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Tag: concerto

Genova e la musica: un pomeriggio con i Banana Joe

Il 13 dicembre prossimo al Mikasa di Bologna, suoneranno per la prima volta i Banana Joe, band tutta genovese fresca di secondo posto al Rock Contest 2018.

Noi di VEZ abbiamo già conosciuto i ragazzi e ne abbiamo anche recensito l’album Supervintage (uscito il 26 ottobre, Pioggia Rossa Dischi, ndr), un freschissimo primo lavoro che travolge e talvolta, commuove, per quel sound grunge anni ’90 che, shakerato, non mescolato, fa breccia nel cuore di noi amanti del moderno/passato e della psichedelia dei fantastici sixties.

E poi li abbiamo conosciuti durante il Concerto per Genova quando ci hanno accolto sorridenti a concerto ultimato. Disponibili e gentili, con quell’attitude seria ma rilassata di chi ama seriamente il proprio lavoro e lo fa con passione, ci hanno salutato con la promessa di rivederci presto.

Oggi abbiamo intervistato Andrea, frontman e voce del gruppo.

 

Andrea, una domanda al volo, su due piedi: ma quanti anni avete? Siete davvero giovanissimi!

Beh, io di anni ne ho 25, Emanuele ne ha 30. In verità chi abbassa la media è Fulvio, il nostro chitarrista: ne ha 24.

 

E come vi siete conosciuti?

Fulvio e io ci siamo conosciuti ad una grigliata estiva sulle rive del Varenna a San Carlo di Cese (dei nostri amici ci hanno addirittura scritto sopra una canzone). Una festa dove si è mangiato tanto e si è anche bevuto, diciamo (ride). Abbiamo iniziato a jammare con batteria e chitarra e abbiamo capito che in qualche modo sarebbe stato bello poter lavorare assieme.

Era però il caso di trovare un vero batterista, perché appunto Fulvio suona la chitarra. Abbiamo invitato Lele, che già conoscevamo, al nostro primo live quando abbiamo aperto la data dei Combine, gruppo tedesco di origine iraniana.

E così siamo riusciti ad avere il nostro batterista, mentre prima c’erano solo turnisti.

 

Chi scrive la musica e i testi?

Ogni pezzo ha una scrittura a sé. Talvolta sono io che scrivo la musica e Fulvio magari scrive i testi. Oppure Lele il testo e Fulvio la musica. Oppure è un lavoro fatto assieme, in contemporanea. In realtà è molto difficile capire chi ha scritto cosa.

La risposta giusta sarebbe: “Musica e testi li scrivono i Banana Joe. Assieme”

 

E i Banana Joe, hanno un luogo del cuore, un luogo che amano e dal quale sono ispirati?

Ah per prima cosa i vicoli di Genova. Tutti i vicoletti di Genova.

Girando la movida genovese siamo sempre lì, tra i suoi caruggi e sicuramente questi hanno avuto una grande importanza nella scrittura dei pezzi e dei testi.

La periferia poi riveste per noi un ruolo davvero basilare. Genova Bolzaneto e Genova Sampierdarena sono due quartieri che siamo soliti frequentare poiché il primo è dove abbiamo il nostro studio di registrazione e poi in entrambi ci sono dei piccoli bar che somigliano tanto a quei baretti di periferia che amiamo tanto.

Una menzione in particolare va anche ai Giardini di Plastica, che in realtà si chiamerebbero Giardini Baltimora.

È uno spazio che dà il nome ad un pezzo che andrà nel nostro prossimo album ed è una zona che ci è rimasta molto impressa. Quando eravamo piccoli era uno spazio degradato anche se in realtà era nato come luogo per far giocare i bambini.

Sai quei parchetti dove le famiglie alla domenica portano i bambini a giocare, e dove appunto ci sono tutti questi giochi in plastica? Ora è in riqualificazione.

 

Noi ci siamo incontrati al Concerto per Genova, esperienza che per me da emiliano-romagnola è stata molto toccante. Come l’avete vissuta questa tragedia da “errore umano” e con che spirito avete partecipato al concerto?

Abito vicino a dove è successo il crollo del ponte (Ponte Morandi, ndr). Ero fuori a fare la spesa, pioveva a dirotto e ho sentito un boato. In quel momento pensi a tutto ma sicuramente non ad una cosa come questa.

All’inizio infatti non ci credevo. Mi sembrava una cosa impossibile. Per andare alle prove ci passavamo sotto ogni giorno. Lele infatti era a 300 metri dal luogo del crollo.

Ogni volga che passiamo di là, perché ora hanno aperto nuovamente la strada, viene un po’ di magone perché non sembra vero. Non vedere più quel ponte è una cosa sulla quale non fai mai l’abitudine.

