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Tag: alma marlia

Suede “Autofiction” (BMG, 2022)

Il fascino dell’elegante rumore degli Suede

La loro storia inizia con la formazione del gruppo nel 1989 e con un progetto che recuperava le fascinazioni glam-rock della scena britannica in un periodo in cui il grunge americano lo aveva reso praticamente fuorilegge, contribuendo alla maturazione del rock contemporaneo. Riescono a raggiungere i vertici delle classifiche anglosassoni solo nel 1993 con il progetto omonimo, forse non innovativo musicalmente, ma sicuramente pionieristico nella sfida agli standard di genere con la copertina che ritraeva un bacio tra due donne. Sono gli Suede, band made in UK nata, cresciuta in un’aurea di compiaciuto maledettismo, scioltasi per poi riunirsi quando i membri hanno capito che la loro musica aveva ancora molto da dire. Il nuovo album si chiama Autofiction, il nono della storia del gruppo, che lo stesso Brett Anderson definisce come “Il nostro disco punk”.

I brani che compongono Autofiction sono ben undici pezzi di un mosaico di rumore elegante così come lo confermano i primi due brani She Still Leads Me On e Personality Disorder, entrambi caratterizzati da riff ben strutturati di Richard Oakes, ma mentre il primo si muove con delicata disinvoltura tra le note narrative del rapporto emotivo di Anderson con la defunta madre, il secondo è arrabbiato e arruffato, con una chitarra elettrica aggressiva che non trova pace, così come la complessità delle percezioni umane. C’è voglia di fare rumore, di farsi sentire, ma anche di attirare l’ascoltatore in una tela sonora pronta per lui, e scuoterlo per fargli perdere ogni riferimento e fargliene trovare di nuovi.

That Boy On The Stage propone ancora riff possenti al limite dell’hard, mentre la voce quasi demoniaca disegna un personaggio al limite del borderline, dove essere cantante è quasi una forza oscura incontrollabile. E tu ascolti, e rimani avviluppato da quel buio che alla fine affascina sempre tutti. Simon Gilbert è invece l’indiscusso protagonista di Black Ice, dove picchia con forza a convinzione, quasi a simulare un martello che scalfisce ciò che si trova attorno a lui, certezze comprese. Drive Myself Home è un brano struggente e talmente intriso di emozione che la tecnica passa veramente in secondo piano. Trasmette tutta la fragilità dell’essere umano, la voglia di tornare a casa, vista nell’insieme delle sicurezze e degli affetti, la voce non è più solo l’interpretazione di un cantante, bensì l’espressione dei tuoi pensieri e della voglia di concedere alla vita la possibilità di essere nuovamente dolce con te.

Nel disco, Anderson non canta più la rivalità con il rock d’oltremanica tenendo stretti l’accento e lo stile britannico ispirati a Bowie; il frontman della band ora è un artista maturo, che si affida al rock per guardare dentro l’anima e farne uscire incertezze e dubbi esistenziali come in Turn Off Your Brain And Yell che chiude l’album e, attraverso un tripudio di suoni esplosivi, incita a lasciarsi andare al liberatorio urlo primordiale che soffochiamo dentro di noi con la logica del quotidiano. 

Autofiction è un album ben studiato e strutturato che però contiene tutta la forza di un flusso di emozioni sempre più potente, come fosse un album d’esordio, caratteristica, questa, di chi è stato protagonista della storia della musica, ma non ripiega comodamente su sé stesso, anzi va avanti con estrema decisione senza la necessità di accontentare le mode. Ci sono slanci musicali audaci, visioni dell’animo umano che sono in bilico tra la paura e la seduzione, ma proprio per questo comprensibili e vicini all’ascoltatore. In alcuni momenti credi pure che ti capiscano, poi sorge il dubbio che non sia così, ma in fondo non importa, se quello che senti in qualche modo parla di te con te. Oppure è possibile anche che dica niente, o almeno così sembri, e va bene così. In fin dei conti è questa la bellezza della musica, come sa parlare o tacere in modo diverso a ognuno di noi. 

 

Suede
Autofiction
BMG

 

Alma Marlia

The Afghan Whigs “How Do You Burn?” (Royal Cream/BMG, 2022)

Se hai il fuoco dentro, brucia con The Afghan Whigs

Sono passati cinque anni dal loro ultimo lavoro In Spades ma hanno ancora voglia di catturare il pubblico con la loro grinta attraverso la propria musica. Loro sono The Afghan Whigs ed escono ora con How Do You Burn?, che conferma l’appartenenza della band di Cincinnati al rock alternativo con il loro sound ossessionante e straziante. Un disco con una genesi non semplice, perché registrato con ogni componente della band a distanza durante il periodo pandemico. Un disco che è voglia di guardare al futuro, ma anche ricordo e omaggio a Mark Lanegan che ne aveva scelto il titolo.

L’attacco di chitarra elettrica di I’ll Make You See God è subito sferzante e si trasforma in un riff potente che si ripete come in una specie di allucinazione, mentre la voce di Dulli raggiunge timbri al limite dello sguaiato, ma che creano un sottile perfetto equilibrio con la complessità strumentale del brano.  Il disco si sviluppa poi in tracce dove il rock lascia spazio a atmosfere rarefatte di suggestione distopica tra cui domina proprio la chiusura In Flames. Lo spiccato uso del synth e la voce distorta si muovono come fiamme, in modo accattivante e seducente, con quel pizzico di sensazione di pericolo quel tanto che basta a catturarti fino all’ultimo, come se non volesse lasciare andare via l’ascoltatore, trattenerlo e avvolgerlo per “bruciare” con lui fino alla fine. Ed è questa la sensazione che ti accompagna durante l’ascolto, la voglia di rimanere che combatte con quella di andarsene perché in qualche modo il progetto entra dentro alle emozioni e te le fa mettere in gioco, ma non tutti siamo pronti per farlo. Concealer è una canzone dolce che parte in acustico per poi trasformarsi in un rock delicato quasi un abbraccio consolatorio, che ti cattura e ti culla fino a che non chiudi gli occhi. Altrettanto emozioante è The Gateway, che parte con un’atmosfera musicale sospesa per poi svilupparsi in sonorità psichedeliche e un testo non complesso, ma con parole forti che formano un dialogo immaginario tra un io e un tu o voi dove la voce di Dulli si leva in uno spietato “Waiting for the night as I destroy the day”. Attesa, volontà e fatalità riunite in una sola frase che ti prende e non ti lascia più.

Come ogni recensione, anche questa ha una fine, e forse dovrei terminare con i consigli per gli acquisti o qualcosa di simile che la logica di mercato impone. Ma ammetto che la logica non è mai stata il mio forte, perciò vi dico solo di ascoltare How Do You Burn? lasciando aperti quei canali emotivi che permettono alla musica di rovistarci dentro e farne uscire nuove sensazioni o vecchi ricordi, oppure un bel mash up di entrambi. Sì, avete ragione, il rischio è che si può passare dal Nirvana al dolore nascosto in qualcuna delle nostre profondità, ma non è anche questo vivere, o meglio bruciare di vita? Come bruciate? Di fuoco nascosto sotto la cenere della quotidianità in attesa di spegnervi del tutto, oppure come fiamme che sono pronte a vivere in pieno le proprie emozioni? A voi la scelta di premere quel tasto che aiuti la musica a liberare ciò che avete dentro.

 

The Afghan Whigs

How Do You Burn?

Royal Cream/BMG

 

Alma Marlia

Flogging Molly “Anthem” (Rise Records, 2022)

Avete presente Kevin Kline mentre si scatenava sulle note di I Will Survive cantata da Gloria Gaynor impersonando il professore Howard Brackett della commedia In & Out? Ecco quello è l’effetto collaterale, se così possiamo chiamarlo, dell’ascolto di Anthem, il nuovo album dei Flogging Molly pubblicato da Rise Records. Nonostante le origini irlandesi, il gruppo si è formato nel 1997 negli Stati Uniti, e più esattamente a Los Angeles, nel pub dedicato alla figura di Molly Malone, e ha continuato negli anni a seguire il suo stile celtic punk che unisce la tradizione del folk irlandese con la voglia di modernità del punk rock. A distanza di cinque anni dall’uscita di Life Is Good, la band capitanata da Dave King ritorna sulla scena con un nuovo progetto di undici canzoni e un tour mondiale che li ha portati anche in Italia al Bay Fest 2022 di Bellaria Igea Marina. 

