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Pierpaolo Capovilla racconta la propria urgenza creativa

Il suo nome è Pierpaolo Capovilla, un artista dal curriculum vario che lo vede cantante e bassista per i One Dimensional Man, bassista per Buñuel, voce de Il Teatro Degli Orrori, solista in Obtorto Collo e ora parte di una nuova dirompente formazione con I Cattivi Maestri, con cui ha lavorato al progetto di recente uscita Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Maestri. Abbiamo parlato con lui di tutto, dal proprio nome al suo caro Majakowskij, passando per il nuovo album. Lui è una persona dalle idee chiare e dalle risposte dirette, schiette, che non lasciano spazio a dubbi o ad alterate interpretazioni. A VEZ Magazine questo piace.
 

Partiamo dall’inizio, o meglio dalle origini. Pierpaolo è un nome che porta con sé un’eredità culturale molto particolare, soprattutto in questo Paese: ti senti in qualche modo predestinato data l’omonimia con Pasolini?

“I miei genitori erano molto religiosi. Mia madre prima di sposarsi fu suora novizia nell’Ordine Paolino, mio padre voleva farsi sacerdote. Mi vollero chiamare Pierpaolo perché Pietro e Paolo furono fondatori della Chiesa Cattolica. Non mi sento predestinato, non è che una coincidenza.”

 

Come l’ultimo disco de Il Teatro degli Orrori aveva un titolo omonimo, il progetto appena uscito porta il titolo della nuova formazione, Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Mestri in cui figurano anche Egle Sommacal (Massimo Volume), Fabrizio Baioni (Drunken Butterfly) e Federico Aggio (Lucertulas). Questa scelta serve a rimarcare la chiusura di un capitolo e l’apertura di uno nuovo?

“Certamente. Come diceva il buon Andrea Pazienza, “Mai tornare indietro, neanche per prendere la rincorsa”, e così ho fatto”.

 

Se dovessi parlare a un giovane musicista ai suoi primi passi, come gli spiegheresti il desiderio dell’artista di evolversi, sperimentare nuove esperienze e collaborazioni?

“Credo che la musica sia una questione ‘vocazionale’. Bisogna crederci e perseverare. Confrontarsi ed evolversi è parte essenziale della faccenda. E che faccenda!”

 

Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Mestri non è un album “accogliente”, non vuole coprire con un cerotto nessuna ferita, non cerca di compiacere; infatti, si apre con Morte ai Poveri, che è anche il grido con cui inizia il brano stesso. Perché posizionare questo schiaffo proprio ad apertura del progetto?

“Ne parlammo a lungo in studio. L’idea di aprire la scaletta del disco con Morte ai Poveri fu di Manuele Fusaroli, produttore artistico, che ha curato le riprese, il missaggio e il mastering. “Prendere o lasciare!”. Ci trovammo tutti d’accordo. Questo disco è un album rock, un rock massimalista, radicale, senza compromessi. Il messaggio doveva essere chiaro fin dal primo pezzo, e Morte ai Poveri non poteva non essere destinata a divenire il manifesto del nuovo progetto.”

 

Violenza e sopraffazione. Queste le tematiche che attraversano il disco. Perché credi che sia ancora necessario parlarne?

“Perché violenza e sopraffazione sono caratteristiche dei tempi e del mondo in cui viviamo. Non possiamo far finta di niente, e cantar d’altro. Non sarebbe serio.”

 

Credi che la guerra sia solo fatta di armi?

“Evidentemente, no. Tempo fa lessi un provocatorio ma molto stimolante volumetto di quel mattacchione di Slavoj Žižek, La Violenza Invisibile, secondo il quale il conflitto armato non è che una delle manifestazioni possibili della violenza. Ce ne sono perlomeno altre due, quella ‘simbolica’, che si esprime nel discorso pubblico e privato e, ovviamente, nei media, e quella ‘sistemica’, fatta di salari inadeguati e insufficienti, di precarizzazione del lavoro, di disoccupazione, emarginazione, stigmatizzazione. Tutte e tre queste forme di violenza sono funzionali alla conservazione dello stato di cose in cui viviamo.”

 

Il disco si divide idealmente tra una prima parte più massimalista e tumultuosa e una più romantica e malinconica, come chi grida sfogando la sua rabbia e la voglia di farsi sentire, per poi rimanere a nudo con le sue riflessioni. Perché questa scelta?

“Mi sembra sia nell’ordine delle cose. Non c’è soltanto la rabbia nei confronti delle circostanze storiche che puntualmente si verificano e riverificano all’infinito, come rappresentassero un destino ineluttabile. C’è anche la commozione e il rammarico per la nostra impotenza: ci sentiamo inermi di fronte alla macroscopicità delle contraddizioni sociali e politiche, e così spesso ci rifugiamo nel nostro particolare, che è proprio ciò che vuole il sistema capitalistico: fatti gli affari tuoi e camperai cent’anni.”

 

Tutti sappiamo cosa la musica può fare. Ma, secondo te, cosa deve fare la musica, qual è il suo compito?

“Per come la vedo io, la canzone popolare, la musica ‘leggera’, il rock, nel nostro caso, possono contribuire ad una ridefinizione dell’immaginario collettivo, nel segno dei valori democratici, e in quello di un futuro diverso e non impossibile.”

 

Nel nostro sistema scolastico, lo studio della musica e della sua storia è relegato alle scuole secondarie di primo grado, per essere totalmente abbandonato in quelle di secondo grado, quando invece tante altre materie rimangono fondamentali, e giustamente, per il percorso intellettuale e umano della persona. Perché credi che lo studio della musica e soprattutto della sua storia sia relegato a un ruolo marginale in un Paese che ha dato e ancora dà grandi artisti riconosciuti da tutto il panorama musicale?

“L’educazione musicale è sempre stata una cenerentola nel nostro sistema scolastico. Ma non conosco la genesi o gli epifenomeni che ci portano a questa considerazione. Certamente, fa una certa tristezza constatare come la musica sia pressoché ignorata nella scuola italiana.”

 

Mi hanno detto che ti annoi se in un’intervista non si nomina Majakowskij. Vuoi parlarne?

“Ti hanno detto cosí? Non mi sembra di aver mai detto niente del genere. Magari ero sbronzo…”

 

Una nuova esperienza è come ricominciare da un punto zero, tornare bambini per crescere di nuovo sviluppando emozioni, idee, progetti. Come vuole il suo futuro Pierpaolo Capovilla?

“Ho cinquantaquattro anni, e non tornerò mai più bambino.
A una certa età si cambia definitivamente e irrevocabilmente. Posso però dire che sento tutto più urgente, urgente e necessario. Questi due anni di emergenza sanitaria, poi! Due anni rubati alle nostre vite, rendono l’urgenza ancor più significativa.”

