonorità quasi anni ’80 come in Io e Te oppure per il bellissimo connubio tra pianoforte e voce in Un’Anima, un pezzo incentrato sulla sindrome dell’impostore, quell’autosabotaggio a cui si tende quando non ci si sente all’altezza di una situazione. 

Sicuramente Scritto Nelle Stelle esce in un periodo non esattamente luminoso per nessuno, nemmeno per il mondo della musica. Però, in questi giorni più che mai, sono proprio la musica e l’arte in senso lato ad avere il privilegio – e forse anche un po’ l’onere – di farci sentire meno soli. 

 

Ghemon

Scritto nelle Stelle

Carosello Records/Artist First, 2020

 

Francesca Di Salvatore

Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs “Viscerals” (Rocket Recordings, 2020)

“Alternare Waxahatchee agli Unsane è da smidollati musicali. Però dà un gusto incredibile”.

Mi è capitato di leggere questo tweet, un paio di giorni fa, e mi ci sono fermato su, primariamente per l’accento sulla a, così raro da trovare, e poi perché parla di me. In pieno. Anche se è forte il rischio di entrare nella annosa questione “ – che musica ascolti? – un po’ di tutto”, che da decenni fa trasalire noi onnivori, è così. Non so se sia da smidollati, può darsi, ma che gusto ci dà tutto ciò? Anzi, è proprio questa l’essenza. 

Ad ogni modo dopo aver visto il mio impianto audio monopolizzato per giorni dalla sopra citata Waxahatchee, ora è arrivato l’ultimo disco dei Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs, Viscerals, uscito da qualche giorno per la Rocket Recordings (etichetta che annovera gruppi tipo Goat, Shit and Shine, tra gli altri, gente non proprio raccomandabile) a reclamarne legittimamente la titolarità. 

E sfruttando (e mi scuso per la scarsa fantasia) il famoso adagio pronunciato da Mario Brega “’sta mano po’ esse fero e po’ esse piuma”, di piuma in Viscerals non se ne trova, nemmeno a scavare in fondo, nemmeno se vi mettete a setacciare con la più grande pazienza possibile, in stile Tom Waits in The Ballad of Buster Scruggs. Vi potrete imbattere in ferro, acciaio, diversi altri tipi di leghe, ma sempre comunque pesi specifici importanti.

Prima però mettiamo un po’ d’ordine: i Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs (d’ora in avanti Pigs*7), sono un quintetto inglese, giunti al quarto disco, non hanno una pagina dedicata su wikipedia (ammetto che a me ha fatto un certo che, considerato che vi si trova cani e porci) e ascoltare un loro album equivale a trovarsi richiusi in una centrifuga, infatti per quanto possiate sforzarvi a mantenere una posizione e ad evitare di sbattere ovunque, ogni vostro tentativo risulterà vano. Vi fidate? Sono un gruppo pazzesco. Su disco certo, ma soprattutto live. E ve lo dice uno che non li ha mai visti. Ma utilizza youtube. Convengo che sia quasi paragonabile a visitare il mondo grazie a Street View, ma diciamo che un’idea uno riesce a farsela.

Questo Viscerals si presenta come uno sturm un drang di meno di quaranta minuti di durata ed otto canzoni, sette se consideriamo l’intermezzo pseudo industrial di Blood and Butter (che il “todays menu” presentato dallo chef sia un rimando alla copertina splatter?), che dall’iniziale e travolgente Reducer alla conclusiva Hell’s Teeth viaggia su ritmi che variano tra l’inarrestabile, l’impetuoso, l’incessante e il vorticoso.

Ci potrete sentire (o quanto meno è così per me) sicuramente i Dead Meadow (per esempio in Rubbernecker), però in una versione nel quale l’accezione lisergico/psichedelica viene soppiantata, in toto, da quella incazzosa/viscerale. E da qui il nome del disco, quanto mai azzeccato. Oppure in New body, vera gemma dell’intero disco, un’orgia sonora di oltre sette minuti, lungo i quali echeggiano rimandi dei Jesus Lizard della trilogia Head/Goat/Liar, con il cantato/sguaiato/urlato di Matt Baty che abbraccia ora David Yow, ora il John Lydon P.I.L. era.

Finale 1: Se vogliamo trovare una pecca a questo Viscerals è probabilmente l’assenza di un’alternativa, la mancanza di altri registri, altri linguaggi, si parte premendo sull’acceleratore, chitarre, basso e batteria a saturare tutto il saturabile, ogni tanto si alza il piede, ma di utilizzare il freno non se ne parla. Dedicato agli amanti del genere.

Finale 2: Il punto di forza di questo Viscerals alla fine è proprio questa fedeltà e questa coerenza nel portare avanti un’idea, un concetto, e ad essere riusciti a crearsi un proprio stile ed un proprio linguaggio immediatamente riconoscibile e a seguirlo in maniera totale e devota. È un esercizio ed una prova di grande consapevolezza e forza, non un limite. E il risultato finale ne è viva dimostrazione.

Per dirla alla Quelo, “la seconda che hai detto”.

 

Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs

Viscerals

Rocket Recordings

 

Alberto Adustini

Stu Larsen “Marigold” (Nettwerk, 2020)

Avete presente quelle giornate che partono male, nelle quali vi infastidisce tutto, dalla sveglia (la mia è It’s a Wonderful Life d(egl)i Sparklehorse, da anni, quindi parto meglio di molti altri… dai, quell’inizio dolce, a mò di carillon, che meraviglia è!), al tragitto a lavoro, a qualche scocciatura di troppo, ma che pian piano che passa il tempo si raddrizza, un piacevole incontro fortuito, una notizia inaspettata, insomma quello che volete, ci rinfranca e arrivi a sera che dici “beh, viste le premesse è andata davvero bene!”.

Tutto sto preambolo per dire cosa? Che il nuovo disco di Stu Larsen mi ha provocato grosso modo le stesse reazioni. 

Doveroso inciso contestualizzante: Stu è nato quarant’anni fa a Dalby, una cittadina dell’entroterra australiano, a circa 200 chilometri dal mare (e da Brisbane), e diverso tempo fa ha preso la decisione di tagliare diversi ponti con la società civile; ad esempio non ha un indirizzo di residenza, vive un po’ ovunque, pubblica(va) la propria musica tramite autoproduzioni ed etichette indipendenti, si sposta senza una meta e senza una modalità prestabilita , dormendo ora da amici ora dove capita. Molto amico di Passenger, col quale ha girato spesso in tour, potremmo ascriverlo, per mero fine catalogativo (madonna che brutta parola…) nel macro insieme cantautori folk.