Ascoltare l’album per una creatura danzereccia come me non è stato affatto semplice. Non che non sia ascoltabile e godibile, anzi, tutt’altro. L’unico problema è stato cercare di resistere a muovermi e saltare come un grillo ad ogni nota, per concentrarsi sulla tecnica musicale, ma già la canzone di apertura These Times Have Got Me Drinking dal canto iniziale leggermente melanconico si trasforma in un turbinante reel fuso con sonorità rock che trascina via i piedi e tu non puoi fare altro che seguirli. Ed è a passo di danza e un po’ di pogo tra gighe e reel rock che balli per immaginarie strade al sapore di Guinness e giubbotti chiodati, mentre ti scateni sulle note di canzoni come A Song of Liberty e A Road of Mine, dove il violino folk di Bridget Regan è talmente veloce da dare l’impressone di diventare ardente e lanciare fiamme che fanno saltare sempre più in alto, come in una vera danza irlandese, mentre un banjo lontano evoca anche gli spazi aperti delle sonorità country. Non c’è niente da dire, i Flogging Molly con questo lavoro confermano di essere coinvolgenti e divertenti, ma non per questo privi di spessore e profondità, come dimostra la struggente ballata These Are The Days dove il canto diventa a tratti corale ed evocativo, la batteria riecheggia lo spirito di malinconia per uno sguardo spietato verso il passato e il presente miste all’incertezza verso il futuro. Se volete invece sentirvi avvolti dalle luci di Temple Bar a Dublino, fermate il ballo e prendete fiato quell’attimo che basta per cantare a squarciagola The Croppy Boy ’98, praticamente un’ode alle canzoni ribelli irlandesi dove l’esecuzione strumentale e vocale hanno l’intensità che evoca The Pogues, e mentre le liriche hanno il sapore amaro della sconfitta e di una certa fatalità della vita che va avanti nonostante si rimanga un passo indietro perché “Nothing more is what’s left to me”.

Anthem è un progetto che fa abbassare le difese di chi alza le sopracciglia superbe e si sente paladino della musica cantautoriale, lo prende per mano e lo induce a ballare, che lo voglia o no. Come vuole la tradizione irlandese, ci racconta che i problemi ci sono, esistono e vanno visti per quello che sono, ma non per questo dobbiamo morire di spirito e corpo, anzi è proprio muovendoci e stando insieme che si combattono le paure, si esorcizzano i fantasmi e possiamo darci coraggio per andare avanti. I Flogging Molly non vogliono svelare chissà quali verità nascoste nella realtà né iniziare una nuova corrente musicale, vogliono solo confermare che due mondi musicali lontani come la musica tradizionale e il punk possono avvicinarsi per creare uno strumento con cui stare insieme per condividere i bei momenti e combattere quelli più difficili, anche solo alzando un boccale di birra. Guinness, naturalmente.

 

Flogging Molly

Anthem

Rise Records

 

Alma Marlia

Josè González. The acoustics of two worlds.

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The Swedish singer-songwriter and guitarist of Argentinian ancestry Josè González participated to the Percuotere la Mente festival last August 3rd in Rimini. González’s style is one of the most recognisable of the indie-rock scene, thanks to that acoustic sound that characterises his albums, including his latest Local Valley, where the melodies get enriched by lyrics sang in English, Swedish and for the first time in Argentinian Spanish, the language of his parents. Very different roots and cultures, the Argentinian and the Spanish one, that meet up in the music of this mindful and passionate artist we got to know better thought this interview.

 

On August 3rd, you took part to Percuotere la Mente 2022, a festival in Rimini with a tradition of hosting artists that pick people’s mind (note: Percuotere la Mente can be loosely translated as “Shaking the Mind”). Is there any particular reason that made you accept to take part to this festival, maybe related to the meaning of the festival name? 

Didn’t know about the meaning, but now that I know I’m glad they invited me! The last couple of records I’ve been aiming at writing lyrics that make people think differently – if they want :)”

 

What would “shaking the mind” mean to you? 

I guess exposing yourself to new ideas or perspectives and allowing yourself to think differently.”

 

Have you any expectation by playing in Italy, in front of an Italian crowd?

“Not that different to other summer crowds. But I am very excited though to play in Italy since I haven’t played that often compared to other European countries.”

 

You were born in Sweden, but to Argentine parents who left their homeland as political activists. What did it mean to you to grow up in a Swedish mindset and at the same time live the cultural and social background of your family​? 

“I’ve felt like it’s been great to have a mixed background and since I’ve lived in Gothenburg Sweden all my life I feel more Swedish than anything else. When I’m in Argentina I feel like a visitor but I’m sure that would change if I only spent more time there. I have a slight Mendozinian accent with some words that were popular in the 70’s.”

 

Has your music been affected from this and if so, how?

I think my music has been affected by many things, some deliberate and some without thinking. I studied Spanish classical guitar, I learnt to sing and play through Beatles and bossa nova. And when I started to write my own songs I was heavily influenced by Silvio Rodriguez from Cuba. Around the time when I was collecting songs for my first album I was into singer-songwriter artists from UK and US – music that I listened to with my friends. So the songs were influenced by many styles and I wanted the album to be different from the other artists that were popular in Sweden at the time. I think my varied background helped me find my own mosaic style.”

 

What, in your opinion, should be the role of the artist during these times of wars, economic crises, and quite often super fast and superficial social interactions?

The role of the artist and art in general is to be whatever the artist want it to be. There’s always room for different aims and ambitions. Some can be aesthetically pleasing and some the opposite. Some can be political and some simply out for mindless entertainment. Maybe the only thing to have in mind is how an artist uses their platform. The bigger the platform the more responsibility to not disinform or to stir hatred.”

 

You play your guitar using fingerpicking, a style that is no longer widespread, while many musicians use more digital sounds every day. Do you think that in the future music will be more and more synthetic?

I don’t have clue of how the future will be. It’s been really fun to hear AI write Bach and Beatles and I look forward to see ABBA avatars but I’m a fan of the artisanal aspect of hearing and seeing people play acoustic instruments. I’m sure future AI’s and virtual experiences can take any kind of taste into account in the long future though.”

 

In Local Valley, your latest project released in 2021, you sing some songs in Argentinian Spanish-– the language of your parents – for the first time. Why did you decide to do so?

I tried with my previous album but got stuck and switched to English. This time not so – it actually felt easy and fun! Maybe my ambition to impress my kids helped me.”

 

Let’s talk about Visions, one of the songs from Local Valley. Towards the end of the song you say “No, we can’t know for sure what’s next /But that we’re in this together/We are here together “, as if to reassure the listener that even if the future is uncertain, being united will give us the strength to overcome it. Where does this reflection of yours  come from?

I seldom think my own thoughts. I try to lean on better and more informed thinkers. There’s a couple of places where I find interesting thinkers: The Long Now, Edge.org and the Effective Altruism community. They point toward challenges that need global collective action and collaboration: Ecological Crisis, Nuclear Weapons, Synthetic Biology, Misaligned Artificial Intelligence. But they also point toward the amazing things we have accomplished and can accomplish in possible futures. Resting on a humanist outlook I’m also thinking that we can’t rely on anything else than this life we have – after birth and before death.”

 

Local Valley is a look at the world filtered by love, art and reason. What is love for you?

“Just an evolutionary by product of electro-chemical firing of neurons to copy our genes. No, just kidding ;)”

 

Alma Marlia
Editing and translation: Francesca Garattoni

José González. L’acustica dei due mondi.

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Il cantautore e chitarrista svedese di origine argentina José González ha preso parte al festival Percuotere la Mente 2022 di Rimini lo scorso 3 Agosto. Quello di González può essere definito uno degli stili più riconoscibili dell’indie rock, per il suono acustico che caratterizza i suoi progetti, tra cui anche l’ultimo, Local Valley, dove le melodie si arricchiscono in testi cantati in inglese, svedese e per la prima volta anche in spagnolo di area argentina, la lingua dei suoi genitori. Radici e culture estremamente diverse, quella argentina e quella svedese, che si incontrano nella musica di un artista appassionato e consapevole che abbiamo voluto conoscere più approfonditamente con questa intervista. 

 

Lo scorso 3 Agosto hai partecipato al festival Percuotere la Mente a Rimini, che si caratterizza per ospitare artisti intellettualmente stimolanti. C’è una ragione particolare che ti ha fatto accettare di partecipare a questa rassegna, magari correlata con il significato del nome stesso del festival?

“Non sapevo del significato del nome, ma adesso che lo sono sono felice che mi abbiano invitato! Nell’ultimo paio di dischi ho cercato di scrivere testi che facessero pensare la gente in modo diverso – se vogliono :)”

 

Cosa significa Percuotere la Mente per te?

“Immagino esporsi a nuove idee o punti di vista e permetterti di pensare in modo diverso.”

 

Che aspettative hai a suonare in Italia, di fronte al pubblico italiano?

“Non tanto diverse da altre folle estive. Ma sono comunque molto eccitato a suonare in Italia dato che non ho suonato qui tanto spesso come in altri Paesi europei.”

 

Sei nato in Svezia, ma da genitori argentini che hanno lasciato la loro patria in quanto erano attivisti politici. Cosa è voluto dire per te crescere in Svezia e unire il suo contesto al background sociale e culturale della tua famiglia? Come ne è stata influenzata la tua musica?

“Penso che sia fantastico avere un background misto e dato che ho sempre vissuto a Gothenburg in Svezia mi sento più Svedese che altro. Quando sono in Argentina mi sento come uno straniero, ma sono sicuro che cambierebbe se solo passassi più tempo lì. Ho un accento leggermente di Mendoza con alcuni idiomi che erano popolari negli anni ’70.”

 

La tua musica è stata influenzata da questa cosa e se si, come?

“Penso che la mia musica sia stata influenzata da un sacco di cose, alcune più deliberate e a altre senza pensarci. Ho studiato chitarra classica spagnola, ho imparato a cantare e a suonare attraverso i Beatles e la bossa nova. E quando ho iniziato a scrivere le mie canzoni sono stato pesantemente influenzato da Silvio Rodriguez da Cuba. Durante il periodo in cui stavo raccogliendo le canzoni per il mio primo album ascoltavo cantautori del Regno Unito e degli Stati Uniti – musica che ascoltavo con i miei amici. Così le canzoni sono state influenzate da molti stili e volevo che l’album fosse diverso dagli altri artisti che erano in voga in Svezia in quegli anni. Penso che il mio background così variegato mi abbia aiutato a costituire il mosaico che è il mio stile.”