 

Alma Marlia

Billy Howerdel “What Normal Was” (Alchemy Recordings, 2022)

Suoni e parole che avvolgono per metterci a nudo

Avete mai pensato a cosa può essere la normalità? Oppure se il concetto di anormalità è assolutamente inesistente e creato dall’uomo stesso per sentirsi in dovere di giudicare il prossimo come meglio crede? Se non lo avete mai fatto prima, potete farlo ora con dieci tracce. Dieci tappe di un percorso verso una musica forte e profonda. Dieci passi in avanti per interrogarsi su ciò che è la normalità o come può apparire guardando attraverso occhi diversi. Di queste suggestioni si compone What Normal Was, per Alchemy Recordings, il debutto da solista di Billy Howerdel polistrumentista e produttore discografico statunitense, fondatore del gruppo alternative metal A Perfect Circle. 

Il progetto, che vede anche la collaborazione di Josh Freese alla batteria, si caratterizza per combinare gli elementi dell’alternative rock con l’industrial rock e il post-punk che richiamano le influenze di gruppi cari a Howerdel come i Depeche Mode e i The Cure creando un’atmosfera sonora densa ma combinata a sfumature più aperte ed elettroniche che già percepiamo in Free and Weightless, brano uscito alcuni mesi fa come singolo. Howerdel si circonda di sfumature elettroniche per sussurrare e poi gridare il desiderio di libertà e leggerezza che prende forma in attimi di sospensione, momenti quasi impercettibili, ma che ti fanno volare via dalla realtà, come aria, senza peso. Howerdel si muove nelle canzoni senza titubanze, attraversando le atmosfere rarefatte di Ani dominate dal synth a quelle più leggere ed evocative di Bring Honor Back Home, dove la tastiera rende il brano etereo e la batteria di Freese richiama all’ordine la struttura. Diventa voce narrante di canzoni che sono combinazioni di conversazioni quotidiane, di una vita “normale”, cioè una vita in cui ci sono cose belle e brutte, giornate buone e meno buone, dove possiamo essere felici ma anche soffrire. Una vita in cui possiamo agire nel modo giusto o sbagliato, oppure combinare entrambe le cose e renderle intense come la melodia di A Beautiful Mistake. 

What Normal Was crea domande e fugge dagli assoluti che solo certe risposte posso dare. Howerdel stesso non aspira al ruolo di vate, ma solo a quello di un musicista che parla attraverso strutture ritmiche e testi precisi per colpire un perbenismo conformista di alcuni dovuto paradossalmente alla mancanza di valori, all’interesse personale, alla superficialità di molti. I brani si alternano tra sonorità tonde e piene ed altre più dure e decise come in Poison Flowers dove il basso arricchisce la ritmica di tonalità gotiche che si intrecciano al synth. Questo non deve far pensare a brani che vogliono ferire, ma solo ad atmosfere che ti prendono e ti chiudono in un guscio che non è fatto per proteggerti, bensì per darti un luogo in cui metterci a nudo, guardare, sentire, forse anche comprendere. Cosa comprendere, però, dipende da voi.  

Questo è un disco che va ascoltato, mentre rimanete in silenzio in attesa di vedere cosa succederà nel vostro viaggio personale. Vi troverete completamente avvolti tra parole e suoni che risvegliano vecchie sensazioni accantonate in chissà quale angolo, oppure nuove e semplicemente pronte, lì, per sorprendervi. Qualcosa che vi farà paura e vi cullerà al tempo stesso, nell’ascolto di un progetto pieno di ottime composizioni sorrette da un’efficace scrittura che non può far altro che farci applaudire questo debutto. 

 

Billy Howerdel

What Normal Was

Alchemy Recordings

 

Alma Marlia

Cris Pinzauti “Moonatica” (self, 2022)

Sotto l’abbraccio etereo di una luna pallida e striature nere e blu, c’è un corpo di donna che galleggia divisa tra cielo e terra, un corpo senza peso, i capelli lunghi trasformati in piante acquatiche. Si tratta solo di un’immagine, eppure ne senti l’acqua fredda che l’accarezza, la voglia di toccarla si fonde al timore di svegliarla dal suo sonno infinito, dal suo essere archetipo di un’umanità dolcemente folle e fatalmente spezzata. Lei è l’Ofelia dell’artista livornese Enrico Guerrini che si staglia sulla copertina di Moonatica il nuovo progetto di Cris Pinzauti, classe 1971, cantautore del panorama underground pop rock fiorentino. Dopo il debutto da solista con Black del 2015, Pinzauti esce ora con il suo secondo lavoro totalmente indipendente da ogni definizione e ogni etichetta per potersi esprimere liberamente, senza sottostare ad alcuna dinamica che non sia quella essenziale della musica.  

Anticipato dai singoli Parafulmine e Non Andar Via, Moonatica evoca nel titolo la pazzia e la volubilità che nel passato erano visti come frutto degli influssi lunari, giocando con l’italiano e l’inglese, lingua d’adozione musicale, per un effetto accattivante. Così come nel titolo, il progetto si compone degli stessi brani cantati nelle due lingue per diventare un viaggio di nove tracce speculari per parlarci di un’umanità spesso difettosa e fragile. Parafulmine è il tormento di chi ha vissuto una storia di amore come un rifugio sicuro contro le tempeste della vita, illudendosi di potersi creare una difesa dove rimanere per sempre. Pinzauti canta con un timbro alto e pulito, l’attacco della canzone è come un grido dell’anima che si confessa a suono di una chitarra elettrica graffiante, mentre il basso avvolge l’ascoltatore in un sottofondo cupo, di battiti, forse passi, oppure entrambe le cose. Il cuore è in gola, oppure se ne va chissà dove, forse verso la versione inglese Ghost che risponde allo spaesamento di chi ha visto il suo parafulmine sparire diventando graffio come la musica e dicendo, senza troppi complimenti, che quando si smette di amare, davanti vediamo solo un fantasma. 

Pinzauti non giudica l’umanità, bensì la osserva per come essa è: chiusa nelle sue paure, cristallizzata dentro labirinti creati dalla mente per intrappolarci in gabbie di paranoici mostri. Una struttura ritmica forte accoglie l’intreccio delle corde sapienti di Giuseppe Scarpato con il kick potente della batteria di Marco Confetti di Non Andar Via/Don’t Walk Away, una voce senza incertezze parla di amori malati e violenti attraverso gli occhi del carnefice, il ritmo martella ogni sbarra di quella ossessione arrabbiata dove la vittima è attirata e sedotta con false promesse. La musica accarezza e insieme colpisce come schiaffi su un volto, le parole vanno oltre l’emozione, arrivano alla mente, e ti chiedi se la vittima è solo una donna abusata nel corpo e nell’anima, oppure se c’è qualcosa di più, forse un mondo che offre ogni giorno seducenti speranze, mentre per ogni delusione si apre lo squarcio profondo in una fiducia bambina dove qualcosa muore per lasciare posto a un estraneo che non sei più tu. Sta a noi decidere se credere a quelle promesse o ribellarci come novelle Ofelie, uomini o donne indistintamente, rischiando anche di essere spezzati pur di non piegarsi. 