Ora il suo terzo disco, Marigold, si presenta con We Got Struck by Lightening, brano che potrebbe tranquillamente essere uscito dagli East Coast Studios durante le sessions di registrazione di Sigh No More,  prosegue con Hurricane, che mi ricorda nemmeno troppo vagamente i Dire Straits, e Whisky & Blankets e il suo ritornello che ti pare di aver sentito in altre cento canzoni a chiudere questo tris dal sapore appena appena (ironico) derivativo. Mi pare dicano così quelli bravi.

Quando sembra che oramai l’andazzo sia segnato e ti rassegni ad una giornata negativa, arriva il primo incontro fortuito, la notizia inaspettata, che ha le fattezze di Wired Crossed, che riporta l’ascoltatore in territori più personali, intimi, larseniani, meno esuberanti e (f)estivi. Wide Awake & Dreaming conferma l’inversione di rotta, col falsetto di Stu a cullare assieme al violino e si rallenta ancora, con il piano dolce di Where Have All the Leaves Gone.

Il disco mantiene livelli decisamente alti, senza cedimenti né incertezze, ci si concede qualche digressione in lingua d’oltralpe (Je Te Promets Demain), a rimarcare il suo status di cosmopolita (o apolide, meglio mi sa), mentre i titoli di coda vengono messi da Phone Call from My Lover, delicata ballata sospesa a declinare ancora una volta l’amore in uno dei suoi mille volti: 

“Darling I love you, but I think it’s time to let go,
darling I love you but I guess it’s time to let go,
darling I love you, but I know it’s time to…”

 

Stu Larsen

Marigold

Nettwerk

 

Alberto Adustini

Pearl Jam “Gigaton”: Di Come Un Disco Non Sia Solo Musica

Tier II

 

Il 20 giugno del 2014, il signor Edward Louis Severson III, davanti a 60.000 persone in estasi, pronuncia un breve discorso, dopo due ore e mezzo di musica. Guarda in alto, gli spalti di San Siro, sorride alla transenna. Sente un senso profondo di comunione, tira fuori il suo block notes e in inglese, tra qualche fuckin’ e un gran gesticolare ci fa capire che nonostante tutto, nonostante tutti, si deve perseguire la strada della pace, dell’amore, della collaborazione. 

“We can win, we will win.”
Accordi di chitarra. Alive.
Lo conosco a memoria, quel live è stato la colonna sonora delle mie corse per l’intero anno successivo. I Pearl Jam sono colonna sonora dal 1991. Sono, in realtà, intrecciati con le nostre storie personali e questo offusca sicuramente il giudizio su un nuovo lavoro, come può essere Gigaton.

Tuttavia qualcosa è successo, quasi subito, dopo pochi ascolti. Una qualcosa di simile mi accadde con Vitalogy, c’era un senso di fondo che chiamava a nuovi esami, nuovi ascolti. 

Li ho nelle orecchie da così tanto tempo che risentire quel formicolio è stato davvero esaltante. Il mio quinto senso e mezzo chiamava a gran voce e così mi sono tuffato in uno studio matto e disperatissimo del loro ultimo lavoro. Ero alla ricerca del perché mi fosse piaciuto subito. Evento raro, quasi da sentirsi in colpa. 

Sia chiaro, l’opinione altrui, in questi casi, soprattutto se social, per me è inesistente. Il rapporto con un album è mediato solo dalle cuffie, tutto il resto è distrazione non necessaria. Ascolto e posso trovare interessanti punti di vista diversi, ma innanzitutto ho bisogno di strutturare un’opinione. In questo caso poi, devo razionalizzare una sensazione ombelicale, sfida affascinante ma ardua. 

Kandinsky sosteneva che l’azione nel quadro non deve aver luogo sulla superficie della tela materiale, ma in “qualche punto” dello spazio illusorio. È una dinamica virtuale, la stessa che cerco di mettere a fuoco.
Frank Zappa (attribuzione incerta, avviso) ha sostenuto che parlare di musica sia come “ballare sull’architettura”. 

Ecco, per cerchi concentrici mi avvicino. Eddie Vedder vive di ossimori e sinestesie. Canta di cose tremende, di vissuti pesanti, con melodie meravigliose e lo fa mandando in corto circuito musica e testi. È frizione continua, soprattutto nei primi dischi, con Vitalogy in testa. 

Per la prima volta, invece, in Gigaton sento venire meno questo gioco di costruzioni, mi sembra di vederci quasi un ragionamento che si muove dalla prima traccia per terminare con River Cross. Non mi spingo a parlare di concept album, ma qualcosa di simile serpeggia tra i solchi del disco. È un rinnovato umanesimo nei testi, che si concentrano sull’essere propositivi, perdendo quel furor giovanile.
Sembra un’Alive, trent’anni dopo: “Oh, and do I deserve to be?”
Beh, certo che lo meriti, e sei ancora vivo perché hai trovato una strada, l’hai, a dirla tutta, cantata attraverso undici dischi, dieci dei quali piuttosto adirato. 

Cito, sparse:

“All the answers will be found
In the mistakes that we have made”
Who Ever Said

“Right now I feel a lack of innocence
Searching for reveal, hypnotonic resonance
[…]
don’t know anything, I question everything”
Superblood Wolfmoon

“Freedom is as freedom does and freedom is a verb
They giveth and they taketh and you fight to keep that what you’ve earned
We saw the destination
Got so close before it turned
Swim sideways from this undertow and do not be deterred”
Seven O’Clock

Seven O’Clock ci ricorda la sesta legge del surf: mai nuotare controcorrente. La corrente va attraversata per raggiungere l’obbiettivo.
Vedder nel ‘91, seppur surfista, non riusciva a far uscire le leggi dell’Oceano fuori dall’acqua.
Quick Escape è una fuga nello spazio, verso Marte (crediti a Bowie, ovvio), perché più alto è il nuovo punto di vista, migliore e più precisa sarà la percezione. È una ritirata programmatica, robe da Sun Tzu, per raccogliere le forze e iniziare a rimboccarsi le maniche, come spiega magistralmente in Seven O’Clock con quel “Freedom is a verb”, che ci ricorda che spesso le parole hanno richiesto sangue e tanta vita, prima di godere di un significato.
Qui si parla della potenza del linguaggio, della parola. La poesia, anche nelle canzoni, scopre il mondo come se fosse nuovo, è uno sguardo magico che riesce a intravedere nuove corrispondenze (crediti a Baudelaire, ri-ovvio).