 

Quale, secondo te, dovrebbe essere il ruolo di un artista in questo periodo fatto di guerre, crisi economiche e rapporti sociali sempre più veloci e in alcuni casi superficiali?

“Il ruolo dell’artista e dell’arte in generale è quello di essere qualsiasi cosa l’artista vuole che sia. C’è sempre spazio per diversi scopi e ambizioni. Alcuni possono essere esteticamente piacevoli e altri l’opposto. Alcuni possono essere politici e altri semplicemente a disposizione per dell’intrattenimento spensierato. Forse l’unica cosa da tenere a mente è come l’artista usa le sue piattaforme. Più grande la piattaforma, più grande è la responsabilità di non disinformare o istigare odio.”

 

Tu suoni usando il fingerpicking, uno stile che non è più molto diffuso, mentre altri musicisti usano sonorità digitali ogni giorno di più. Pensi che in futuro la musica sarà sempre più sintetica?

“Non ho idea di cosa ci riservi il futuro. È stato divertente sentire che un’intelligenza artificiale ha scritto Bach e i Beatles e non vedo l’ora di vedere gli avatar degli ABBA ma sono un sostenitore dell’aspetto artigianale di ascoltare e vedere le persone suonare strumenti acustici. Sono comunque sicuro che le intelligenze artificiali e le esperienze virtuali potranno tener conto di ogni tipo di gusto in un futuro lontano.”

 

In Local Valley, il tuo ultimo progetto uscito nel 2021, canti per la prima volta alcune canzoni in spagnolo argentino, la lingua dei tuoi genitori. Perché questa scelta?

“Avevo provato nei miei album precedenti ma mi ero bloccato ed ero passato all’Inglese. Questa volta non è successo – a dire il vero è stato facile e divertente! Forse la mia ambizione di far colpo sui miei figli mi ha aiutato.”

 

Parliamo di Visions, una delle canzoni di Local Valley. Verso la fine del brano tu dici “No, we can’t know for sure what’s next /But that we’re in this together/We are here together” come a voler rassicurare l’ascoltatore che, anche se il future è incerto, essere uniti è l’unica forza che ci farà superare il momento. Da cosa nasce questa tua riflessione?

“Penso raramente pensieri miei. Cerco di fare affidamento su pensatori migliori e più informati. Ci sono un paio di posti dove trovo pensatori interessanti: The Long Now, Edge.org e la comunità Effective Altruism. Mettono in evidenza sfide che necessitano di un’azione e collaborazione collettiva globale: crisi ecologica, armi nucleari, biologia sintetica, intelligenza artificiale disallineata. Ma mettono anche in evidenza tutti i fantastici successi che abbiamo realizzato e che possiamo realizzare in futuri possibili. Tornando ad una visione più umanistica, penso anche che non possiamo far affidamento su nient’altro che su questa vita che abbiamo – dopo la nascita e prima della morte.”

 

Local Valley è uno sguardo sul mondo filtrato dall’amore, dall’arte e dalla ragione. Cosa è per te l’amore?

“Solo un sottoprodotto evolutivo degli stimoli elettrochimici dei neuroni a copiare i nostri geni. No, scherzo ;)”

 

Alma Marlia
Editing e Traduzione: Francesca Garattoni

Mått Mūn “Lux” (Beautiful Losers, 2022)

Note di stelle e beat infiniti attraverso il cosmo musicale di Mått Mūn

Mått Mūn, pseudonimo del padovano Mattia Menegazzo, è un musicista che ha sviluppato il suo percorso come cantante e chitarrista in vari gruppi rock del panorama musicale underground nostrano. L’incontro con Andrea Liuzza che lo porta ad avventurarsi nella carriera solista con il progetto Cosmography del 2019 dove emergono la sua passione per l’astronomia e l’amore della new-wave e la musica cyberpunk anni ’80, con un forte richiamo a gruppi come i Depeche Mode. Con il nuovo progetto Lux, l’artista conferma il suo sguardo rivolto verso una frontiera che trascende la quotidianità, ma non per questo la ignora. Il viaggio ora è verso la luce, vista oppure solo desiderata, in atmosfere spaziali dove i pensieri fluttuano senza peso. 

Il progetto è composto da dieci tracce, tra loro distinte, ma unite dalla sensazione di trovarsi in un flusso cosmico, dove musica e parole si fondono grazie a beat sintetici per diventare un’unica esperienza sonora, senza tradire, però, la voglia di lanciare messaggi verso la Terra. Divine apre l’album con i suoi tratti distintivi di sonorità decise ed elettroniche dove la voce di Mūn acquista forza evocativa che, come una divinità, diventa trascendete e acquista una luminosità che continua in Iridescent, un brano che si avvale non solo di note, ma anche di parole a tratti dilatate come a riprodurre una luminosità diffusa che abbraccia l’ascoltatore. Mentre lo ascolti gli occhi si chiudono senza che te ne accorga, e la mente si apre a luci che forse fanno parte della memoria, oppure la creano partendo dalla sensazione di leggerezza provocata dalla musica stessa. L’impressione è quella di galleggiare nell’aria. Waves ha invece una ritmica più forte e cadenzata, dove il canto “I know what is coming now” diventa un tutt’uno con le onde sonore e in quelle onde, che tu lo voglia o no, ci devi nuotare. Ogni beat si infrange contro l’ascoltatore che si muove tra l’elettronica e una batteria che ad ogni colpo è uno schiaffo sulla pelle, mentre un’eco vocale distorta ci guida verso un vascello spaziale che ci attende in infinite nebulose. Ammetto che mi piace perdermi in questa sensazione di spazio infinito, e gioco con il nome dell’artista che mi ricorda la luna come viene pronunciata in inglese, mentre l’atmosfera rarefatta che abbraccia il progetto si fonde con il beat elettronico che ne caratterizza ogni passo. Scopro che l’album si arricchisce di featuring interessanti come quello con Emilya NdMe in Red Shift oppure con l’esordiente Isevril in Neon Dreams, e Are You Real?, progetto di Liuzza, nell’eterea Soulprism. Nel frattempo, arrivo all’ultima canzone, Cosmic Kiss che saluta l’ascoltatore con suoni dilatati di synth e un canto sussurrato come un bacio rubato, di saluto o di addio, questo sta a noi deciderlo, mentre la melodia da bassa si apre a note alte, a un timbro vocale che diventa sempre più evocativo come una luce che si irradia e viaggia attraversando la nostra anima verso l’universo pieno di colori. 

Come il telescopio spaziale James Webb e le sue immagini che ci hanno fatto vedere le sfumature dell’infinito, Mått Mūn usa la musica per cantarci del cosmo e ce ne fa percepire i suoi colori, le sue infinite sospensioni dove noi nuotiamo nell’aria, e se non possiamo farlo fisicamente, attraverso i suoi suoni possiamo farlo con la mente. Le sue atmosfere sonore attraversano come un raggio di luce, ci trafiggono per poi portarci lontano con loro, e questo che si voglia essere trascinati oppure no. Quando pensi che forse sia il caso di tornare con la testa sulla terra, lui ti chiede di rimanere ancora un po’e di goderti quel momento in ogni sua sfaccettatura. Non sai se vale la pena assentarsi o no quel tanto che basta ad ascoltarlo, ma non sono domande che riesci a farti tanto di cattura, rimane solo una sensazione di morbidezza anche quando madre Terra ti richiama all’ordine. E tu torni con la tua emozione sospesa nel vuoto ancora pieno delle note appena ascoltate.

 

Mått Mūn

Lux

Beautiful Losers

 

Alma Marlia

Paolo Nutini @ Pistoia Blues

L’attesa inizia nel 2014, anno di pubblicazione di Caustic Love dopo il quale passano ben otto anni di silenzio fino alla recente uscita di Last Night in the Bittersweet, progetto con cui ha richiamato i fan attorno a sé, anche se non lo avevano mai scordato. Così, Paolo Nutini, il cantante britannico di origini toscane, ha chiuso l’ultima edizione del Pistoia Blues Festival con un sold out già annunciato e una piazza che lo ha circondato in un abbraccio caloroso di applausi, salti, sorrisi e canzoni cantate o masticate a fior di labbra. Un modo meraviglioso per accogliere chi ha lasciato un segno nel tuo cuore musicale, e per salutare una città che, come ogni anno, ospita vere e proprie esperienze sonore. 

Entrare nella piazza attraversando i controlli della sicurezza è ormai una prassi a cui non faccio più attenzione, tanto il servizio è veloce e professionale, senza intoppi e con tanta cortesia che, ammetto, fa sempre piacere. Vorrei dirvi che vedere tutte quelle persone in attesa mi sorprende, ma non è vero, lo trovo normale quando il palco promette tanta bravura ed emozioni, però ogni volta è come se fosse la prima, e ti fa piacere vedere quante persone hanno voglia di essere lì, come parte viva e pulsante dell’evento. A differenza della serata in cui si sono esibiti i Simple Minds, in piazza non ci sono sedie, ad eccezione dei classici spalti, ma non sembra un problema per nessuno, anzi, c’è un certo piacere a ricominciare a vivere i concerti come succedeva prima della pandemia. L’età è varia, un artista come Nutini riesce a riunire intere generazioni, e le differenze di qualsiasi tipo si annullano per qualche ora. 