Suonare a questo evento è stato bello, poiché Genova è una città attiva, ma solo in determinate situazioni. A livello culturale sembra molto provinciale, e questo anche per quanto riguarda la musica e i locali. Sembra quasi chiusa.

In questa circostanza invece abbiamo notato che le persone si sono attivate per far capire che la popolazione c’è. E così ci si rialza dal basso, e si va avanti.

 

Ma parliamo del Rock Contest 2018. Un bel secondo posto….

Sì, bellissimo. Il Rock Contest io l’ho conosciuto tramite il cantante del gruppo Lo straniero, gruppo piemontese di La Tempesta Dischi. È un contest molto ben organizzato e con un livello molto alto delle band in gara.

I live sono gestiti nel migliore dei modi e mi è stato riferito che molte band vogliono partecipare. Delle circa 800 domande pervenute, solo una trentina sono state selezionate.

La finale è stata bellissima e in giuria giudici del calibro di Maria Antonietta e de I Ministri. Presenti anche etichette come Woodworm. Una gran bella vetrina per noi genovesi competitivi e anche se avremmo desiderato il primo posto, siamo davvero orgogliosi.

E scherzi a parte, fosse stato per me avrei fatto vincere tutti. Ottimo livello e ottimi compagni di avventura.

 

Qual è il vostro rapporto con la stampa e più in generale con tutti i media?

Se non ci fosse la stampa non si conoscerebbe la musica.

Noi con i giornalisti ci siamo sempre trovati bene ed è veramente piacevole sapere che ci sono persone interessate a te e che vogliono conoscere la tua storia.

L’informazione in Italia rispetto agli altri paesi è comunque ad un livello piuttosto basso. E per questo va protetta e incentivata, non di certo fermata.

 

Ultimissima domanda, qual è la cosa che amate di più fare quando non vi occupate di musica?

A me piace tanto il cinema, Fulvio si dedica alla cucina perché è un cuoco provetto e di Lele posso dirti che ama tantissimo fare il papà. Ha un figlioletto di 6 anni e quando ne ha tempo, anche lui ama andare al cinema come me.

Una cosa che invece ci lega come gruppo, togliendo appunto la musica, è il fatto che siamo dei cazzoni! No seriamente, le nostre prove in studio sembrano puntate di Zelig. Lavoriamo con impegno e serietà, ma l’umorismo è uno dei nostri collanti principali.

 

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Banana Joe & Me, Concerto per Genova, 17 novembre 2018

 

Grazie mille Andrea e grazie ai Banana Joe.

Ci vediamo il 13 al Mikasa di Bologna.

E lì, ci andremo a bere una birra.

 

Sara Alice Ceccarelli

Dalla Parte degli ultimi per sentirmi primo

C’è un ragazzo nato nel 1996, di nome Niccolò, in arte Ultimo, che scrive canzoni.

Mi lego alle sue parole sin dal suo esordio. Nasce una sorta di chimica tra il mio mondo ed il suo. Un mondo fatto di parole, un mondo di sognatori cronici che credono, appunto, nei propri Sogni appesi.

E così le parole di questo giovane ragazzo diventano mie, poiché ogni testo potrebbe essere un capitolo di un mio libro. Come se potessi finalmente posare la penna o magari lasciare a qualcuno il compito di scrivere per me e di me.

Perché è questo che fa: descrive perfettamente le mie sensazioni. Mi tocca l’anima. Lui canta e io mi perdo in quelle frasi.

Un ragazzo fuori dagli schemi in questi anni così poveri di cuore, di una sensibilità che tocca corde troppo profonde per non rimanerne folgorati.

Un ragazzo umile che ringrazia il proprio pubblico in continuazione, ora come tempo fa, quando in totale erano dieci o venti persone al massimo. Ma non ieri.

Ieri a Roseto degli Abruzzi presso il Pala Maggetti c’è stato il suo primo concerto in un Palazzetto (sono 227 chilometri da Rimini, ma sono dettagli. Tanto ormai conosco a memoria tutte le aree di servizio della A14).

Previste inoltre altre due tappe, entrambe sold out, a Roma e a Milano che fungono da anticipo a quello che sarà poi il tour del 2019. Tour che prenderà il nome del suo prossimo album Tutta colpa delle favole.

Comunque ci siamo, è il 30 ottobre e mi metto in macchina, attivo la modalità me, myself and I e mi sparo due ore di viaggio, per un concerto che aspettavo da mesi.

Fazzolettini in borsa (con me non ne ho mai) pronti per l’occasione unica. Io e la mia consapevolezza, due best friend come sempre.

Arrivo un quarto d’ora prima e parcheggio nell’unico posto libero che riesco a trovare, uno con una cicogna disegnata a terra. Ne deduco non sia per me, ma procedo ugualmente.

Ci siamo. Ci sono. Sono da sola solamente in apparenza.