È un viaggio a rotta di collo nel Vedder-pensiero, che forse, a vederla bene, unisce la band molto più delle derive musicali dei cinque, sempre più distanti per gusti, ma capaci, nella dinamica interna del disco, di usare questa diversità come un punto di forza, per cambiare registro, punto di vista, ritmo, per regalarci, a conti fatti, un’esperienza molto più ricca e ampia. 

Nelle prime tracce c’è l’analisi, c’è l’indulgenza per i limiti del nostro essere, c’è la presa di coscienza.
Poi l’album, il Pensiero di Gigaton, fattosi forte e diventato adulto, affronta il lutto, superandolo in Comes Then Goes, si prende la scena intera in Retrograde quando i nostri ci avvisano che il messaggio è arrivato a destinazione, le coscienze sono deste e hanno rumore di tuono.
In River Cross si ripete “Can’t hold me down” che in breve diventa un “Can’t hold us down”. Il compito è portato a termine, il testimone è stato passato. 
Share the light”.
Che apre un menù a tendina di collegamenti possibili a partire da Prometeo che, prometto, vi evito.
Ode ai Pearl Jam, che hanno mandato in soffitta la resilienza, riesumando la resistenza, usando le parole, la poesia. Gigaton ha dei testi decisamente alti, a mio parere. Del resto un loro concittadino, vissuto qualche anno prima e dipartito a ventisette, sosteneva che “Bisogna cercare dentro ai dischi se volete trovare la poesia contemporanea”. Ben detto, Jimi. 

A volte capita che un album venga accolto a braccia aperte anche solo per il contesto in cui capita.
Altre volte accade che un album ha un messaggio così universale che è impossibile non cogliere il significato profondo e ideale.
Infine ci sono casi come Gigaton, che non è un album perfetto, per carità, ma ha una tale densità che risulta avere, per me, l’unica caratteristica che conta: il desiderio di riascoltarlo. Esplorarlo. Conoscerlo e inserirlo nella storia della mia relazione con i Pearl Jam, una storia fatta di specchi, di cambiamenti, di tradimenti, anche di separazione, ma che continua, incredibilmente, a lasciarmi folgorato, su un prato, quando parte una Corduroy o una Porch, a lasciarmi un sorriso quando, nelle cuffie, passa una frase di vent’anni prima perfetta, calzante, per quel momento lì.

 

Andrea Riscossa

Claver Gold & Murubutu “Infernvm” (Glory Hole Records, 2020)

Ho recuperato un articolo che avevo letto da qualche parte anni fa di Umberto Galimberti, nel quale viene raccontato di quando il linguista Tullio De Mauro aveva svolto nel 1976 una ricerca per vedere quante parole, conoscesse al tempo un ginnasiale: 1600 circa. Ripeté il sondaggio vent’anni dopo e il risultato fu tra i 600 e i 700. Prosegue Galimberti dicendo che a parer suo al giorno d’oggi il numero potrebbe essere circa 300, se non meno. 

Sull’origine e sulla veridicità di questo studio vi sono pareri contrastanti, per cui non mi va di farne una sorta di assioma, ma di gran lunga più interessante è come prosegue Galimberti nell’articolo, ovvero “come ha evidenziato Heidegger, riusciamo a pensare limitatamente alle parole di cui disponiamo, perché non riusciamo ad avere pensieri a cui non corrisponde una parola. Le parole non sono strumenti per esprimere il pensiero, al contrario sono condizioni per poter pensare”.

Ora: il rap, per sua stessa natura, per definizione, non può esistere senza la parola. Magari senza musica, ma senza parole proprio no. E solitamente nei dischi rap di parole ce ne sono molte, i testi tendenzialmente lunghi, i risultati a volte opinabili, a volte no.

Non voglio attirarmi nemici (ok, anche io a volte non resisto dal buttarmi nella caciara), ma oggi è possibile imbattersi in “Giuro l’altra notte è stato bello / Non esci più dal mio cervello / Non basterebbe un solo anello / Tu vali più di ogni gioiello”, il cui autore non renderò noto, oppure in “E lui che avrebbe superato ed aspettato / Per millenni per poterla rivedere pure solo un giorno / E si sarebbe, da abbracciati, addormentato fra i capelli / Per potersene portare il suo profumo in sogno”.

È un discorso un po’ antipatico, lo ammetto, ed anche leggermente estemporaneo; voglio dire, esiste Messi ed esiste Candreva, ed entrambi appartengono alla stessa categoria lavorativa, ma un paragone così forte e smaccato mi aiuta nel trasmettere quanto sia maestosa e mirabile l’opera (che di questo si tratta) messa in scena da Claver Gold e Murubutu. Scrivo con la pressione di trovarmi di fronte a qualcosa di così vasto da essere incapace di abbracciarlo tutto, di non riuscire a darne giusto merito e rilievo, ma ormai siamo qui e da qualche parte bisogna pur cominciare. Dunque Daycol Orsini, Claver, e Alessio Mariani, Muru, dopo essersi già incontrati in maniera più o meno episodica in passato, hanno deciso di unire le forze per cimentarsi in una rilettura della prima cantica dell’immortale lascito di Dante Alighieri, la Commedia. 

Infernvm, così s’intitola, si sviluppa lungo undici tracce, dalla minacciosa Selva Oscura (con un ispiratissimo Vincenzo di Bonaventura) al Chiaro Mondo, costituita da soli sample a tema infernale riassemblati da Il Tenente.

È una discesa agli inferi che parte dall’Antinferno (con il contributo di Davide Shorty, che ricorderete in un X-Factor di qualche anno fa) e prosegue grazie all’anziano traghettatore delle anime “Spinge fiero il vecchio legno nell’oscurità”, Caronte. Qui Murubutu, da professore quale è nella realtà, mi costringe a riprendere il dizionario perché le mie reminiscenze liceale naufragano (sic) di fronte a “Ogni devoto qua ha il suo psicopompo / divinità ctonia della verità”.

È poi la volta di Minosse, col suo beat spiccatamente anni ’90 ed un utilizzo squisito dell’italiano che non può lasciare indifferenti. E d’altronde meglio non correre il rischio di risultare irrispettoso nel trattare temi così alti usando un linguaggio non altrettanto elevato. 