Come la sera precedente, anche questa esibizione non è preceduta da nessun opener, Paolo Nutini sale sul palco semplicemente, esibendo una normalissima t-shirt chiara, jeans, un capello folto, forse qualche chiletto che il tempo ha concesso anche a lui, e tutta la voglia di infuocare quel pubblico che non aspetta altro da anni. Il loop rarefatto e potente di Afterneath apre il concerto, tra gli applausi e le voci estasiate del pubblico. Dall’aspetto del cantautore scozzese diresti che stava passando per caso davanti al palco, ha trovato un microfono, ha raccolto amici musicisti in una band e ha iniziato a cantare catturando l’attenzione di tutta la piazza. Non cerca di compiacere l’occhio del pubblico, a lui interessa l’orecchio e tutto ciò che può suscitare suonando, dimostrando di essere uno di quegli artisti talmente capaci che non deve vestirsi come un pagliaccio per riempire il palco. E Nutini sa come muoversi seguendo la propria musica, oppure facendosi seguire da essa, senza strategia, ma solo con la voglia di stare bene con chi lo ascolta. 

Grida i titoli delle canzoni come un regalo lanciato al suo pubblico, mentre lascia che altre parlino da sole con l’attacco delle prime note. Lose It è uno squarcio nell’aria, mentre Scream (Funk My Life Up) si avvale di un ritmo groovoso del funky, ma è con Acid Eyes che arriva, almeno per me, quella sensazione che prende ogni centimetro di pelle, partendo dal basso che sfoggia le sue capacità vocali tra toni alti e bassi, mentre il brano acquista un arrangiamento più rock rispetto all’originale. L’atmosfera sonora è rarefatta, sui monumenti vengono proiettati morbidi giochi di luce, mentre i battiti sono quelli del cuore di un pubblico che all’unisono inizia a cantare, e continuerà a farlo per molti altri brani, tra cui la sperata Candy, che riempie l’aria e il respiro di nostalgica e dolce fatalità. Intanto l’artista non solo canta, ma parla, fa delle battute, alza il bicchiere di birra per brindare con tutti quelli che sono lì, con il corpo, oppure solo col pensiero. Through the Echoes, invece, fa male, arriva con il suo timbro graffiante che ti strazia, non più un canto, quasi una richiesta di ascoltare veramente, prestare attenzione a chi abbiamo dentro di noi. Per Coming Up Easy il palco si popola di una schiera di sei corde che trasfigurano la piazza in un viaggio verso mete lontane, campi di qualcosa che attraversi con la mente, forse campi di quell’amore che la musica, solo lei, ti dà il coraggio di attraversare. 

Con il ritornello di Shine a Light, in pieno bis, coglie l’occasione di omaggiare i Simple Minds che lo hanno preceduto la sera prima cantando Don’t You (Forget About Me) per poi riprendere il suo brano, ma confermando così un legame con il gruppo che, come lui, proviene dal panorama musicale scozzese. L’esibizione dell’artista si conclude con un secondo bis in cui canta Guarda che luna di Fred Buscaglione, quell’omaggio ai grandi artisti del nostro passato che troppo spesso ci scordiamo. La canzone è struggente e inaspettata, come la sua interpretazione che è talmente intensa da rendere emozionato anche lui. In quel brano ci sono tutte le sue origini, tutta la sua sensibilità, la storia musicale che forse il padre si è portato dall’Italia e con cui è cresciuto. Il pubblico ascolta in religioso silenzio. C’è chi balla, chi si abbraccia, non necessariamente sono coppie, alcuni sono amici in piccoli gruppi. La musica quando è bella non ha età, e quando arriva ti scordi dell’alterigia con cui viene catalogata in compartimenti stagni e ti lasci solo trascinare dall’emozione del momento, dai ricordi che può evocare, o semplicemente dalla bellezza che senti far parte di te, anche se non sai come possa succedere. 

A fine serata, dalla piazza usciamo in una città che non ha voglia di dormire e popola il vivace centro mescolandosi a chi ha ancora le note nelle orecchie e nel cuore. Con me c’è Giulia, l’amica che mi ha accompagnata in questo concerto, e ha il sorriso più bello che si possa immaginare, oltre a tutta alla soddisfazione di chi ha vissuto una piccola bolla di sapone dove l’arte ci difende dalla noia quotidiana. In fin dei conti la felicità ha la distanza di un giro di do. Abbracci Pistoia con tutta la settimana che ti ha regalato, la stanchezza del corpo, la forza dello spirito, le luci che popolano ancora gli occhi. Si tratta di un arrivederci, ma già l’atmosfera del festival ti manca, solo qualche video e qualche scatto salvato sul cellulare ti dicono che non è stato un sogno, che è stato tutto vero. Saluti con il pensiero tutti quelli che hanno reso possibile questa bella esperienza, dagli artisti ai fonici, al servizio di sicurezza, perché tutti sono importanti perché un concerto possa essere realizzato. E non rimane altro che aspettare l’edizione del 2023.

 

Alma Marlia

Musica, Pornostalgia e Willie Peyote

Al secolo si chiama Guglielmo Bruno, classe 1985, proviene da Torino, città della Mole, delle macchine, del caffè, della cioccolata e delle origini del cinema italiano. In arte si chiama Willie Peyote e il 6 agosto aprirà la prima edizione del Sogliano Sonica Festival, presentando al pubblico Pornostalgia, l’ultimo progetto che si è inserito quest’anno nel panorama musicale nostrano. Su Twitter si definisce “Nichilista, torinese e disoccupato, perché dire cantautore fa subito festa dell’unità e dire rapper fa subito bimbominkia”. Con VEZ Magazine si è rivelato un artista dalle idee chiare e dalla grande passione che unisce al divertimento per ciò che fa. 

 

Vorrei partire dal 6 agosto perché avrai l’onore di aprire la prima edizione del Sogliano Sonica Festival. Cosa ti aspetti da questa data e come ti trovi a suonare in Romagna?

“Mi trovo bene, ma, lo sai, è difficile trovarsi male in Romagna. L’anno scorso il tour iniziò da Cesena, quindi ho un legame molto stretto con la Romagna e con tutta la scena romagnola. Sono contento ed è un onore aprire il Sogliano Sonica. Spero di farlo al meglio.”

 

Quando il rap è uscito dai quartieri afroamericani degli U.S.A. e si è diffuso a livello mondiale, c’è stata una frattura tra i puristi della musica che lo disprezzavano e chi invece ne accoglieva la novità e la modernità. Sapendo che tu provieni da una famiglia di musicisti, come hanno reagito alla notizia che ti saresti dedicato al rap?

“In realtà bene, nel senso che non era tanto il genere musicale quanto i contenuti l’aspetto a cui è sempre stata interessata la mia famiglia. Non hanno mai posto limiti all’ascolto di generi anche diversi da quelli che ascoltavano loro, perché viviamo in un contesto in cui si apprezza la musica come condivisione. Quindi non avevano limiti dovuti al genere, era più una questione di contenuti, perché alcune volte il rap ha una modalità molto hardcore di scrittura ed esposizione dei pezzi. Comunque, non mi hanno mai posto limiti, ho una famiglia molto aperta sui gusti musicali.”

 

Nelle tue tracce tu parli in modo chiaro e schietto. Conviene sempre parlare in modo chiaro?

“Convenire no, perché come sai la convenienza è un concetto che dipende dalle situazioni e dalle persone che ti circondano. Convenire, no. Lo trovo opportuno, soprattutto quando si parla di rap. Mi sono avvicinato al rap proprio perché è un genere schietto e diretto, quindi lo trovo parte della sua stessa forma artistica. Non riesco a pensare a un rap che non sia in qualche modo diretto e hardcore. Parlare chiaro anche nella vita non sempre è conveniente, ma questo non vuol dire che non sia giusto.”

 

In Pornostalgia troviamo la traccia Robespierre dove tu dici “Come Robespierre taglio la testa ai re/Fino a che non taglieranno la testa a me”, che è una chiara sfida al sistema, la voce di chi vi si pone contro rischiando tutto, anche se ci vive dentro. Quanto può essere difficile opporsi a un sistema, come può essere l’industria musicale, facendone parte? 

“Opporsi a un sistema di cui si fa parte è un concetto che rischia di essere fine a sé stesso. Io mi pongo contro un certo atteggiamento. Di per sé l’industria musicale non è sbagliata, credo che sia sbagliato l’approccio di quegli artisti che si lasciano un po’ troppo trascinare da altri nelle scelte e non dal proprio gusto musicale. Ci si dovrebbe sempre ricordare i motivi per cui sogniamo oppure si inizia a fare i musicisti, perché si rischia di perdere il contatto con quelli che sono stati i motivi che ci hanno spinto a fare delle scelte nella vita. Anche perché, pur inserendosi nelle regole del mercato, ed è normale che sia così, si può proporre una cognizione che sia un po’ più profonda e non solo volta al raggiungimento di obiettivi molto veloci, perché più velocemente raggiungi un obiettivo, più velocemente devi trovarne un altro da raggiungere.”

 

Quindi secondo te l’artista, anche quando è arrivato, deve concedersi più profondità ed emotività? Oppure può e deve fare altro?