Presi da queste emozioni, trovare un luogo sicuro dove vivere una quotidianità felice diventa un imperativo, ma la strada è un vicolo cieco, perché l’uomo è un animale con un destino di dipendenze. Strega/Witch è un incontro di chitarre che circondano le voci di Cris Pinzauti con Eleonora Comemipare che si rincorrono tra parole e vocalizzi di un rapporto da cui puoi solo uscirne spezzato. La variazione ritmica dal pop al rock riproduce i contrasti dell’anima, fino a che la melodia della chitarra acustica svela a sorpresa l’intimità di un animo messo a nudo che parla per essere compreso, dal pubblico, ma forse, soprattutto, dal suo gänger.  Pinzauti ci offre una nuova definizione di uomo più vicina all’idea di pluralità di modi di agire, di pensare, di “funzionare”, o più semplicemente di essere. Il musicista unisce la sua voce a quella più bassa e decisa del fratello Marzio Pinzauti in Normalità/Come Back To Me, dove la diversità dei timbri diventa un interrogativo aperto a chi vuole rispondere: se le differenze sono inevitabili e fanno parte dell’essere umano perché ci ostiniamo a inseguire il mito della normalità quando alla fine la realtà è fatta solo di contrasti, disarmonie, di “Catrame che cade sulle fragole”? 

Moonatica è un progetto a volte scomodo, anche se non vuole mettere alle corde nessuno tranne il nostro coraggio nell’affrontare chi siamo quando veniamo messi alla prova con la realtà. Non usa uno sguardo compassionevole perché non vuole commiserare, né altero perché non guarda dalla distanza di uno scranno. Vuole semplicemente descrivere senza avvalersi di contorti synth od inutili distorsioni per parlare con suoni schietti, melodie strutturate da strumenti chiari e puliti che possano arrivare a chi le ascolta così come lo fanno le parole. Parole pronunciate da una voce ben modulata che canta l’uomo come esso è, né angelo né demonio. Solo un essere umano, con ombre e luci. Come tutti. 

 

Cris Pinzauti

Moonatica

self

 

Alma Marlia

Tre Passi Avanti @ Anfiteatro Ernesto De Pascale

Il fatto è che te ne stai in un angolo. No, non in quell’angolo a cui una pandemia ti aveva relegato soffocando ogni gioia, ogni abbraccio, ogni sorriso. No, è l’angolo che ti cerchi per guardare senza essere osservato, per essere travolto dai suoni e dalle emozioni che pensavi non avresti provato più. Ma nell’angolo non ci stai per molto, perché la musica ti trascina dentro i testi che riaffiorano alla mente, mentre balli anche se non tieni il tempo, ma muoversi è ormai diventato l’imperativo di ogni canzone che riecheggia intorno a te. 

Questo è quello che è successo all’Anfiteatro Ernesto De Pascale situato nel Parco delle Cascine di Firenze, durante la serata dedicata a Erriquez, voce leader della Bandabardò scomparso il 14 febbraio 2021. Il concerto, che anticipa e inaugura la rassegna dell’Estate Fiorentina, è stato intitolato Tre Passi Avanti… come l’album che il gruppo fece uscire nel 2004 e per l’occasione cantata da Cisco, ormai nuova voce della Banda. Se qualcuno avesse mai dubitato su questa collaborazione, vi assicuro che Cisco ha fugato ogni dubbio, passando a pieni voti. Il suo timbro di voce così particolare e che nel ricordo di molti è legato ai Modena City Ramblers, dava al brano quella carica rivoluzionaria che di ogni parola fa una spinta a ribaltare bigottismi e conformismi. Diverso da Erriquez, eppure con la stessa indomita energia. 

Su un palco carico di emozioni e di sorrisi, si sono avvicendati vari artisti della canzone e dello spettacolo italiano, ognuno cantando una canzone con la Bandabardò, alcuni intrattenendoci con qualche intermezzo comico come Giobbe Covatta ed Enzo Iachetti, altri facendoci pensare come Jacopo Fo e Saverio Tommasi. Tra mani che si alzavano e corpi che ballavano, si sono levate le voci di Carmen Consoli, Max Gazzè, Mirkoeilcane, Erica Mou, Paola Turci, Piero Pelù, Ginevra Di Marco, Folcast, Gabriella Martinelli, e vorrei dirvi che mi ricordo l’ordine esatto, ma non è così, tanto la sensazione di festa generale prendeva tutti, e intorno era un tripudio di canzoni cantante da ogni generazione, dal bambino di otto anni all’uomo di ottanta, passando da quelle che con la banda hanno vissuto i primi amori e le prime personali rivoluzioni. Sensazioni bellissime che rimangono sulla pelle per non andarsene più mentre Max Gazzè rievoca i sette re, muoversi come Gabriella Martinelli mentre sulle labbra ritornano le parole di Le Ballerine, essere affascinati da Ginevra di Marco che concede ad un pubblico incantato anche Annarella dei CCCP – Fedeli alla linea. Nell’incanto, poi, l’esplosione: le energie della Bandabardò si incontrano con quelle dei Negrita in Ho la Testa, e il pubblico perde la sua letteralmente mentre Pau e Finaz giocano con testo e suoni insieme ai propri gruppi per un effetto roboante. 

Una serata piena di momenti bellissimi, ma anche di estrema commozione e nostalgia quando sul palco salgono le nuove generazioni, cioè Jacopo Finazzo, filgio di Finaz, e Rocco Greppi, figlio di Erriquez, che insieme alla Banda intonano Sogni Grandiosi. Vedendo Rocco Greppi il cuore rimane un po’ in gola, tanta è la somiglianza col padre, e la mente ritorna verso il ricordo dell’artista mattatore, ma anche, e soprattutto per chi è di Firenze, di un uomo gentile, un antidivo nonostante ovunque andasse fosse guardato con ammirazione. Il ricordo si trasforma in lacrima, leggera, e si perde nell’immagine del tramonto più rosso e più bello con cui Firenze salutò per l’ultima volta Erriquez che l’aveva amata tanto. Eppure, mentre Rocco grida “La poesia!” e l’aria si carica di tutta la forza delle parole che suo padre amava, ti rendi conto che no, non se ne è andato, perché è lì dentro ciò che ha creato e ha trasmesso a chi con il corpo o con il pensiero è lì con noi a festeggiarlo fino alla fine, nelle mani che battono il ritmo di Se mi Rilasso Collasso con cui si chiude il concerto. Avrebbe mai potuto chiudersi diversamente? 

Il 27 maggio 2022 è una data che nessuno più potrà scordare; la data di una rinascita, di un nuovo inizio, quello della Bandabarò con Cisco, quello dei concerti veri, vissuti nel loro calore, odore, sudore, quello delle melodie non più soffocate da mascherine, dei visi che vedi interamente mentre i sorrisi si alternano a pezzi di canzoni. Uno sguardo verso il futuro senza scordare ciò che abbiamo passato, chi è rimasto indietro, chi abbiamo perso, come Erriquez e tanti altri meno famosi, ma non meno importanti per chi li ha amati. Persone che ritroveremo masticando le parole di qualche canzone e di ogni festa che faremo saranno protagoniste della felicità nel nostro cuore. 