E quale argomento migliore se non l’amore, qui affidato a Paolo e Francesca, forse, insieme alla successiva Pier l’empireo del disco, per non cambiare campo semantico. Giuliano Palma fornisce il suo apporto nel ritornello, mentre i due battagliano a chi è più ispirato, Paolo piange mentre Francesca racconta “io che mi esprimerò solo piangendo / e tu parlerai di te come Ginevra”.

Pier ci sbatte in faccia la triste e dura realtà dei suicidi ed in Malebranche troviamo Murubutu a velocità siderale nella sua strofa a presentarci i barattieri; e poi Ulisse, con uno splendido arpeggio di chitarra e la narrazione tra Penelope che aspetta il marito che non farà ritorno: “Cantami o musa dell’Eroe di Grecia e le sue gesta / … / Che sfidò il fato fino all’ultima triste tempesta”.

La dolcezza con la quale una figura come Taide viene calata ai giorni nostri per parlare di prostituzione è commovente, difficile non empatizzare e non calarsi nei panni della protagonista, avvertirne la fatica.

I titoli di coda giungono con Lucifero, in un brano dalle tinte quasi dub, spruzzate di reggae qua e là, che mi portano all’uscita di questo disco con un mix di sensazioni contrastanti, difficili da elaborare: più avanzavo nell’ascolto, più mi addentravo nelle viscere dell’inferno, più provavo sincero stupore e ammirazione verso questi due eroi della parola, per la loro mirabile impresa. Al contempo mi maledicevo per aver sprecato troppo tempo al liceo e non aver seguito le lezioni ed essermene sempre bellamente fregato di mitologia, Dante, figure retoriche, per cui ora devo fare il doppio della fatica per mantenere il passo di Claver Gold e Murubutu. 

In effetti l’alternativa per non sentirmi inferiore c’era… come faceva quella dell’anello / gioiello?

P.S. Piccolo inciso (non del tutto) privo di polemica: anche in Caronte i suoni vanno da una parte all’altra, se la ascoltate con le cuffie… voi e il vostro 8D…)

 

Claver Gold & Murubutu

Infernvm

Glory Hole Records

 

 

Alberto Adustini

Waxahatchee “Saint Cloud” (Merge Records, 2020)

Waxahatchee, che è l’ultimo progetto in ordine cronologico di Katie Crutchfield, deve il suo nome a Waxahatchee Creek, situata negli Stati Uniti, precisamente in Alabama. Se cercate informazioni su questo Waxahatchee Creek, ad esempio su wikipedia per comodità, oltre alle tre righe di contestualizzazione, troverete poco altro, ma che è più o meno (più meno che più) noto per essere zona nella quale vive la Leptoxis Ampla, una specie di lumaca d’acqua dolce, a rischio estinzione, e che ha trovato il suo habitat ideale principalmente appunto in Alabama.

Sulla Leptoxis Ampla potrei star qui a parlare profusamente ma non mi pare né il luogo né il momento adatto, per cui tenderei a concentrarmi su Saint Cloud, ultima uscita sulla lunga distanza (madonna come mi piace sta espressione) di Waxahatchee, sempre per la Merge Records e che segue a distanza di tre anni Out in the Storm. E anticipazione, probabilmente è il mio disco dell’anno, al 27 marzo 2020. Quindi giudizio parziale ma non mi esponevo in maniera così decisa da anni, forse dal 2015 con At Least For Now.

Anziché fuori in mezzo al temporale, riprendendo il titolo dell’ultimo disco, con questo Saint Cloud Katie Crutchfield sembra essere uscita dal temporale, a sentire come suona (bene) già dall’iniziale Oxbow; messe forse temporaneamente da parte le distorsioni e gli echi pseudo punk simil grunge del passato ci troviamo immersi in sonorità quasi soul, dalle parti della Macy Gray di The Id, quando non più spiccatamente in territori americana, quel country che fanno principalmente loro, gli americani. Waxahatchee ci mette sopra una freschezza ed un’irresistibile necessità di usare la voce, giocarci, passare dal falsetto (Can’t Do Much ha degli splendidi echi della Abigail Washburn di City Of Refugee) ad una sorta di indietronica che quasi ti pare di sentirci i Postal Service (Fire).

Lo stato di grazia compositiva della Crutchfield non conosce soste né tentennamenti, è un continuo sorprendersi per una partenza dylaniana (Lilacs) o per la dolcezza di una The Eye che risulta tanto semplice quanto efficace. E siamo solo a metà disco.

L’enigmatica Hell, col suo testo in bilico tra amore e inferno ci porta a Witches, nella quale Katie ci parla delle sue tre migliori amiche, nominandole lungo il brano: la ballerina Marlee Grace, Lindsey Jordam (a.k.a. Snail Mail) e la sorella, Allison Crutchfield, con lei nei P.S. Eliot. E lo fa in maniera tutt’altro che convenzionale, ma al termine di un vero e proprio labor limae, soppesando le parole e scegliendole con cura, creando immagini, per colorare, dipingere sfumature, ritrarre con una vivida naturalezza.

In Arkadelphia c’è spazio per scavare nella memoria, tra ricordi che tornano a galla e coi quali non si è mai fatto pace, poggiati su di una malinconica, struggente melodia, Ruby Falls scorre via, con la sua cadenza fatta di Hammond e batteria, per portarci in fondo, a quella che è la vetta del disco, e forse di tutto quanto la mente di Katie Crutchfield abbia partorito fino ad ora.

St. Cloud si muove tra sparuti accordi di chitarra, poco altro, è la voce a prendersi tutta la scena, torna l’immagine del vestito bianco, “And I Might Show Up In A Wight Dress”, come nell’iniziale Oxbow, un potentissimo “If the dead just go on living / Well there’s nothing left to fear”, ci si sposta tra ombre e luci che scandiscono un ritorno, forse uno svanire. Finisce il brano e in automatico lo faccio ripartire, come un automa, voglio perdermi anche io tornando a casa a Saint Cloud, voglio bruciare lentamente anche io, voglio sentire all’infinito quel “when I go, oh when I go”, voglio provare questa alienante, curiosa, spiazzante, meravigliosa sensazione di perdizione e fine, confortato dai toni caldi e rassicuranti di una voce divina. E se serve, versare qualche lacrima.

 

Waxahatchee

Saint Cloud

Merge Records

 

Alberto Adustini

Pearl Jam “Gigaton” (Monkeywrench Records, 2020)

So save your predictions
And burn your assumptions

 

Tier I

 

Alla fine ho dovuto passare alle maniere forti.