“Ognuno deve fare le proprie scelte. Spero solo che siano tutti in pace con loro stessi per le scelte che fanno, che non si lascino troppo trascinare dalle leggi di mercato e dalle scelte altrui, perché penso che l’arte nasca soprattutto dalla libertà di esprimere sé stessi. Nel momento in cui ci si trova vincolati nell’esprimere quello che viene chiesto e non quello che provi, si perde il senso dell’arte.”

 

A proposito del mercato musicale: cosa ne pensi dei featuring in generale? Cosa possono portare agli artisti e cosa al pubblico?

“I featuring a me piacciono molto, li apprezzo, li faccio io per primo. Anche lì, dipende dalle logiche con cui si fanno certi progetti. Le persone che chiamo nei miei dischi sono artisti che stimo, persone che, prevalentemente, conosco umanamente, con cui condivido anche discussioni sui temi che poi andiamo ad affrontare nelle canzoni. Quando i featuring, invece, vengono creati a tavolino, credo che si perda il senso della collaborazione artistica perché effettivamente si perde il concetto artistico. Trovo interessante veder collaborare artisti diversi. Più diversi sono, più il lavoro è interessante.”

 

Sempre lo stesso film è una dedica a Libero De Rienzo dove emerge, però, anche un racconto autobiografico. Puoi dirci qualcosa di più?

“Il pezzo racconta gli ultimi mesi prima dell’uscita del disco, quindi questo ultimo anno che ci ha portato fino a qui, anno in cui c’è stata anche la scomparsa di Picchio. Per me lui è sempre stato un riferimento prima di tutto artistico perché io sono cresciuto guardando Santa Maradona, volendo essere lui, traendo ispirazione anche dal suo personaggio. Poi ho avuto modo di capire che non era un personaggio, che era proprio lui, che era sempre così, una splendida persona, un grande artista che ho apprezzato tanto anche lavorandoci insieme. Nelle conversazioni notturne mi ha dato anche un modo di vedere, un approccio che cerco di raccontare nel disco e in quella canzone in particolare: il discorso per cui il coraggio vale più del talento, le scelte difficili che hanno influenzato anche la sua fama. Se avesse fatto scelte più facili, sarebbe stato anche molto più riconosciuto dal pubblico, invece ha fatto sempre scelte coraggiose e coerenti con la sua visione artistica. Poterlo vedere da vicino, conoscerlo, condividere certi momenti mi hanno dato la conferma che si può fare anche così, si deve solo essere consapevoli che questa cosa non porta ad essere il bisogno di tutti, ma non tutti dobbiamo essere il bisogno di tutti.” 

 

Cosa è per te la Pornostalgia?

“Guarda, Santa Maradona presenta piuttosto bene il concetto di pornostalgia, nel senso che poi è un film che per me è stato formativo tra i diciotto e i venti anni, un film che ancora mi porto dentro. Ho anche potuto conoscerne i protagonisti, non solo gli attori, ma anche chi ha composto la colonna sonora, che per me è stata epocale. Inoltre, oggi mi trovo a vivere in una casa che si affaccia su uno dei luoghi in cui è stata girata una scena del film, e quando l’ho comprata non lo sapevo. In qualche modo è un film che mi accompagna sempre. Quindi se mi chiedi cosa rappresenta la pornostalgia ti direi Santa Maradona, oppure la trattoria, andare allo stadio con mio padre. Quella è secondo me la pornostalgia.” 

 

Alma Marlia

Simple Minds @ Pistoia Blues

Ma suonano ancora? Assolutamente sì, e non solo suonano, celebrano i loro 40 anni di hit con un tour mondiale dove Celebrating 40 Years of Hits diventa un vero e proprio motto. Questi sono i Simple Minds, che finalmente, dopo due anni di rinvii a causa della pandemia, hanno fatto tappa il 15 luglio al Pistoia Blues Festival 2022, scegliendo il palco toscano per esibirsi in una serata che ha abbracciato musicalmente i 42 anni della loro carriera con una formazione diversa da quella degli esordi, ma sempre capitanata dalla voce di Jim Kerr e dalle corde di Charlie Burchill.

Provenienti dalla Scozia, terra di musica raffinata tra cui troviamo anche artisti come i Franz Ferdinand e Mogwai, i Simple Minds provengono dalla scena punk della Glasgow anni ’70 per poi addentrarsi negli anni ’80 con una serie di singoli di successo come Promised You a Miracle del 1982 o Waterfront del 1983. Tuttavia, è con la pubblicazione di Don’t You (Forget About Me) nel 1985 che diventano una delle più grandi band mondiali e tra la fine degli anni ’80 e dell’inizio degli anni ’90 vendono circa 60 milioni di dischi in tutto il mondo. Ma è proprio negli anni ’90 che per il gruppo inizia un lento declino e per un po’ la band si riduce a un duo formato da Jim Kerr e Charlie Burchill. Sono gli anni 2000 che vedono i Simple Minds riprendere forza pubblicando non meno di sette album in studio, tra cui l’ultimo, Walk Between Worlds del 2018, che ha raggiunto la quarta posizione nella classifica degli album del Regno Unito, e andare in tournée con l’arrivo dei nuovi membri Cherisse Osei alla batteria, Berenice Scott alle tastiere, Ged Grimes al basso.

Con questi ricordi in mente, mi avvicino alla piazza dove vedo file serpentine di un pubblico eterogeneo, accomunato dall’aver passato l’adolescenza in pieni anni ’80, e pronto, per una sera, a tornare indietro nel tempo, con un po’ di nostalgia per il tempo passato, e la voglia di catturarlo per una qualche ora di nuovo nel presente. Il concerto è sold out, la piazza è piena di sedie pronte ad accogliere il pubblico, ma nei dintorni c’è anche chi, non avendo potuto comprare il biglietto, aspetta trepidante ai margini, oltre le transenne, nella speranza di catturare qualche nota, un pezzo di strofa, chissà, magari quello che li ha fatti innamorare tanti anni fa. 

Il concerto inizia senza un’esibizione di una band di supporto, su un palco che si accende di luci e colori vivi e forti, che infuocano subito la piazza con le prime note e un Jim Kerr ansioso di concedersi al pubblico con la sua voce e sonorità sintetiche hanno trascinato il pubblico presente in un sound di pieni anni ’80. Kerr si muove sul palco con voglia di divertirsi e disinvoltura e anche se l’aspetto tradisce gli anni che sono passati, la sua energia sembra non essere stata toccata dal tempo. Parla in un italiano stentato ma efficace con il pubblico, l’impatto emotivo è alto, mentre Glittering Prize si muove su uno sfondo di paillette scintillanti che salgono verso un cielo indefinito insieme alla sua voce e neppure l’inciampo di qualche parola scordata di Promised You a Miracle lo ferma: Kerr chiede scusa e ricomincia, tra gli applausi di tutti, perché solo chi ama davvero ciò che fa può cadere senza abbattersi, e rialzandosi sempre. 

Dalla leggerezza di Promised You a Miracle, l’aria si riempie delle iniziali sfumature più cupe di Book of Brilliant Things dove la voce calda e profonda di Sarah Brown incanta il pubblico, mentre la musica lo scuote con la deriva rock che esplode successivamente, e da un canto evocativo, con l’arrivo di Kerr passa a vera grinta. La Osei fa scalpitare il pubblico con il suo assolo di batteria, lei che sta con i suoi strumenti al centro del palco, in alto, come una dea che abbraccia e sorveglia la band e il pubblico, si muove con forza e decisione, i capelli che si sono raffiche di battiti nell’aria, e le bacchette che sembrano l’estensione del suo corpo. Ed è in quel momento che sai che da grande vorrai diventare una tosta batterista. 

Mi guardo intorno e vedo che il pubblico ormai si è alzato, pochi sono quelli rimasti seduti, i più temerari vanno sotto il palco a scattare una foto per cui sono pronti a rischiare tutto, anche il rimprovero del servizio di sicurezza, e scappare felici come se avessero rubato un attimo di gioia. C’è chi balla e canta, come ballava e cantava il pubblico di giovanissimi del concerto di Ariete della serata precedente. Negli occhi la stessa voglia di musica e di libertà. Li immagini nella loro quotidianità, nella varietà dei mille lavori, magari seri professionisti, madri e padri attenti e preoccupati di ogni inquietudine dei propri figli, e poi li vedi lì, lontani dai pensieri per il momento di un concerto. Mentre l’immaginazione cavalca, Kerr incita tutti ad avvicinarsi al palco ed è il delirio, vengo travolta di ondate di persone che scendono dagli spalti per prendere un posto in prima linea, che si fanno spazio tra le sedie, le allontanano per vivere il concerto come deve essere vissuto: con tutto il proprio corpo. Magnificamente indisciplinati. Con l’attesissima Don’t you (Forget About Me) si raggiunge l’estasi e il delirio esplodono, e tutto è lecito, anche ballare come se non ci fosse un domani con passi che il tempo sembra aver scordato ma che la musica, solo per noi, riporta. Il brano viene interpretato con una sezione di canto extra-lunga, Kerr porge il microfono al pubblico per farlo partecipare e il pubblico non se lo fa ripetere due volte, anzi, non vedeva l’ora e canta a loop un “Lalala” per un tempo che sembra infinito. 