 

Alma Marlia 

España Circo Este “Ushuaia” (Garrincha Dischi, 2022)

Una vera boccata di allegria in un mondo che si prende troppo sul serio

In Lezioni Americane, Italo Calvino sosteneva che la vita andava presa con leggerezza “ché leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”. In questa frase, troviamo così tanti significati che la mente corre alla ricerca di immagini da associare, concetti astratti da paragonare eppure basterebbe ascoltare Ushuaia, il nuovo progetto degli España Circo Este pubblicato da Garrincha Dischi. Il gruppo è formato Marcelo (voce e chitarra), Jimmy (batteria, percussioni, voce), Ponz (basso e voce) e Matteo (fisarmonica e violino) ed è un instancabile quartetto consolidato da un’intensa attività live e in studio. Si definiscono Tango-Punk, anche se le influenze del rock, del folk ma soprattutto del reggae sono molto chiare. 

Ushuaia è un lavoro composto da otto tracce allegre ed accattivanti che ti fanno ballare dalla prima nota all’ultimo accordo di chitarra. Tra ukulele e qualche distorsione, Amico è la voglia di trovare un complice con cui vivere la vita con leggerezza che è solo spianarsi la strada per la felicità, cercare di vedere il bello della vita, riuscire a confinare i problemi in un angolo, non farsi travolgere dalla “paura del futuro”. La voce di Marcelo prende a braccetto le note di ogni brano, gioca con il reggae di La Fine del Mondo Sei Te, per un viaggio che porta verso l’amore e l’arte, dove una canzone con tre semplici parole è tutto ciò che serve per dire quello che si ha dentro al cuore. E se la musica salva dalla timidezza, in La Mia Chitarra Ti Proteggerà, la sei corde da strumento musicale diventa uno scudo di protezione dal turbinio del mondo, ma non della musica perché il quartetto non risparmia ritmo ed energia in ogni nota. 

I testi che compongono i progetti sono semplici, diretti, quasi piccole storie fatte da ragazzi che non hanno voglia di complicare il pane, il sole e soprattutto il prosecco, ma senza per questo essere banali, né superficiali. Hanno solo fatta propria la lezione che la musica potrà non risolvere i problemi, ma può permetterti di ballarci sopra, e affrontarli senza dramma, anche se con la giusta serietà o la calibrata ironia che pervadono i loro brani. E questa lezione loro la trasformano in piena energia sonora che ti trascina con sé, senza chiedere permesso, perché la voglia di vivere non ha bisogno di bussare. 

Il lavoro degli España Circo Este non è un progetto di ampio respiro, è una vera e propria boccata di ossigeno e di allegria in un mondo, quello attuale, che spesso si prende troppo seriamente al limite della follia. Non vuole essere una raccolta di frasi da guru da citare sotto qualche foto ammiccante, è solo ciò che mostra di sé: un disco appassionato e appassionante con un sound ricercato ma talmente fresco che arriva a tutti. Un progetto che esprime un mood intenso e coinvolgente con un solo difetto: non basta mai, vorresti che continuassero a suonare, vorresti che fossero i tuoi pifferai di Hamelin per seguirli ovunque ti portino, basta fare il primo ascolto. 

 

España Circo Este 

Ushuaia

Garrincha Dischi

 

Alma Marlia

Firenze Suona Contest 2022

Spesso si dice che nel mondo della musica c’è molta competizione. La frase la senti dire talmente spesso, che alla fine pensi davvero che sia vero. Ma quando quella che credevi una certezza viene meno, non puoi fare altro che essere felice. Questo è quello che è successo durante le semifinali del Firenze Suona Contest che si sono tenute il 13 e il 14 Maggio. Promosso dall’omonima associazione fondata da Elisa Giobbi e Sauro Chellini, il concorso per giovani musicisti fino a 35 anni e aperto a tutti i generi musicali si trova quest’anno alla sua seconda edizione, con una giuria di esperti capitanata da Federico “Ghigo” Renzulli, chitarrista fondatore dei Litfiba.

Alle semifinali sono giunti 12 progetti musicali selezionati tra le oltre 150 proposte iniziali di gruppi e solisti provenienti da tutta la penisola e si è svolta al Caffè Letterario Le Murate della città di Firenze. Nella prima serata ci sono state le performance di Today’s Inmates, Pandem, Draven Band, Irene Buselli, Bernardo Sommani, Le Canzoni Giuste, mentre nella seconda si sono esibiti Ercta Collective, Wisdom Tree, Cristina Cafiero, The Black Armadillos, Libero, Biopsy O Boutique.
Il locale ci ha accolti in un abbraccio caldo, quasi familiare, dolce, dove niente faceva prevedere il terremoto sonoro ed emotivo che ci avrebbe scosso più tardi. Sul palco si sono avvicendanti gruppi e solisti pieni di energia e personalità. La musica spaziava dal rock ruvido e oscuro a canzoni che avevano i colori del golfo di Napoli, melodie che fondevano il classico con il moderno, sfumature arabe, testi che parlavano di donne sottili, eppure così forti e spesse. Era come essere proiettati nel vortice stesso del suono, dove le note e le parole si uniscono per mostrarti tutto ciò di cui possono essere capaci attraverso gli strumenti, le voci e l’energia di chi saliva sul palco e dava tutto se stesso per un amore assoluto: quello per la musica.

Una serata a tratti surreale, dove lo spettacolo più bello erano loro, i musicisti: tutti erano lì per vivere quel momento al massimo, ma soprattutto senza l’ombra oscura della rivalità. Questo non vuol dire che non fossero consapevoli della competizione, perché se li guardavi vedevi nel loro sguardo la voglia di vincere, ma senza annientare, e nei volti era chiara la consapevolezza che l’unico prezzo che erano disposti a pagare sarebbe stato quello della propria musica. In questa atmosfera di gara e di passione, chi era in difficoltà si è visto aiutare da chi non aveva mai incontrato prima, musicisti parimenti validi si incoraggiavano a vicenda augurando la vittoria all’altro, ma non per un finto dovere morale, bensì perché credevano in loro stessi e allo stesso tempo negli altri. C’era un senso di comunità e solidarietà che pervadeva anche il pubblico, ridevi e fremevi con loro, ti emozionavi e nel frattempo le performance erano piene di energia e voglia di essere suono, melodia, di esistere nonostante un mondo che sembra andare sempre al contrario. Non era solo un contest, era la dimostrazione che quello che la musica può fare di bello e intenso dovremmo lasciarglielo fare in piena libertà e davvero forse un giorno andrà tutto bene. 

Ogni favola, però, ha la sua fine. Ogni semifinale, chi passerà e chi no. Il lavoro della giuria non è stato semplice, data l’alta qualità delle esibizioni, lo vedevi dai loro sguardi. Alla fine di ogni serata sono stati selezionati i finalisti e sul palco dell’Anfiteatro delle Cascine di Firenze il prossimo 12 Giugno saliranno Today’s Inmates, Pandem, Draven Band, Ercta Collective, Libero, Biopsy O Boutique. Tra la gioia per chi diventerà protagonista di un’altra serata di pura musica ed energia e la nostalgia per chi se ne sarebbe andato, riecheggiava nell’aria il ricordo di “Valeriooooo”, il nome di un passato fatto di gioventù e concerti, di voglia di stare insieme e condividere tanta bella musica, la stessa rivissuta per due serate indimenticabili.