Mi sono regalato la mia naturale miopia, levandomi gli occhiali. Anzi, ho proprio chiuso gli occhi.

Le cuffie a un volume illegale, perché di volumi illegali (e parlo di sonorità dispiegate e di peso dei testi) questo Gigaton ne è pieno. Sarà l’una di notte, ma poco importa, mi sono autodiagnosticato un cabin fever da quarantena e autoinflitto un jet lag da recensione. Non ho mai scritto cinque pagine fitte di appunti per nessuna recensione prima. Il problema è che sono di parte, molto di parte, in questa vicenda e ho un timore profondo ogni volta che un mio dito si abbassa verso la tastiera. Forse per la prima volta avverto un vago senso di responsabilità, innanzitutto verso me stesso, perché sono chiamato a esprimere un giudizio (anche se non vorrei, ma è inevitabile) su un qualcosa che, dopo sette anni di attesa, ha quasi l’aria di essere un oracolo, più che un disco.

E in seconda battuta mi sento responsabile perché, tra isolamento e tempesta emotiva calcolabile in gigatoni, sto tecnicamente sperimentando la menopausa. Sbalzi emotivi di questa portata li ho visti solo in alcune signore quand’ero fanciullo. Da oggi avete tutta la mia più sincera solidarietà. Questo, inevitabilmente, offusca la mia percezione. Anche se, a dirla tutta, credo l’abbia semplicemente accelerata. Perché è dai tempi di Vitalogy che per esprimere un giudizio su un lavoro dei Pearl Jam, di solito, impiego mesi.

La compressione ha aiutato, qualcosa si è smosso con largo anticipo.

La verità è che a smuovere qualcosa ci aveva già pensato Dance of the Clairvoyants, primo singolo uscito il 21 gennaio, che ha portato alla luce un sound inedito e innovativo, un potenziale cambio di rotta da parte dei cinque, o semplicemente un avviso ai naviganti: destatevi, ma soprattutto “mettete in salvo le vostre previsioni e bruciate le vostre supposizioni”.

 

 

Un cambio, fisico, è avvenuto: a produrre l’album c’è Josh Evans, colui che negli ultimi anni ha seguito il gruppo come tecnico del suono. Ha creato una sorta di studio casalingo dietro casa, per permettere a Vedder e soci di lavorare in tranquillità e soprattutto rispettando tempi dilatati e assenze frequenti, tra tour solisti e progetti paralleli è stato raro vedere i Pearl Jam riuniti in sala di registrazione a improvvisare. È stato più un lavoro di stratificazione, di innesti, di montaggio artigianale. Nel 2017 si è iniziato a registrare, ma la scomparsa di Chris Cornell ha bloccato la genesi dell’album. Probabilmente, ha anche permesso che avvenisse un piccolo miracolo.

È come una fotografia a lunga esposizione. Un diaframma era stato aperto e poi è stato lasciato aperto. Sulla pellicola, alla fine dell’esposizione, sono rimasti tutti i dettagli di quasi tre anni. C’è una montagna di tempo in questo disco, come se fosse invecchiato (e bene), in attesa di uscire dalla botte.
Che metafore così, al Vedder visto a Barolo, sicuro piacciono.

Il disco apre con Who Ever Said, ed inizia come un concerto live: musica in dissolvenza, pausa, poi entrano loro. Intro, chitarre, batteria, riffone goloso, Eddie.
Qui troviamo la presentazione, il programma dell’opera: un socratico sapere di non sapere, una stoica sospensione del giudizio. Lo dico qui, in partenza: questo è l’album più “filosofico” dei Pearl Jam, in cui la benevolenza di fondo verso i temi trattati è programmatica, è voluta. È lo spirito della scoperta, dell’analisi, che per la prima volta soffoca la rabbia.

Sarà la terza traccia che vi ritroverete a canticchiare al semaforo (o forse più facilmente in cucina, di questi tempi), la prima del nuovo album. Legata alla successiva Superblood Wolfmoon abbiamo un binomio che in un qualunque concerto avrebbe già fatto ballare mezzo stadio. Qui passiamo a un garage rock senza impegno, con tanto di ombrellino e olivina, mentre le parole, come sempre, producono frizione e attrito: qui c’è l’umana condizione, addirittura un platonico mito della caverna, fino alla citazione letterale del “I don’t know anything”. Insomma, tutto pronto per Dance of the Clairvoyants, terza traccia e testo scritto direttamente dalla Sibilla Cumana, solita scrivere i vaticini su foglie di palma lasciate al vento, con conseguente caos eolico-semantico, ma di sicuro effetto scenico. È canzone simbolo di quest’album, perché è sia chiave di lettura sia chiave di volta. Ma è anche canzone doppia, che ha una cicatrice tra prima e seconda parte, platonica, di nuovo, soprattutto nella coda, laddove solo nell’unione tra volontà femminile e maschile si compie la perfezione.

 

 

Dopo un volo così iniziatico e criptico ci pensa Mike McCready a riportarci su lidi conosciuti, con un assolo che vale l’intera Quick Escape, prima canzone veramente politica di Gigaton, in cui Trump viene evocato come icona del male incarnato, tangibile. Forse è l’unica traccia un cui il gruppo si permette della rabbia autentica.
Alright è la calma seguente. È onirica ed elettronica, ma anche famigliare, ha echi lontani di sonorità già usate dalla band.
Seven O’Clock è un sogno di un mondo migliore. Una chiamata alle nostre coscienze perché si dèstino, c’è “much to be done”, ci dicono. È per ritmo, tonalità e tema un pezzo springsteeniano, tanto vicino a quella poetica che non mi risulterebbe strano sentire questa canzone eseguita in un fienile, con gli archi e con un tempo ancora più dilatato. Del resto in questi ultimi tre anni Eddie è andato a Broadway ad ammirare zio Bruce e ai nostri non sarà sfuggito il concerto a casa Springsteen.
Never Destination e Take the Long Way sono due umanissime distrazioni, dopo il peso dei primi brani, una meravigliosa doppietta, che fa da eco al primo binomio posto a inizio album.

Buckle Up è la quota Gossard di Gigaton. C’è sempre il suo momento, solo suo, in cui il gruppo lascia la lavagna vuota e il gesso in mano al nostro. Se sei un genitore, questo pezzo ti lascerà sul viso un sorriso da ebete e in testa la consapevolezza che l’amore è un circolo. Almeno in famiglia. È una carezza, indulgente, materna, è un lenzuolo rimboccato e profumo di casa. E’ una canzone sul ricordo, sul valore del ricordo e sulla memoria dell’amore.