Il bis di rito inizia con un “Non vogliamo andare a casa! Vogliamo suonare più musica!” gridato da Kerr al microfono, in cambio di un boato di voci e applausi. Berenice Scott lascia le tastiere per duettare con la Brown in Speed Your Love to Me che diventa dolce ed evocativa, delicata, quasi una pausa che apre all’attesissima Alive and Kicking, decisa e potente. Il concerto si chiude con Sanctifying Yourself, il kick potente della batteria incalza le persone a ballare, la voce di Kerr invita a perdersi per una volta oppure per sempre su uno sfondo rosso dove volano sagome di colombe bianche. C’è il rock nell’aria, la voglia di scrollarsi i problemi via di dosso, barattarli per un po’ di bellissime note. 

Vado via dalla piazza con adrenalina nel cuore e nelle gambe, ma tra tutte le canzoni che hanno infiammato la serata, ripenso alla ballata Belfast Child, che ha ammutolito la piazza in religioso silenzio, per poi riempire l’aria di synth e batteria, con l’abbraccio della chitarra elettrica di Burchill. Una pausa surreale con il timbro di Kerr che riesce sempre a librarsi nell’aria, anche se il tempo gli ha donato delle sfumature a volte più basse, ma non per questo ne ha intaccato l’intensità. Mi vengono alla mente alcune critiche che ho letto per esibizioni per altri gruppi e cantanti a cui il tempo ha inevitabilmente cambiato un po’ la voce. Più che critiche, vendette musicali. Eppure questi artisti continuano a fare musica da anni, continuano a far provare emozioni, sensazioni che altrimenti rimarrebbero chiuse lì, in qualche parte di noi che neppure conosciamo. Questa è per me l’arte, non mantenere le corde vocali dei vent’anni, che poi, alla fine, l’età passa anche per il pubblico, ed è bello vedere che viaggiamo verso il futuro insieme. 

 

Alma Marlia

Ariete @ Pistoia Blues

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• Ariete •

Piazza Duomo (Pistoia) // 14 Luglio 2022

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Ritrovare tutto come sembra di averlo lasciato dà sempre la sensazione che il tempo non passi così velocemente come si dice, e così, dopo aver appena chiuso gli occhi dopo un concerto, ecco che Pistoia Blues Festival 2022 li riapre per ospitare un’altra protagonista del progetto Storytellers: la giovane cantautrice Ariete. Nata ad Anzio, classe 2002, l’artista, al secolo Arianna Del Giaccio, fa parte della corrente indie pop del panorama musicale italiano di cui in poco tempo è diventata protagonista con decisione e semplicità, passando dalla partecipazione a X-Factor del 2019 dove la sua eliminazione non è stata per lei un ostacolo, bensì un’esperienza che l’ha fatta crescere fino a portarla, ora, a calcare i palchi di tutta la penisola. 

Le strade di Pistoia sono questa volta riempite da un pubblico molto più giovane rispetto a quello di serate precedenti. All’inizio, sono circondata da vari adolescenti da soli, altri accompagnati dai genitori che, come me, si avventurano all’interno della piazza. Ci sono ragazzi anche più grandi, alcuni poco più che ventenni, che mi guardano con la stessa curiosità mista a divertimento con cui anche io e i miei amici, molti anni fa, guardavano i coraggiosi “zii” che si mescolavano alla nostra generazione. Quanto ci vuole poco, giusto qualche anno, per capire che l’amore per la musica non ha età. Altri non ci fanno caso, mentre qualcuno vede il pass e mi chiede informazioni pensando che sia della sicurezza. 

La serata si apre con l’esibizione dei BNKR 44, più che un gruppo, un collettivo musicale di sette ventenni della provincia di Firenze che scaldano il pubblico con il loro rap italiano, battute, il loro occupare ogni spazio libero del palco che trasmette la loro la voglia di divertirsi ed essere protagonisti della scena per tutto il tempo che gli è concesso. Nel frattempo, piazza del Duomo si popola sempre di più, l’età degli spettatori si alza, diventa più eterogenea, e anche se ormai lo sai, ogni volta è bello vedere come la musica riesca ad unire le generazioni, quelle che un po’ si amano e si scontrano nella vita di tutti i giorni, ma che per qualche ora si scorda dei conflitti per costruire un nuovo ricordo da condividere. 

Durante la pausa tra gli opener e l’esibizione di Ariete, i ragazzi sotto il palco applaudono, chiamano a gran voce l’artista, fanno commenti fisici e sentimentali, la voglia di ascoltarla e vederla si può quasi toccare. Improvvisamente, mi trovo in un bosco di cellulari alzati in attesa di cogliere l’attimo tanto atteso in uno scatto, forse in un video da far diventare una storia, il futuro ricordo del concerto. Finalmente, Ariete sale sul palco! Sono circondata da uno scroscio di applausi, gridolini di esultazione mentre guardo quella ragazza acqua e sapone, con il corpo esile perso dentro a un jeans e una camicia extra large, gli occhi che guardano tutti sotto la tesa di un cappello che lascia sfuggire qualche ricciolo bruno: l’anti-divismo fatto persona. E con la stessa semplicità con cui è salita sul palco, abbraccia la chitarra e lascia che le note di Specchio si diffondano per la piazza, per andare oltre lo sguardo serio dei palazzi, superare le transenne e girare per le strade della città. L’impatto emotivo esplode, subito, senza se, senza ma. 

Ariete canta molti dei suoi successi, che, anche se rispetto ad altri artisti più esperti possono non sembrare molti, racchiudono un percorso artistico e personale di rilievo, come Quel Bar, il suo primo singolo, che diventa parte del cuore musicale della serata con il suono morbido e fluido della sola chitarra acustica. In canzoni come Giornate noiose oppure Cicatrici, scritta a quattro mani con Madame, oppure Tatuaggi, l’artista non racconta la sua generazione come un narratore venuto da lontano, lei la rappresenta nelle sue dolcezze, nei disagi profondi e incerti, nelle certezze che sbaragliano molti quarantenni, nell’allegria e nella leggerezza dei vent’anni che non può e non deve essere condannata. La sua voce è dolce, ma non per questo non possiamo definirla decisa e consapevole di ciò che sta esprimendo, la musica arriva, ma non è aggressiva neppure quando dal semplice accompagnamento della chitarra si passa al supporto della band. I testi sono belli, c’è scrittura, voglia di comunicare parlando il linguaggio della propria età.  E poi c’è lei, che riesce a creare un legame emotivo con tutto il pubblico, quello venuto ad ascoltarla perché già la adora, ma anche quello che è lì per curiosità o perché trascinato da qualche figlio. Quella ragazza di appena vent’anni riesce a catturare l’emozione, sì.  Si muove sulla scena senza esitazione, ma non per questo scorda di essere lì, davanti a tanta gente, e ne senti tutta l’adrenalina, quella che forse abbiamo tutti a quell’età quando raggiungiamo qualcosa di bello, quella che alcuni artisti con tanti anni di esperienza alle spalle sembrano aver scordato, e che, per quanto tecnicamente bravi, hanno barattato per un qualche porto sicuro. 

Su quel palco, lei non canta e basta, parla, dialoga, scherza con chi ha davanti come un’amica, raccoglie i pupazzi e i reggiseni che le vengono lanciati, racconta del difficile periodo del Covid19 e della distanza sofferta da molti di noi, decide che quella distanza è l’ora di annullarla partendo proprio da quelle assi che la sorreggono e fa salire sulla scena tre fan, tre ragazze che con le loro storie di forza e fragilità si aprono a quella piccola parte di mondo pronta ad ascoltarle. Eccola la “generazione di imbecilli” che parla di sé, racconta abissi e superfici della gioventù, e non vedo e non sento niente che non abbia visto e sentito quando quell’età ce l’avevo anche io, e qualcuno guardava alla mia generazione col ghigno da primo della classe. Perché in fin dei conti “Essere giovani fa schifo/ e non poter decidere fa tanto male”, canta Ariete dal suo microfono, e il ritornello diventa un unisono, un canto comune, forse uno sfogo di una gioventù che ha il dito degli esperti di vita puntato addosso. I ragazzi cantano, cantano come fossero all’uscita di scuola, in attesa di un bus che li porterà chissà dove, e in fondo quello che sognano è solo la musica e un po’ di libertà. Lasciamogli vivere quei vent’anni, o quei quindici, quei venticinque, senza caricarli del peso dei quaranta, o anche oltre, delle responsabilità di un futuro che è ancora nelle nostre mani. Non condanniamoli solo perché quell’età non l’abbiamo più. 

Un commento a parte va a L’ultima notte, commissionata prima da Netflix come colonna sonora per la serie Summertime e diventata poi quella dello spot di un famoso gelato, e, ammetto, il brano con cui ho davvero conosciuto l’artista. La canzone colpisce per come rievoca l’allegria e la nostalgia di morbide sere d’estate passate tra amici, falò e sguardi innamorati, pesca tra i ricordi emotivi di un’età dove tutto sembra possibile e la vita la vivi in punta di labbra. Ariete colpisce per tutta l’emozione che riesce ad esprimere nelle sfumature della voce, nella sua interpretazione semplice e i sorrisi che senti su ogni parola. Questo ci mostra come con il famoso “sistema” musicale, quello più ampio, il mainstream, si possa collaborare rimanendo però, al tempo stesso, coerenti con le proprie scelte artistiche. Ariete lo dimostra, si può fare!