 

Alma Marlia 

Foto di copertina: Cauê Pintaúdi Pascholati

Casa del Vento “Alle Corde” (New Model Label, 2022)

La Casa del Vento nasce nella provincia di Arezzo negli anni ’90 da un’idea dei cugini Luca e Sauro Lanzi insieme all’amico Francesco “Fry”Moneti, violino anche dei Modena City Ramblers. Inizialmente, il gruppo si esibisce in concerti di musica Irish folk, ma con il passare degli anni le sonorità diventano più rock, e iniziano le collaborazioni con artisti nazionali e internazionali, tra cui Patti Smith, spesso con loro sul palco. La formazione negli anni si è ingrandita ed è oggi composta da Luca Lanzi, voce e corde, Sauro Lanzi, fiati, tastiere e fisarmonica, Massimiliano Gregorio ai bassi, Fabrizio Morganti alla batteria e alle percussioni e Francesco “Fry” Moneti, che cede l’archetto ad Andreas Petermann, per dedicarsi alle corde della chitarra elettrica, del mandolino, del banjo e del bouzouki.  Con il nuovo progetto Alle Corde, pubblicato da New Model Label, la Casa del Vento festeggia i trent’anni di carriera fatta di ben tredici pubblicazioni tra album, EP, raccolte live e di impegno sociale per dare voce a chi è spesso relegato ai margini dal destino o dalla società. 

Alle Corde è la title track che apre l’album composto da dieci tracce di suggestioni acustiche compenetrate da sonorità rock e richiami etnici, e che ha anticipato l’uscita del progetto stesso con un video girato a Livorno nella palestra Spes Fortitude di “Lefty” Lenny Bottai. Il brano si ispira al mondo della boxe, uno sport che dà una nuova possibilità a tutti quelli che vogliono prendersela, ma è bene ricordarsi che non si diventa campioni per caso. Non è un destino. È lavoro metodico fatto di sacrificio, privazioni e rinunce. Allenamenti fisici massacranti, sessioni di guanti estenuanti. Il ritmo forte e preciso riproduce il movimento del pugile sul ring, il pre-chorus evoca il conteggio dell’arbitro “one, two, three..”, parole che ti entrano in testa come un mantra mentre la chitarra elettrica incalza e la voce di Luca Lanzi con il featuring di Mike Rivkees dei The Rumjacks ti gridano di risollevarti, perché la vita, come la boxe, è uno sport meraviglioso, travolgente, epico, ma che non fa sconti, non è affatto indulgente. Non distrarti, perché sul ring come nella vita, i colpi arrivano e se vai al tappeto, rialzarti per continuare a lottare o abbandonare tutto dipende solo da te.

Il suono gentile della chitarra acustica è invece protagonista di Il pane e le spine, una ballata che Luca Lanzi dedica alla storia di sua madre bambina al tempo della Seconda Guerra Mondiale. Lanzi trasforma in melodia lo sguardo di una bambina che si muove in una favola dolceamara ambientata in un tempo fatto di fame e paura, dove la sofferenza sembrava non finire mai perché “Per il pane che non hai, quante spine troverai”. Il violino di Petermann crea suggestioni sonore che nella mente evocano immagini di film in bianco e nero con qualche timida traccia di colore, perché in tutto questo dolore c’è la speranza che “la guerra finirà e tornerai a sognare”. In qualche modo la musica ti trascina lì, e vorresti accarezzarla quella bambina, portarla via, come vorresti portare via la piccola Anna Pardini, morta a soli venti giorni, rievocata in Girotondo a Sant’Anna, ispirata alla strage nazi-fascista a Sant’Anna di Stazzema, un piccolo paesino della provincia di Lucca, in Toscana, dove furono uccise 560 persone. In entrambi i brani, la voce di Lanzi è pulita, decisa, esprime il coinvolgimento per ciò che canta ma trasmette anche il senso di ineluttabilità del passato che si fonde con quella grinta di chi vuole essere ascoltato perché tutto ciò non accada più.

La canzone Mare di Mezzo, uscita come singolo nel 2020, è invece più legata all’attualità, perché ispirata all’omonima chitarra creata dal liutaio cortonese Giulio Carlo Vecchini, una bellezza di corde e colori vivi che appartengono alle assi dei legni dei barconi arrivati a Lampedusa, mezzi di fortuna dove si nascondono storie fatte di sfumature cupe. La Casa del Vento ha voluto darle voce raccontando di chi affronta un viaggio rischioso e disperato nel Mediterraneo, di chi ha perso e continua a perdere la vita. Il ritmo della canzone è lento, ma molto deciso, come il frangersi delle onde sulla prua di una barca, mentre la melodia accoglie le parole di un padre che cerca di rassicurare il proprio figlio prima di affrontare un viaggio fatto di immense speranze e altrettanti pericoli, un salto verso l’ignoto dove “Se perdo la tua mano, qualcuno ti troverà”. In quel vago “qualcuno” si racchiudono la paura e l’amarezza di chi ama ma è consapevole che non potrà proteggere per sempre ed è perciò costretto ad affidare ciò che ha di più caro al destino. Note e parole sono colpi allo stomaco, al cuore, alla testa. Fa male, ma proprio per questo il brano è bello, perché ti scuote, ti fa piangere, perché capisci che l’intento della Casa del Vento e di Mare di Mezzo è quello di suscitare riflessioni di umanità verso tutte le persone costrette a lasciare il proprio paese, e ci riescono, eccome se ci riescono. 

Alle Corde è un progetto curato dove si riconosce l’esperienza di chi la musica la vive da anni e la unisce all’impegno sociale per un connubio che ha fatto scaturire canzoni a volte dure, ma con la magia della poesia. In un panorama musicale diviso tra progressisti e conservatori, nostalgici e futuristi, nichilisti e decadenti, la Casa del Vento vuole andare avanti stando ben saldi in una posizione chiara, senza possibilità di fraintendimento. Suonano perché la musica è la casa che abitano, ma suonano soprattutto per essere ascoltati, per sconquassare le certezze e risvegliare dal torpore un mondo adagiato nel proprio orticello, anche a costo di diventare scomodi. Quando li ascolti, capisci che da quella posizione non si smuoveranno mai. Se ad altri non piace, saranno loro a farsi un po’ più in là.

 

Casa del Vento

Alle Corde

New Model Label

 

Alma Marlia

Alice Robber “Dancing Sadness” (Radar label & management, 2022)

Musica dance per esorcizzare paure e incertezze

Alice Robber, al secolo Pistoiese, è una giovane cantautrice classe 1997, nata a Roma, cresciuta tra set e teatri, ma sempre affascinata dal mondo della musica di cui ha deciso di essere non più spettatrice bensì protagonista. Il suo nome d’arte si ispira a Robbers, brano de The 1975, gruppo pop, new wave e alternative rock britannico e i suoi singoli spaziano dall’indie al pop, con chiari accenti dance. Date le premesse, il suo primo EP d’esordio non poteva altro che chiamarsi Dancing Sadness, pubblicato dalla RADAR label & management.