Se la pausa del vecchio Stone non vi avesse ancora stupito a sufficienza, ci pensa Vedder nella traccia successiva, Comes Then Goes, in cui la potenza sonora cede il passo a voce e chitarra acustica. Premessa: ringrazio sentitamente i Pearl Jam per non aver ceduto alla tentazione di abusare di steel guitar. Questo brano la chiama a gran voce e so che a casa sua un benharper di periferia ha già rotto una Budweiser per provarci.

Pezzo dedicato a Cornell. Solita frizione tra melodia e testo che risulta essere, strofa dopo strofa, una esplorazione quasi empirica del sentimento del dolore. È una sequenza di immagini che hanno il lutto come tema centrale, ma termina privo di giudizio, è una declinazione, o semplicemente lo esorcizza cantandolo. Che per una band di Seattle, nata negli anni novanta, è un signor passo avanti, fidatevi.

Ma i ragazzi si stanno perdendo. C’era un filo all’inizio, un’intenzione, un messaggio. Lo ritroviamo in Retrograde. Fatte le nostre considerazioni, esplorato il mondo e osservata la situazione è il momento di agire. È un climax, che termina con un’immagine quasi biblica: la folla, destata, ha il rumore del tuono. Gli strumenti in coda diventano un’onda, il pezzo di gonfia, diventa monumentale, quasi orchestrale.

E poi arriva lei.

Mi aveva lasciato stordito a Firenze nel 2019. La aspettavo in Gigaton per tenerla con me e poterla consumare. Ma qui, come capita nei grandi dischi, la grande canzone diventa qualcosa di ancora più grande se arriva dopo undici brani. L’ultima canzone, dopo undici album. E poi saranno ascolti infiniti. E poi sarà attesa per i live.
Questo ultimo pezzo, fatto di organo a pompa, voce, un contrappunto, un Cameron ispirato e assenza di chitarre, sembra ancora di più una preghiera laica. Un’invocazione che chiude le tematiche del disco: il futuro, individuale e collettivo, i cambiamenti climatici, il risveglio delle coscienze, l’essere umano nella sua consapevole imperfezione.

Chiude l’album più lungo della storia della band.

Ascoltarlo durante una pandemia globale, è detonante.

Ha catturato lo spirito del tempo, come se il disco fosse un manuale di istruzioni per momenti bui, che, dicono i chiaroveggenti, sono inevitabili.

E allora “save your predictions and burn your assumptions”. Tabula rasa, spazio all’umanesimo dei Pearl Jam. 

 

Pearl Jam

Gigaton

Monkeywrench Records

 

Andrea Riscossa

AVEC “Homesick” (Earcandy Recordings, 2020)

AVEC è una cantante pop-folk austriaca. Giovanissima quanto talentosa, a 22 anni ha già calcato i palchi più importanti d’Europa, affiancando artisti come Sting, Zucchero e The Tallest Man on Earth. All’attivo ha due album, What if we never forget e Heaven/Hell ed è prevista a breve l’uscita del terzo.

Homesick, ovvero nostalgica/o di casa, è il titolo. A pensarci fa quasi sorridere, in un momento storico in cui la maggior parte della popolazione italiana si trova in quarantena.

Dodici tracce “scritte col cuore e senza pretese” come afferma l’artista, dallo stile pop-folk, mischiato ad elementi ambient coerenti fra loro che creano un paesaggio sonoro malinconico e rassicurante.

“Do you wanna know what’s wrong with me? It’s you that don’t give a shit about me now” 

La voce rotta di AVEC accompagna in sottofondo le prime note dell’intro di Runaway, il nuovo singolo appena uscito. L’artista si mette a nudo, instaurando fin dalla prima battuta una forte empatia con l’ascoltatore che, rapito dalla curiosità, non può fare a meno di entrare a piedi scalzi all’interno del brano.

Il ritornello: “I don’t mind staying up all night, runaway”entra subito in testa. È un abbraccio a distanza. A parer mio, Runaway è il brano più bello dell’intero album.

I’ll come back, Dance Solo e Way Out sono brani complementari e peculiari sia nel mood che nei contenuti. Si parla di una relazione finita e delle conseguenti ripercussioni: “Even if we’re worlds apart. You know it breaks my heart” canta AVEC in I’ll come back. 

Il singolo che ha anticipato l’uscita dell’album è Home, il brano più completo e variegato dal punto di vista strutturale. Il tema ,ripreso anche nel brano Homesick for a day, è quello della nostalgia di casa. O di qualcuno che la rappresenta. AVEC esibisce una magistrale consapevolezza nel creare ritornelli dalle melodie facilmente riconoscibili e persuasive.

Fire e Mona sarebbero la colonna sonora perfetta per una fuga in mezzo alla natura. Riesci a vedere un falò e sentire l’odore di marshmallows sul fuoco. 

Rispetto ad Heaven/Hell, l’album precedente, si avverte un cambiamento nella scelta delle sonorità, in quest’ultimo caso più calde ed organiche. Non sorprende, quindi, che l’album sia stato registrato in una vecchia casa nel mezzo della campagna austriaca in collaborazione con un amico di lunga data. Tutto di quest’album richiama l’atmosfera intima di un luogo ameno.

In Heavy on my mind, l’artista si rivolge a noi paranoici, agli iper-sensibili che sanno esternare le proprie fragilità ed insicurezze, perché in fondo “chi è davvero normale?”

È da ammirare la capacità di AVEC nel comunicare le sue debolezze più recondite, offrendo al contempo un rifugio dove ripararsi agli ascoltatori.

Il brano, inoltre, spezza un cortocircuito di tracce troppo simili, tanto da risultare quasi ridondanti. Personalmente, le sessioni in studio di Home e Under Water, brano appartenente all’album precedente, risultano nel complesso superflue.

In conclusione, Homesick si configura come un album accogliente e rassicurante. A tratti potrebbe risultare ridondante per la sua estrema coerenza e limitata versatilità. Lo stile resta credibile ed organico, dalla prima all’ultima traccia, restituendo accattivanti successioni ritmiche.

AVEC riesce a trasmettere calore e tenerezza, mantenendo un sound incalzante tale da non esaurirsi in una mera cantilena romantica. Nel complesso, l’album restituisce un racconto introspettivo e totalizzante per chi ha il coraggio di percepire la vita attraverso il filtro della sensibilità.