Il concerto si chiude con il rituale bis, dove l’artista canta la più recente Castelli di lenzuola e chiude con la più vecchia 18 anni, storie autobiografiche che arrivano al cuore e a qualche lacrima di chi le ascolta. Lei come sempre la interpreta l’ultima traccia con la sua naturale semplicità, ma il testo è spietato, ha in sè lo squarcio profondo in una vita adolescente che dovremmo ascoltare di più, forse conoscere un po’ meglio, e a volte chiederle anche come sta. Dicono che l’arte debba allontanare dalla banalità e scuotere, beh, Ariete lo fa, se glielo permettete e non la allontanate dalle vostre playlist solo per la sua giovane età. 

 

Alma Marlia

foto di Aurora Ziani

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Manuel Agnelli @ Pistoia Blues

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• Manuel Agnelli •

Piazza Duomo (Pistoia) // 12 Luglio 2022

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Pistoia è una città toscana famosa in tutto il mondo per i suoi vivai, per Piazza della Sala con i suoi locali e il cuore pulsante della vita della città, per il suo Duomo dove si incontrano l’architettura romanica e quella barocca. Una città con una buona qualità della vita dove trascorrere del tempo in modo gradevole. Eppure in piena estate, protetta dallo sguardo antico dei suoi monumenti, diventa un crogiolo di musica ed emozioni con il Pistoia Blues Festival. La manifestazione, che dal 1980 si svolge ogni anno nel mese di luglio, è un appuntamento fisso per ogni appassionato di musica che voglia ascoltare i suoi artisti preferiti o scoprirne di nuovi, e una tappa importante per molti musicisti non solo nostrani, ma provenienti da tutto il mondo. Un palco dove esperienza, novità, tradizione e sperimentazione si incontrano, per portare a tutti quel messaggio che non dovremmo mai scordare: la musica è essenza di vita che non si ferma, e sfugge a chiunque voglia trattenerla in definizioni a compartimenti stagni. E ringraziamo chi in quel palco crede ancora, nonostante tutte le difficoltà che negli ultimi tempi sembravano insormontabili, ma non ha mai rinunciato a creare e diffondere la bellezza dell’arte. 

Ieri, come ogni anno, Pistoia ha accolto il pubblico del Pistoia Blues tra palazzi storici e mercatini etnici, nell’armonia del contrasto che fa vibrare nell’aria la voglia di arte e creatività. Entrati in Piazza del Duomo, il campanile sorveglia ogni kick e ogni riff che si librano da un palco che non sembra essersene mai andato, come fosse parte essenziale della piazza stessa, un battistero di musica dove ogni nota è una bellissima benedizione. E sono gli Zagreb, band di alternative rock di Castelfranco Veneto, che aprono questa cerimonia con il loro ritmo deciso e forte, che colpisce e piace ad ogni colpo. La dimostrazione che quelli della musica sono gli unici colpi allo stomaco che non fanno male. Ad assisterli ci sono i primi ascoltatori, gli appassionati veri che amano l’underground, e i fortunati che riescono ad uscire da lavoro in tempo per godersi la serata dal suo vero inizio. Guardandoti intorno, vedi lo sguardo incuriosito e attento di chi non li conosce, ma sa di aver fatto una bella scoperta. 

Agli Zagreb, seguono poi i Bluagata, sempre gruppo alternative rock, ma della più vicina Prato. Potreste dire che giocano quasi in casa, data la vicinanza delle città, ma gli spettatori non lo sanno, e lassù, sotto le luci dei riflettori, l’unica vera identità è la musica con la passione, e loro ce ne mettono tantissima. La prima canzone è Comodità tratta dal loro ultimo progetto Di stanze e Nevrosi. Il brano parla della nevrosi del consumismo, i riff sono potenti e incalzanti, i testi tagliano i compromessi per arrivare lì dove è più scomodo farli sentire, il tutto in un loop nevrotico che scopri e non ti lascia. Proseguono poi tracce che alternano potenza e arie rarefatte, e la performance si conclude con i saluti e i ringraziamenti di rito a un pubblico sempre più partecipe, con una promessa di rivederci, speriamo presto. 

Mentre il buio scende sulla città, e le sedie attorno a me si riempiono gradualmente, l’atmosfera diventa surreale, l’aria si carica di attesa, c’è chi sussurra, c’è chi applaude per incitamento, c’è chi sbuffa dall’impazienza e chi beve birra a tutto spiano con l’avidità negli occhi puntati sul palco. A me sembra ancora tutto scuro quando si sente la voce cantare fuori dal palco. Sembra che le persone stiano per urlare ma il pubblico si blocca, incantato dalle parole “Ora lo so / Se è amore che vuoi/ No, non dipende da quel che fai”, l’effetto è quello di un sogno eppure siamo svegli o forse no. Non importa, dal buio, vestito con solo pantaloni, gilet e la sua voce, esce Manuel Agnelli e l’emozione, prima sospesa, esplode. Al semplice canto si aggiunge la chitarra elettrica e via via tutti gli strumenti. Le luci si accendono, e vediamo l’artista accompagnato da una band di eccezione dove troviamo anche Beatrice Antolini, Giacomo Rossetti dei Negrita e due componenti dei Little Pieces of Marmelade, Frankie e DD. Agnelli è il secondo grande protagonista di Storytellers del Pistoia Blues 2022, con una performance dove ha regalato al pubblico i brani che lo hanno reso celebre come leader degli Afterhours e i suoi nuovi brani da solista.

Molti penseranno che è facile avere una presa emotiva sul pubblico con Non si esce vivi degli anni ’80 oppure Male di miele, eppure le nuove collaborazioni e l’energia vocale dell’artista le rendono un’emozione nuova. Ascoltarle pensando di sapere già cosa succederà in ogni parola e rimanere spiazzati perché ci sono sfumature che ti prendono ancora di più è una sensazione bellissima. A quel punto non si può stare seduti, alcune persone si alzano dalla platea, si mettono ai lati e vivono il concerto con tutto il corpo, muovendosi, a volte a tempo, a volte no, ma non importa, la gioia che vedi sui loro volti rende tutto armonioso. Quello che però capisci è che Manuel Agnelli non lo puoi catalogare tra gli artisti da gusto di mezzo. Piace o non piace. Non è gradevole con riserva, né sgradevole ma potrebbe migliorare. Lui è ciò che è e non vuole mostrare niente di diverso, e sì è un artista divisivo perché c’è chi lo vede ormai omologato al sistema. Ma non è il sistema ad essere sbagliato in sé, è il modo in cui ti ci approcci che conta, e dopo aver cavalcato per anni la scena indie, Agnelli è riuscito ad entrare in una più ampia scena musicale dimostrando che se ne può fare parte rimanendo fedeli a sé stessi e proponendo i propri progetti curati e ben pensati; la sua capacità di scrittura non lascia niente al caso e non si è adeguato al modo semplice e veloce che impera in molte produzioni attuali. Profondità degli abissi, dalla colonna sonora del film Diabolik, è una dimostrazione di tutto questo. Agnelli ne racconta prima la genesi, le critiche che gli sono state mosse, mostra al pubblico il cuore con cui ha composto quella canzone, si mette a nudo ritenendoci persone a cui può fare quella confidenza. La sua interpretazione è da brividi, la canzone è bella, spietata, anche dolce se le permettiamo di raggiungerci. La voce di Agnelli è ferma ma vibra al tempo stesso di ogni emozione che ha messo in quel brano, e lì te ne freghi dei premi che ha vinto, ma non perché non abbiano valore, solo perché è un’emozione che va oltre la ragione, abbatte la logica, e anche dove fa male, ti rende felice. 

Pistoia Blues 2022 ha dato al suo pubblico la possibilità di vivere qualcosa di magico, fuori dalle dinamiche di chi critica solo per il gusto di farlo. Se Agnelli non volete ascoltarlo non ascoltatelo, non fatevi paladini di non si sa cosa facendo la morale su cosa debba fare o non fare, perché la sua onestà intellettuale sta nella musica ben fatta e nella capacità di trasmettere la passione per ciò che fa, in testi e composizioni che sfuggono alla banalità senza per questo ingozzarsi di parole ricercate che alcuni artisti prendono dal dizionario del desueto solo per fare colpo. Decidete se volete essere la piccola iena di cui canta o se volete una pelle splendida. Ma vivetelo, in ogni suo concerto, perché è lì che me capirete la forza e il messaggio. Smettete di picconare solo per il gusto o la moda di farlo e lasciate che l’emozione faccia il resto.

Il concerto si chiude con il bis di rito, che, ammetto, un po’ odio, ma forse anche l’artista condivide il mio pensiero, o così sembra, perché tutti si assentano giusto il tempo di bere un bicchiere d’acqua, e ritornano sul palco con la consapevolezza di dover chiudere, ma senza la voglia di farlo. Rimane nell’aria la loro musica, la voce del mio passato ancora presente, persone felici che escono e popolano di nuovo le strade della città piene di luci. Il silenzio è dietro l’angolo, l’adrenalina lotta con il sonno, gli scuri delle finestre accolgono l’emozione ancora viva. Non puoi fare altro che aspettare, con la promessa di un altro concerto, e la ritrovata spensieratezza delle sensazioni dei vent’anni. 