Anticipato dai singoli Addiction e Keep on Dancing, l’EP si compone di sei tracce cantate completamente in inglese, dove l’artista sprigiona una potenza vocale che tradisce i grandi occhi azzurri, il corpo esile e i colori colori pastello che escono dalle fotografie. Nonostante l’aspetto etereo e delicato, Alice Robber è una donna decisa che ha ben chiaro cosa fare;The Life We Could Live apre il progetto con un imperativo di prestare attenzione a ciò che verrà dopo perché la registrazione è stata fatta per chi ascolterà. A chi si rivolga esattamente non lo sappiamo, ci chiediamo se sia solo un espediente narrativo oppure se sia un monito per il pubblico, ma quello che è sicuro è che lei sa cosa vuole, e sa come ottenerlo, prendendo una rivincita generazionale su tutti quelli che nei giovani vedono menefreghismo ed incertezze. 

La Robber non chiede sconti e non ne fa, eppure nella sua interpretazione, la voce è sempre vellutata e si fonde completamente con il basso e l’uso morbido del synth che caratterizza i brani, soprattutto Addiction, che parla di dipendenze affettive, la ricerca di costanti affermazioni per sentirsi abbastanza, della capacità di esistere solo se gli altri ti vedono. Nonostante l’approccio leggero, la canzone è tutt’altro che superficiale, perché un’esortazione a trovare la propria strada e credere in noi stessi ogni giorno che passa. Anche Keep on Dancing è un inno alla vita, dove il synth e il basso dominano per aumentare l’effetto loop del titolo ripetuto in maniera quasi ossessiva nel ritornello. La voce della Robber ci incita a non arrendersi quando la vita sembra non andare per il verso giusto, e anche se delle versioni di noi stessi non sempre scegliamo quella più adatta ad affrontare un momento difficile, non per questo dobbiamo gettare la spugna. Quello che conta è ballare, metafora del continuare ad andare avanti, per sconfiggere quei mostri dell’anima che possono avere anche il nostro volto. 

Non storcete il naso alla musica dance, perché il ballo è sempre stato compagno dell’uomo per esorcizzare paure e malattie, sciamanicamente usato per vedere oltre la realtà. Come un pifferaio magico, Alice Robber ci invita a seguirla prima con le note e poi con le parole, per liberarci da qualunque peso portiamo addosso, basta muoversi, uscire dalle inibizioni di un corpo e di un’anima chiusi al mondo. Lo fa con melodie non complicate, ma non sottovalutatela, perché non si tratta di un’artista arrivata che gira su se stessa per dire qualcosa che ci ha detto già. La Robber è un’artista che si evolve e ha davanti a sé un percorso fatto di stimoli e suggestioni da seguire, provare e condividere con il suo pubblico. Mentre attendiamo ciò che il futuro riserva a lei e a noi, non c’è niente di meglio che ingannare l’attesa ballando. 

 

Alice Robber

Dancing Sadness

RADAR label & management

 

Alma Marlia

Dove sono finiti tutti? Lo chiediamo a The Bastard Sons of Dioniso

The Bastard Sons of Dioniso sono una band della Valsugana che crede nel rock cantato in italiano, che non si adatta alle mode per seguire un proprio percorso, ovunque esso porti, anche se preferiscono finire sul palco. Credono che un disco non suonato dal vivo sia solo un disco a metà, ed è per questo che attendiamo di assistere a un loro live per ascoltare dal vivo il loro nuovo progetto Dove Sono Finiti Tutti?, ma, nel frattempo, li abbiamo intervistati per saperne di più.

 

Sicuramente è una domanda che vi hanno fatto molte volte, ma i nostri lettori sono curiosi di sapere come vi siete conosciuti e come nasce il nome della vostra band

“Noi ci siamo conosciuti alle scuole superiori. La scelta della nostra specializzazione ha fatto si che ci trovassimo in classe assieme. Conoscendoci abbiamo scoperto di avere più passioni in comune: la voglia di fare musica nostra, e la voglia di far festa. Musica e festa vanno a braccetto. Così abbiamo continuato ad espandere il nostro orizzonte verso posti sempre più lontani. Il nome nasce da un idea del gruppo che Jacopo aveva in precedenza. Un nome che rappresentava in pieno la dualità della nostra comunicazione. Una più diretta ed una più profonda dove lasciare lo spazio all’ascoltatore per indagare.”

 

Fare rock cantando in italiano è sempre un argomento divisivo, soprattutto per chi considera la nostra lingua non altrettanto agile ed efficace come l’inglese per questo genere musicale: perché avete scelto di seguire questo percorso? 

“Abbiamo scelto di cantare in italiano perché è la nostra lingua. Con questa possiamo esprimerci con migliore sensibilità e consapevolezza. L’italiano è una lingua adatta alla musica e questa ci regala sempre nuove possibilità di interpretazione che con l’inglese saremmo impossibilitati a manipolare per nostra ignoranza. Ci sembra che la concezione del Rock in inglese sia un retaggio della guerra fredda, della società nella quale abbiamo vissuto, volenti o nolenti, nella nostra gioventù.”

 

Rispetto a Cambogia e altri album precedenti, il vostro nuovo progetto Dove Sono Finiti Tutti? ha un titolo che racchiude un po’ la sensazione di spaesamento dell’essere umano che caratterizza questo periodo storico di pandemia e guerre. Cosa vi ispirato, esattamente?

“La domanda ci è sorta spontanea. Con una nota di autoironia che non poteva mancare. La risposta la troveremo nei Live. Non vedevamo l’ora di ricominciare e di darci una risposta.”

 

Sirene oppure Tali e Squali sono canzoni dove affermate con spietata schiettezza la responsabilità dell’uomo nel decidere il suo destino. Potete raccontarci di più sulle canzoni che compongono l’album e su come sono nate?

“Ogni canzone ha una genesi che differisce dalle altre. Ma lo sguardo verso noi stessi è il fil rouge del disco. Non per metterci in discussione, ma semplicemente per capirci. Ti Piace o No? è tratta da una nostra idea musicale dei primi 2000. Restiamo Umani invece è la canzone più giovane. Abbiamo collaborato con diversi autori che ci hanno affiancato nel lavoro di scrittura negli ultimi anni: Antonio Fiabane, Pietro Fiabane, Emanuele Lapiana, Oscar De Bertoldi. Sono presenti sul dico vari musicisti: Clemente Ferrari (synth, hammond, sequencer), Tommaso Pedrinolli (percussioni), Luca Frisanco (flicorno), Massimo Costa (tromba), Alessandro Serioli (synth, tastiere) che si sono innesti nel nostro sound, approfittando del tempo bonus dato dallo stop dei concerti nell’ultimo (anno, NdR), ed hanno saputo giocare con la dinamica di brano in brano.”

 

the bastard sons of dioniso interview

 

Restiamo Umani ha un titolo che può essere letto in più modi: come un imperativo necessario in questo momento storico, un appello a riscoprire la nostra umanità oppure la constatazione che siamo semplicemente esseri umani con i nostri pregi e difetti. Quale delle tre ha ispirato la canzone?