 

AVEC

Homesick

Earcandy Recordings

 

Giulia Illari

Tommaso Mantelli “9 Useless Tunes” (Shyrec/Lesder, 2020)

La settimana scorsa, credo fosse lunedì, ho rivisto Sound City, un documentario diretto da Dave Grohl incentrato su di uno studio di registrazione, per appunto il Sound City Studios di Los Angeles, dove Grohl con altri due musicisti dell’epoca, un certo Krist Novoselic e tale Kurt Cobain, nel 1991 registrò un album intitolato Nevermind. 

Insomma nell’ora e mezza abbondante di durata viene raccontata la storia di questo celeberrimo studio di registrazione, dalla fine degli anni sessanta fino praticamente ai giorni nostri, attraverso immagini e reperti d’epoca e testimonianze dirette di diversi mostri sacri della storia del rock, che non ho intenzioni di citare nella maniera più assoluta perché sono davvero molti. E perché magari così vi vien voglia di vederlo (Dave, avanzo da bere per la marchetta).

L’aspetto più interessante tra i molti è a mio avviso il passaggio che lo studio, ed in particolare il vero protagonista del film, il Neve 8028 (un mixer rigorosamente analogico, prodotto in Germania e fiore all’occhiello degli studi di registrazione – quelli che se lo potevano permettere – del tempo), hanno vissuto nella nascita, sviluppo e diffusione del digitale e la contestuale soppressione, o quantomeno ridimensionamento, dell’analogico.

Un discorso così impostato parrebbe sottendere ovviamente la tesi secondo la quale analogico è bello e digitale è brutto, ma invece non è così, la questione è più affettiva quasi, più di cuore, in realtà quasi nessuno dei musicisti che compaiono rinnegano con forza l’avvento dei PC e della tecnologia, anzi, quasi tutti ne hanno fruito consapevolmente, ma in tutti c’è sempre forte questa necessità quasi ancestrale, primitiva, di tornare al centro, al nucleo, rimuovendo tutto ciò che potrebbe risultare posticcio.

Ora, quando qualche giorno fa ho iniziato ad ascoltare 9 Useless Tunes, la mente non ha potuto non finire lì, a Sound City, non ho potuto non fare questo parallelismo, davvero, troppi punti in comune, troppe fortuite (o meno) coincidenze.

L’autore del disco in questione, Tommaso Mantelli, gestisce per l’appunto uno studio (il Lesder nda), è produttore e ovviamente musicista e, per l’occasione, ha deciso di liberarsi di qualsivoglia orpello e diavoleria, e rinchiudersi nel suo studio da solo, con un microfono ed una chitarra. Come un moderno Thoreau.

È curioso che un’idea, un progetto come questo esca proprio in questi giorni di isolamento e per molti anche di solitudine, ma ciò che ne scaturisce è un disco che trasuda passione e amore per la musica e per la chitarra, dove trova spazio un’ovvia ricerca interiore ed un grado di intimità dove tutti possiamo ritrovarci.

Gli spazi in cui si muove Mantelli sono quelli del cantautorato rock in chiave acustica (ci si sentono echi di Jeff Buckley, anche se di primo acchito la mente è corsa all’Unplugged degli Archive e alla voce di Craig Walker), come nel blues d’apertura Just Around the Bend, o nella fatalmente attuale Bitter Sweet Doomsday.

I Will Learn è un’intima e sussurrata carezza, in questi tempi incerti, mentre Which Game è continuo rincorrersi tra chitarra e voce, in un serrato saliscendi.

È un disco senza trucchi e senza effetti speciali, e nonostante ciò non annoia e non risulta ripetitivo, anzi, il finale di It Can’t Be That Bad è un tocco di magia pura e autentica, che ci porta alla conclusiva I Smile, nella quale si tirano idealmente le fila del discorso, con quel “I’m proud to say I’m happy for what I’ve done, I smile because I’m not afraid anymore, I smile for all the time I’ve spent on this world”.

Nove brani che risultano tutt’altro che inutili, per riprendere il titolo del disco, ma che ci riportano ad una dimensione musicale della quale siamo sempre meno abituati e alla quale fa bene, alle orecchie e allo spirito, di tanto in tanto tornare.

 

Tommaso Mantelli

9 Useless Tunes

Shyrec | Lesder

 

Alberto Adustini

Human Impact “Human Impact” (Ipecap Recordings, 2020)

Il 3 agosto del 1530, durante la battaglia di Gavinana, Fabrizio Maramaldo (da cui il termine di uso comune, nonché fonte di incontrollate risa tra i soldati romani di Life Of Brian dei Monty Phyton) venendo meno alle regole della cavalleria, ferì a sangue freddo e trucidò il corpo di Francesco Ferrucci, condottiero per la repubblica di Firenze, gravemente ferito durante il conflitto ed in punto di morte. In questo frangente Ferrucci pronunciò la celeberrima “Vile, tu uccidi un uomo morto!”.

Ebbene in questa fase della mia esistenza, già duramente provata da queste settimane di clausura, con le difese immunitarie (figurate, s’intende) in lieve difficoltà, una psiche che talvolta vacilla, mi pareva di essere in una situazione analoga. Ora lungi da me dare del vile ai quattro ragazzi dei quali a breve scriverò, sia mai, ma ecco, se ti metti ad ascoltare un disco come Human Impact, che è cosa buona e giusta, devi essere consapevole che stai per affrontare un viaggio tutt’altro che semplice e confortevole e che difficilmente ne uscirai totalmente incolume.

È una partenza abrasiva, quella di November, disturbante, affidata a basso, batteria e synth, con la chitarra di Spencer temporaneamente sullo sfondo. Il primo impatto ricorda decisamente più ciò che erano i Cop Shoot Cop rispetto alle altre forze in gioco, anche se il frontman degli Unsane provvede comunque a fornire il suo apporto con la voce, sporca e cattiva come abbiamo imparato ad amarla negli ultimi trent’anni. 

I ritmi impazziti e le urla lancinanti nel finale di E605 sono un’eco nemmeno troppo lontana degli ultimi trascorsi degli Swans del periodo da The Seer in avanti, mentre con la successiva Protester, sincopata e serratissima, torniamo più in zona Spencer/Unsane.