 

Alma Marlia

foto di Letizia Mugri

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Firenze Rocks 2022

Cosa resta di uno degli eventi musicali post-pandemici più attesi? Polvere sulla pelle bruciata dal sole, le ultime transenne spostate dagli addetti ai lavori, un senso di vuoto dove riecheggiano le tante voci, i tanti accenti, i tanti dialetti che si mescolavano tra i rami del parco che circondavano la Visarno Arena, a Firenze, e la musica, tanta, tantissima, ascoltata, sentita e vissuta fino allo sfinimento del Firenze Rocks 2022. Dopo ben due anni di attesa, cancellazioni, decreti, distanze, mascherine, dolori, paure, inquietudini e incertezze, i primi concerti per la città e un’inaugurazione letteralmente coi botti per il concerto di Vasco Rossi tenutosi il 3 Giugno, l’arena immersa nel verde delle parco delle Cascine ha nuovamente ospitato i quattro giorni di musica dove gruppi internazionali punk, rock e metal hanno riempito l’aria di riff di chitarre, kick di batteria, fraseggi di basso e voci che urlavano ancora tutta la voglia di fare musica, ora come allora e come sempre. 

Lo spettacolo inizia il 16 Giugno con i Weezer e i Green Day, due gruppi che hanno rivoluzionato la percezione del rock mainstream e che hanno nel loro passato il 1994 come data in cui entrambi pubblicarono album che sono diventati pietre miliari del pop punk e del college rock: Dookie e Blue Album. Quando attaccano i Weezer, Rivers Cuomo incanta il pubblico parlando e suonando e dimostrando con l’assolo di Africa dei Toto che non solo anche le cover hanno un loro perché su un palco così grande, ma anche che 52 anni non sono assolutamente percepiti né da lui né da chi lo ascolta, concetto ribadito dal leggermente più giovane, anche se non troppo, Mike Dirnt che con Billy Joel Armstrong dei Green Day, gli succede sul palco. Giri di basso che si fondono con la chitarra per darle spessore, arricchire le melodie, creare una struttura dove gli artisti suonano e giocano tra di loro, con gli altri musicisti e il loro pubblico attraversando vecchi e nuovi successi. Quando le prime note di Basket Case si librano nell’aria, alcuni occhi si riempiono di ricordi vissuti, altri di ricordi ancora da vivere, tra cui quello di un ragazzo che sale sul palco, suona con loro e riceve una chitarra in regalo. Neppure tu sai se è sogno o realtà, forse sei solo lì sul limite di entrambi, ma non importa, quello che conta è l’emozione perché è un po’ come se la chitarra la stessi ricevendo anche tu. 

Il giorno dopo, nel tardo pomeriggio, un bagno di folla eterogenea si muove attorno al palco per ascoltare prima i Placebo e poi i Muse. Brian Molko domina visivamente più maturo, un look diverso da quello più androgino che lo caratterizzava all’inizio della carriera, eppure la voce è sempre la stessa, come se il tempo non l’avesse toccata: surreale e trascinante. Quella voce, quella musica, la sintonia con il gruppo fanno uscire l’energia che ha rivoluzionato il rock e l’elettronica fondendo generi diversi tra loro, la fame di espressione è la stessa del pubblico di farne parte ed essere divorato con essa. Pure Morning è l’essenza del desiderio di trascendere la propria realtà, eppure di fondersi contemporaneamente con i corpi nell’arena che si muovono, sudano, mentre le labbra biascicano parole e si preparano all’arrivo dei Muse, che dimostreranno di essere un motore che gira ai massimi livelli. Il pubblico è ipnotizzato dall’intensità dell’esibizione di Matt Bellamy, Dominic Howard, Chris Wolstenholme con Dan Lancaster a cori, tastiere e sintetizzatori, rimanendo, però, come sospeso nelle ballate centrali. Delle luci fredde accolgono suoni perfetti, scenografie tra il teatrale e il futuristico, effetto alimentato anche dell’outfit del gruppo che si muove in una scaletta che tocca tutta la carriera per offrire, poi, in anteprima il brano Will of the People, parte del loro nuovo progetto in uscita ad agosto. La serata si chiude tra sorprese e fuochi d’artificio, in un’aria piena di note, che ti porti a casa, sulla pelle con tutta la polvere, nei sogni del giorno dopo. 

Della terza serata sono padroni i Red Hot Chili Peppers che, nonostante la lunga esperienza musicale, si esibiscono con la stessa sfrontata follia adolescenziale che li ha sempre caratterizzati davanti agli occhi dei fan mentre accolgono a braccia aperte l’intro funky rock esplosa nell’aria per saltare poi su Can’t Stop. Flea, Smith, Kiedis e Frusciante dimostrano che la musica è la migliore distrazione per il tempo e non farlo passare, perché sembra che niente abbia intaccato la loro voglia di dare il massimo. Come per gli altri gruppi, il concerto è un balletto tra grandi hit e nuove canzoni dove la band vibra in lunghi momenti strumentali a tratti psichedelici. Ma è soprattutto Frusciante che si concede al pubblico rapito dal chitarrista che regala assoli di pura adrenalina, la stessa con cui si chiude il concerto attraverso i colpi che a me sembrano infinti di By The Way, e i corpi si muovono ad ogni battito, forse è il cuore, oppure il piede di chi ho accanto che colpisce, ma non importa, quello che conta è essere lì e vivere quella musica che scava dentro di te per tirarne fuori tutto ciò che puoi dare, anche se non sai esattamente cosa puoi dare. 

Mentre te lo chiedi, passa la notte, il sole accoglie gli stivali anfibi che si avvicinano all’arena incuranti dei tantissimi gradi e dell’afa che li circonda. Ti chiedi come possa essere possibile, ma la risposta sta tutta lì, nel metal e nel nome di una delle band che ne ha fatto la storia: i Metallica. Il nero domina più che negli altri giorni, su persone di età ed estrazioni diverse, mentre i colori, invece, li raccogli dai più svariati tatuaggi, la voglia di sentirsi parte di un insieme sta nei piercing, mentre l’attesa si mescola al sudore, ma ne vale la pena, perché da lì a poche ore la Visarno Arena sarà invasa da fiamme sonore. Aprono i Greta Van Fleet, gruppo divisivo tra puristi e nostalgici, tra apprezzamenti, perplessità e critiche, ma loro sono lì, su un palco dove ancora molti possono solo lontanamente sognare di salire, quindi suonano e se ne fregano, per loro è importante vivere il momento e lo fanno con dignità anche se ben sanno che è il pubblico freme per vedere James, Kirk, Lars, Robert, che suonano a Firenze per la prima volta. Quando i Metallica salgono sul palco, la tensione sale vertiginosamente, il boato dei fan sovrasta l’intro per un attimo, qualcuno piange dalla gioia. Forse è per questo che i maxischermi inquadrano sempre e solo loro, o forse perché non puoi staccare gli occhi e le orecchie da quello che succede lassù mentre respiri quello che succede sotto il palco. Whiplash racconta è potenza senza compromessi, non c’è la ricerca della foto da social e dello sguardo piacione, mentre un attesissimo assolo di James con Nothing Else Matters scioglie pure una cinica come me. Quella che vedi sul palco si chiama voglia di esistere e loro lo fanno attraverso la propria musica lanciata a mille, e sai che anche quando tutto sarà finito e le luci saranno spente, quella voglia di essere ti sarà già entrata dentro per non lasciarti più. Che piacciano oppure no, sono la storia della musica, e ti rendi conto del perché. 

Infine, ecco quello che rimane di Firenze Rocks 2022: tante parole, recensioni che scivolano tra l’approccio tecnico e il percorso emozionale. Ma come potrebbe essere altrimenti? Si sono esibite delle vere e proprie macchine da guerra che tra successi intramontabili e nuovi progetti hanno dimostrato a tutti che il tempo è la musica che ne fai, e che chi li vorrebbe pallidi ricordi di loro stessi, dovrà ancora aspettare un bel po’ per avere soddisfazione. Tuttavia, l’aspetto più bello di tutta questa esperienza sono state le persone, parlare con loro condividere quei momenti al limite tra la resistenza fisica e l’apertura di tutte le sensazioni che pensavi sopite in questi due anni. La bellezza dello sguardo appena diciottenne di Martina venuta dal nord che con gli amici voleva vedere dal vivo i gruppi che i genitori le hanno fatto ascoltare fin da piccola e che si “Godranno con qualche video”. Oppure la wish list di canzoni dei RHCP che avrebbe voluto sentire Andrea mentre sognava il concerto mangiando un panino alla poca ombra di un albero in attesa dell’apertura cancelli. La famiglia che fuori dalla Visarno Arena ascoltava i concerti insieme ai figli, perché “Comprare l’abbonamento per i quattro giorni ora è un po’ troppo per le nostre tasche, ma alla musica non si rinuncia”. Oppure come Maurizio e Gabriella che tramite i social hanno fatto vivere le loro idee e le loro sensazioni, con lo sguardo di chi ancora non ha perso la voglia di farsi affascinare, coinvolgere e condividere ciò che la musica può fare. E così molti e molti altri, che una semplice recensione non può racchiudere in tante poche parole, ma che spero vi abbia fatto percepire nel suo immenso bagliore, perché alla fine, Firenze Rocks non è solo la musica, ma è la gente che la respira e ne fa parte. 

 

Alma Marlia