“Tutte. Noi non abbiamo la pretesa di farci capire. Il gioco è lasciare aperte più letture possibili e, in base alla singolarità dell’esperienza umana, l’ascoltatore la può fare sua come meglio crede. Noi esseri umani abbiamo la presunzione di poterci comprendere con il linguaggio, ma per ognuno ogni parola evoca sentimenti differenti.”

 

Se poteste scegliere di creare un progetto con un artista, nazionale o internazionale, con chi vi piacerebbe collaborare? 

“Le nostre collaborazioni nascono dall’amicizia. Solamente le esperienze ed il percorso che faremo potranno dirci quali saranno le future collaborazioni. Stimiamo artisti italiani ed esteri ma da li a pensare di collaborare la distanza è lunga, un po’ per timidezza ed un po’ per l’indole di volerci sempre arrangiare.”

 

Siete un trio, siete in attività da diciannove anni, avete pubblicato sette album e avete conquistato un secondo posto a X Factor 2009, oltre ad avere tenuto svariati concerti in tutta la penisola. I vostri numeri ci sono e mostrano l’esperienza maturata in questi anni. Cosa consigliereste a un giovane artista che si affaccia nel panorama musicale contemporaneo in fase di cambiamento?

“Il primo consiglio è di trovarsi dei buoni amici. Fare musica significa condividere una passione che ti porta a trovare il lato migliore dell’uomo, quello legato al divertimento ed allo stare assieme, alla casualità del percorso in questo presente incerto. Il secondo consiglio è di divertirsi.”

 

Progetti per il futuro?

“Per ora la fase progettuale lascerà spazio al nostro piacere più grande, il live. Ma non possiamo negare che ci siano già molte canzoni che non aspettano altro che il momento giusto per poter vedere la luce.”

 

Grazie a The Bastard Sons of Dioniso e a Big Time per la disponibilità.

 

Alma Marlia
Foto S. Sadocco e S. Sassudelli

Cris Pinzauti @ Hard Rock Cafè Firenze

Quando il Gambrinus chiuse, per la città di Firenze fu un colpo dritto al cuore. Cinema e caffè del centro storico, il Gambrinus era rimasto nella memoria cittadina per alcuni film-cult di Francesco Nuti girati nel seminterrato dove si trovava la sala biliardo. A causa dell’abbandono crescente, sembrava destinato a rimanere un vuoto simulacro della cultura fiorentina, fino a che, poco più di dieci anni fa, diventò parte della catena Hard Rock Cafè. Trasformato in una sala per promuovere concerti live per un pubblico locale e internazionale, la sua programmazione dà sempre nuovi stimoli a un fermento culturale underground che ora come non mai ha voglia di esistere, come la presentazione in anteprima di Moonatica, ultimo progetto di Cris Pinzauti, musicista fiorentino classe ’71 che si muove nelle correnti indipendenti del pop e del rock. 

L’Hard Rock Cafè ci accoglie in una struttura completamente rivoluzionata, unita a particolari interni originali, che fondono il ricordo di un passato alla voglia di guardare verso il futuro. Tra sorrisi e sguardi incuriositi, Cris Pinzauti sale sul palco accompagnato dalla sola chitarra acustica e suona Hellbound Train, tratto dall’album Black del 2015.  Una canzone che parla di un amore finito dove il fuoco vivo fino al giorno prima lascia il posto a una disarmante estraneità. Sulle ultime note del brano, a lui si uniscono i musicisti dell’underground fiorentino che hanno collaborato al nuovo progetto: Matteo Montuschi e Giuseppe Scarpato alla chitarra elettrica, Marzio Pinzauti al basso, Dado Pecchioli alla batteria, Federico Sagona alle tastiere, Eleonora Garella ai cori. Il live prende vita in una trama pop e rock dove si alternano brani del nuovo album a vecchi successi e omaggi ad artisti nazionali e internazionali che hanno segnato la formazione di Pinzauti. La sua interpretazione di Shock the Monkey di Peter Gabriel scalda la platea e non fa provare nostalgia dell’originale. 

Il pubblico ancora non conosce Non Andar Via, Giuda, Normalità, Parafulmine, Strega e tutte le altre canzoni del nuovo album, eppure diventa parte pulsante di canti e ritornelli come se le avesse sentite da sempre, perché Moonatica racconta di noi, di ogni essere umano catturato nelle sue fragilità, sbagli ed ossessioni liberando grintosi riff di chitarra elettrica, passaggi vocali graffianti, potenti fraseggi del basso. L’esecuzione è impeccabile, ma è la complicità che c’è sul palco a riempire la sala di una potenza inaspettata. Anche se Cris Pinzauti è la voce leader, sono tanti i momenti corali dove gli artisti abbandonano ogni individualismo per far parte di un progetto unico che si chiama musica, quella che non chiede permesso per entrarti nella pelle, negli occhi e nel cuore e abbattere ogni muro per dare vita al dialogo.

La serata finisce e i musicisti si concedono a un pubblico emozionato. Sul palco vuoto, gli strumenti sanno ancora dell’energia che c’era solo qualche minuto prima. Dentro di te, ringrazi chi ancora crede nella musica originale e la fa, la propone, la ospita, la promuove. Chi va in direzione ostinata e contraria perché il vento cambi e torni a favore dell’arte. Chi fa di tutto perché quel messaggio esca da quelle stanze, oltrepassi quelle porte, per diffondersi tra le strade bagnate dalla pioggia di una città che dorme e sogna un futuro migliore distante solo una nota. 

 

Alma Marlia

Foto di copertina: Sabrina Vivoli

Patrick Watson “Better in the Shade” (Secret City Records, 2022)

La colonna sonora per esorcizzare chi siamo quando proviamo le nostre emozioni

Cosa hanno in comune Grey’s Anatomy, This is Us, The Walking Dead, The Blacklist, The F Word e American Teen? Sono serie tv, direte. Effettivamente è vero, ma non è solo questo che le accomuna: in vari episodi troviamo inserite alcune canzoni di Patrick Watson, cantautore canadese che alterna la creazione di album alla composizione di colonne sonore. Il suo sound è un abbraccio di indie folk e la musica classica, con una capacità di aprirsi a sonorità più elettroniche per coglierle e farle proprie. Già presente nel panorama discografico con sei album, esce con il nuovo progetto Better in the Shade per la Secret City Records, con la storica collaborazione di Mishka Stein, anticipato nei mesi precedenti dal singolo Height of the Feeling.

L’album si compone di sette tracce tra cui una title track in apertura con un pianoforte delicato che aumenta la sensazione di morbidezza della voce di Watson, racchiusa in un canto sussurrato a chi ha paura del buio, qualunque sia questa oscurità, che sia fuori o dentro di noi. Non dobbiamo essere coraggiosi a tutti i costi, ma non per questo siamo deboli: quando le nostre ombre e le nostre fragilità ci seguono, se ascoltiamo le voci intorno a noi, sapremo su chi contare. Un brano dolce, ma con una forte carica emotiva che colpisce senza aggressività, attraverso parole ben scelte e l’uso di un synth con sfumature sonore eteree che si muovono nella coscienza di un ascoltatore catturato in una bolla di un momento di speranza che non vorremmo mai interrompere. 