È infatti da queste tre band immortali e imprescindibili, accomunate dalla provenienza (New York City) e dal non aver mai avuto grande pietà per i timpani dei propri fan, che provengono i quattro Human Impact. Tecnicamente credo sia impossibile non parlare di supergruppo in un caso come questo: come già detto Chris Spencer, col suo berretto, voce e chitarra, proveniente dagli Unsane; ai synth ed elettronica provvede Jim Coleman, ex Cop Shoot Cop; il basso è quello di Chris Pravdica, attualmente con gli Swans (ma che lo scorso anno avevo visto in tour assieme agli Xiu Xiu, e dove c’era anche Thor Harris esatto, anch’egli Swans); alla batteria Phil Puleo, fondatore con Coleman dei Cop Shoot Cop ed attualmente dietro alle pelli dei monolitici Swans.

Insomma non i quattro ceffi più raccomandabili sulla faccia della terra, e le cui esperienze, pregresse ed attuali, sommate tra di loro, fanno presagire ad un risultato ben poco rassicurante; vedasi in Portrait, con Spencer che quasi rende omaggio ai sermoni apocalittici di Michael Gira, ma dura poco, perchè le intenzioni collettive sono differenti, e ben più bellicose, qui si vogliono smuovere viscere e interiora, spazzare via ogni tipo di possibile ostacolo.

E a proposito di ostacoli, non mancano gli inciampi o mezzi passi falsi: Respirator sembra un pezzo alternative degli anni ’90 al quale è stato messo su un ritornello recuperato da vecchie registrazioni e che pare non centrare molto con l’insieme, e Cause pare continuare l’andazzo, salvo poi ristabilire l’ordine stabilito piazzando senza tanto pensarci su un finale travolgente, peccato duri troppo poco.

Consequences alza un po’ il tiro e i giri, anche se non riesco a non trovare continui riferimenti e parallelismi con quel power – electro – rock – metal anni ’90 in stile Static X, Powerman 5000. Non so se rendo l’idea.

Consci del fatto che probabilmente stavano un po’ troppo tirando la corda pronti con la travolgente Unstable, una bella cavalcata con basso in spinta continua e poi ecco This Dead Sea, con un’intro che evoca i Korn di Somebody Someone ed una batteria che ora sì ci smuove dall’interno. Sono schianti e tuoni e saette (cit.), Spencer a sparare fuori tutto dalla sua gola e martoriare le sei corde, i sintetizzatori a creare la tensione massima, per un finale di brano, e di disco, di travolgente e tumultuosa bellezza.

 

Human Impact

Human Impact

Ipecap Recordings

 

Alberto Adustini

 

Deap Lips “Deap Lips” (Cooking Vinyl, 2020)

Una mia vicina di casa aveva un’adorabile dogue de bordeaux.
Era bella, intelligente, stranamente sana (la quadrupede, suvvia). Un bassotto di un amico, sfidando leggi di fisica e natura, riuscì a donarle il proprio patrimonio genetico. I due proprietari decisero di occuparsi dei cuccioli, speranzosi che l’incrocio dei due portasse a un nuovo standard di razza.
Bene.
Dall’alto dei miei studi umanistici posso affermare con assoluta certezza che la genetica segue solo una legge certa, quella di Murphy. Che, vi ricordo, come principio primo recita: “Se qualcosa può andar male, lo farà”.
Fatta questa doverosa premessa e fugato ogni dubbio che la metafora canina sia casuale e non alluda alla qualità delle band di cui parleremo a breve, dovrei e vorrei raccontarvi la storia di un progetto, nato nel 2016 e che oggi vede la luce.
Partiamo dal principio. All’angolo rosso abbiamo le Deap Vally, al secolo Lindsey Troy e Julie Edwards, powerduo femminile piuttosto ruvido che vive in uno stato di tour infinito (hanno fatto da spalla a Muse, Queens of the Stone Age, Red Hot Chili Peppers, passando da Glastonbury al Bonnaroo), mentre all’angolo blu troviamo i pluricampioni The Flaming Lips, vincitori di tre Grammy, con alle spalle qualche milione di dischi venduti in giro per il mondo, portatori sani di psichedelia d’antan, con un brutto problema alla capacità di sintesi quando si tratta di titoli e autori di live pirotecnici. Nel loro palmares spaziano da collaborazioni con Beck, Nick Cave e Miley Cyrus fino all’OST di SpongeBob, il film. 
I gruppi si conoscono nel 2016 ed inizia un lungo corteggiamento fatto di sessioni live in Oklahoma, casa dei Flaming, e di parti registrate a distanza, dato che le due ragazze sono di Los Angeles. Le tracce da tre diventano sei, nasce la voglia di realizzare un disco e così, nel marzo 2020 vede la luce Deap Lips, album di esordio omonimo nato dall’unione dei due gruppi di cui sopra.
Ora, tralasciando per un attimo il fatto del nome (immagino il brain storm che l’ha generata, ma neanche i Monthy Python), questa nuova fusione, questo scambio musical-genetico ha portato a un salto di qualità nella tecnica di ibridazione tra gruppi?
Murphy direbbe no. Io dico che se vi piacciono i dogue de bordeaux alti venti centimetri e/o amate molto i cani state sereni, il prodotto finale vi piacerà. Se invece avete aspettative molto alte, purtroppo ci sono cattive nuove.
Fin dalla prima traccia, Home Thru Hell, si palesa il paradigma dell’album: entrambi i gruppi si snaturano in funzione dell’altro, ed è un peccato, perché le californiane sanno suonare davvero bene quando si tratta di farlo entro certi confini di genere, e gli altri, beh, gli altri sono dei giganti. I Flaming Lips, ad esclusione di Hope Hell High e Motherfuckers Got to Go, prendono in mano la scena, entrando e uscendo dalle trame sonore, ma restando, di fatto, il telaio che regge il tutto, se mi passate la metafora a tappeto. Anzi, il disco intero, col passare delle tracce, sembra scivolare sempre più verso una contaminazione psichedelica che prende il sopravvento sulla parte più garage e blues del duo losangelino.
Ripeto, è un peccato, perché le premesse parevano ottime. All’atto pratico l’ascolto risulta ripetitivo, a tratti forzato, soprattutto nel continuo inserimento di parti e suoni tipicamente “flamingosi”, che inquinano o spezzano onesti riff di chitarra e tentativi di costruire tracce più classiche e meno barocche.
Rimandati, quindi.
Gli ibridi, del resto, non sempre riescono bene al primo tentativo.

 

Deap Lips

Deap Lips

Cooking Vinyl

 

Andrea Riscossa