Better in the Shade parla all’ascoltatore allontanandone la corazza, per fargli volgere lo sguardo alle emozioni talmente belle da intimorirci. Tra queste, più grande fragilità umana è la paura dell’amore e Watson ce ne parla duettando con una voce femminile in Height of the Feeling. Il sentimento è un calore estremo al quale l’uomo cerca di opporsi allontanandolo con freddezza, negandolo chiudendo gli occhi, ma l’intimità non deve spaventare, perché è lo strumento con cui possiamo trovare il nostro posto in un mondo che ci disorienta. Le voci si levano sulla struttura sonora del synth per fondersi in un unisono dove ogni differenza si annulla, perché la paura di amare non ha colore né età, ma soprattutto non ha genere. Se guardiamo bene l’altro, percepiremo le nostre stesse incertezze che supereremo solo accogliendo ciò che proviamo e ciò che prova chi è di fronte a noi. 

Il pianoforte torna protagonista in Ode to Vivian, una traccia strumentale con un suono avvolgente per aprirci ad infinti orizzonti dove la mente fugge lontana per qualche istante, ma non troppo a lungo, solo quel tanto che basta per sgombrare la mente da ogni pensiero. La sequenza musicale è morbida e trascende le parole perché siano solo le note a parlarci, sedurci e cullarci fino a che non ci perdiamo completamente in noi stessi. La sensazione è quella che si ha quando si attraversa qualcosa a occhi chiusi, la nostra pelle percepisce una sensazione gradevole anche se non identifica cos’è, e ti chiedi se la musica si possa davvero attraversare così. Le domande che ti poni svaniscono piano piano quando le note di Star scivolano addosso e l’ampio uso dell’elettronica crea un’atmosfera surreale mentre un canto evocativo ci conduce in uno spazio siderale dove la mente lascia il posto alle sensazioni. 

Se volete brani che vi parlino del bianco e del nero del mondo con frasi da citare sui social, rivolgetevi ad altro. Better in the Shade non dà soluzioni perché preferisce le sfumature delle mille sensazioni che ci rendono così incerti e così umani. È la colonna sonora ideale per accogliere nelle sue note attimi di complicità con chi amate o semplicemente con voi stessi quando la musica è l’unica compagnia che desiderate. Patrick Watson non entrerà a gamba tesa nei vostri pensieri, né strapazzerà le vostre emozioni, ma vi colpirà comunque con intensità mentre guardate voi stessi in quegli specchi intangibili che abbiamo dentro, o solo mentre chiudiamo gli occhi un secondo per prendere una pausa dal mondo e volerci un po’ più bene per come siamo, fossimo pure dei notevoli disastri. 

 

Patrick Watson

Better in the Shade

Secret City Records

 

Alma Marlia

The Bastard Sons of Dioniso “Dove Sono Finiti Tutti?” (Fiabamusic, 2022)

Un rock onesto per chi ti dice in faccia ciò che pensa

L’espressione “è un rock onesto” mi ha incuriosita fin dalla prima volta in cui l’ho sentita, e mi sono spesso chiesta se, durante un ascolto, avrei potuto riconoscerlo. Negli anni, mi è capitato non solo di riconoscerlo, ma anche di apprezzarlo in ogni progetto in cui lo abbia trovato, e il nuovo album dei The Bastard Sons of Dioniso è tra questi. Con diciannove anni di attività alle spalle, sette album e un EP all’attivo, a cui si aggiunge un secondo posto a X Factor 2009, oltre a un’infinità di concerti in tutta Italia, la band composta da Jacopo Broseghini, Federico Sassudelli e Michele Vicentini esce con il nuovo progetto Dove Sono Finiti Tutti? per Fiabamusic già anticipato dai singoli Tali e Squali e Ribelli Altrove.

Dove Sono Finiti Tutti? è un lavoro ben strutturato di otto tracce il cui titolo è una domanda che mette all’angolo, perché riassume quella paura inconfessabile che ci accompagna da due anni: uscire da ogni emergenza per scoprire che non c’è più nessuno intorno a noi. Non sappiamo se le promesse di un mondo che chiedeva di tornare ad abbracciarsi, a vivere insieme, a condividere di nuovo un concerto diventeranno realtà: cosa potrebbe succedere se ci trovassimo soli alla fine di tutto questo? Il trio della Valsugana non propone soluzioni né cerca verità assolute, sempre che ce ne siano, ma di ciò che vedono attorno a loro ne fanno musica e parole. Ci sono brani che abbracciano metafore marine e altri che ritornano sulla terra mirando ad un uomo spaesato, e lo centrano in pieno. 

Nonostante il titolo, Sirene non è una traccia evocativa, bensì propone un ritmo incalzante e pulito per fare da struttura a un testo spietato dove “Cantano sirene immobili / …./ chiamano e abbocchi subito/ in fondo non vuoi dire no”. Abbiamo bisogno di riferimenti, ma scegliamo noi quelli sbagliati, assoluti non umani e distanti. Loro ci chiamano, è vero, ma siamo noi che li abbracciammo consapevoli di ciò che sono e di ciò che possono farci diventare. La nostra vita è una responsabilità che non possiamo scaricare ad altri, e Tali e Squali ce lo dice senza troppe moine perché “Siamo noi che facciamo scadere i miracoli”: le cose belle le lasciamo andare, forse marcire, non le prendiamo al momento che si presentano davanti a noi, tra le nostre mani. E le cose belle non durano per sempre. Un invito al carpe diem che parte da uno schiaffo che ci apre gli occhi sui danni che facciamo a noi stessi accompagnato però da un sound più soft e una coralità che trasmette la sensazione di una condizione fragile comune. Condizione che, però, non può durare per sempre, o rischiamo di perdere la nostra umanità. Restiamo Umani è un grido graffiante di chitarra elettrica, batteria e basso che aiutano la voce leader a richiamarci all’ordine in un mondo dominato dall’ansia di dimostrare di essere al sempre al top, anche se quando “Vogliamo vincere /mangiamo polvere”. Cos’altro possono dirci di più?

L’album non lo consiglio ai puristi del rock cantato in inglese, perché è interamente in italiano e capisco che possa lasciare titubante chi non la considera una lingua agile per questo stile musicale. Lo consiglio, però, a chi ha voglia di passare del tempo ad ascoltare un progetto gradevole, ben strutturato e soprattutto pulito nei suoni e nei testi. Adatto a chi non ama troppo i crossover tra generi musicali, né un rock oscuro o pieno di distorsioni manieristiche, né testi che rincorrano termini ricercati combinati in modo da risultare quasi incomprensibili. Dove Sono Finiti Tutti? è un album che non tenta di compiacere l’ascoltatore raccontandogli ciò che vorrebbe sentirsi dire, anzi, è diretto, colpisce e se ne infischia di piacere a tutti i costi, così come il rock comanda. 

 

The Bastard Sons of Dioniso

Dove Sono Finiti Tutti

Fiabamusic

 

Alma Marlia