C’è un’atmosfera difficile da spiegare, perché spiegare la magia credo sia impossibile e quindi non resta che viverla, perché l’unica cosa possibile con la magia è una: respirarla.

Inizia il mio centosessantesimo concerto in trentun anni di vita. So tutte le canzoni a memoria e oggi ho poca voce.

Quasi tre ore di musica, tre ore intense, come ogni singola parola venuta fuori da quel microfono. Una scaletta ricca di tutti i suoi successi fatti di paure, sogni, speranze e amore.

Da Il ballo delle incertezze a Ti dedico il silenzio e ad una delle mie preferita Stasera. Cazzo quanto amore c’era! E quanto ne trasmette!

Ultimo non è solo un cantante e i suoi concerti non sono solo concerti. Le sue canzoni hanno un’anima come tutte le persone presenti.

Anime rare, probabilmente, che hanno il coraggio di credere in cose impossibili e nei sentimenti come base della propria vita. Disgraziati come me, insomma.

Tanta emozione da parte mia, e anche lacrime, perché di fronte a canzoni come L’eleganza delle stelle, Farfalla bianca o Cascare nei tuoi occhi la commozione è inevitabile.

I suoi testi sono poesie che non si limitano a parlare d’amore, perché Ultimo con le parole, l’amore lo fa. Lo crea. Lo scolpisce. Lo infligge. Tipo lezioni che non puoi dimenticare.

Quando si siede al pianoforte, si spegne il mondo e si accende solo lui. E nasce la magia nella magia.

Pieno di vita, ecco come definirei Niccolò, che ha cantato ma anche lasciato e lanciato messaggi di speranza su quanto a volte sia fondamentale lottare con le unghie e con i denti per ottenere ciò che si desidera.

E su come la felicità costi anche dei sacrifici ma che non è giusto mollare solo per la paura di farli.

Ne è valsa la pena tornare a casa a notte fonda, non solo per quello che mi ha lasciato dentro e addosso, ma soprattutto perché mentre tornavo a casa ho visto anche una stella cadente.

E forse era quella La stella più fragile dell’universo e ho espresso un desiderio.

Non venitemi a dire che la meraviglia non esiste.

Io la vedo ovunque.

Claudia Venuti

Damien Rice – Wood Water Wind Tour – 22 luglio 2018 – Teatro Romano di Ostia Antica

Damien Simona Panzini

Damien 3 Simona Panzini

 

Un sabato mattina, mentre andavo in spiaggia, ho ricevuto un messaggio che citava: “il tuo accredito stampa per Damien Rice di domani sera a Roma è stato accettato”. Superati i 30 anni, non mi succede spesso di lasciare che il fan boy che vive in me abbia la meglio sull’anziano stanco e voglioso di mare, ma Damien Rice è una delle mie bestie nere, non ero mai riuscito a vederlo e nelle mie dita non c’era più spazio per legarsene un’altra.

Non ho dovuto ragionarla un secondo ed ho risposto a Sara Alice (direttrice di VezMag) con un vocale di cui ricordo solo un cumulo di almeno dodici sentimenti contrastanti sintetizzati in tre secondi, contenente almeno nove volte la parola .

Tra l’altro Sara Alice ha il dono di saper amplificare le emozioni quindi mi ha chiesto di abbandonare l’idea di un articolo formale e di “lasciar correre la penna” dando spazio a tutto ciò che provavo dal viaggio di andata a quello di ritorno dall’Antico Impero, quindi la lunga introduzione e le future divagazioni di questo “diary report”, passano come scelta redazionale.

Best situation ever.

L’estremo “last-minute mode” della missione, complice la mia goffaggine nell’organizzare viaggi e alloggi, mi ha costretto a fiondarmi subito a casa per trascorrere il poco tempo che restava a fare la valigia e cercare trasporti low-cost. La maledizione della bestia nera non si fa attendere troppo e già nella tratta spiaggia-auto spunta come dal nulla una mattonella dal terreno ed è subito pollicione tagliato [vedi foto 1], scarpe e calzini impossibili da indossare.

 

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[foto 1]

 

Ma se è vero che i centurioni han combattuto in sandali, io qualche chilometro senza gladiatori da sconfiggere io posso farlo. Tra poco parlo di musica, promesso.

Nel weekend del 21 e 22 luglio, è stato semi-confermato uno sciopero nazionale dei trasporti ed il mio viaggio ovviamente inizia con un treno. L’ho già detto che non sono un pro con i trasporti pubblici? Ad ogni modo riesco a prenderlo al volo come nei film ma senza applauso, e sbaglio outfit: la t-shirt dei Say Anything a tema ebreo [vedi foto.2] attira l’attenzione di più di un passeggero e le infradito con cerotto nell’alluce, fanno di me lo zimbello del vagone.

 

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[foto 2]

 

Da non sottovalutare la mia faccia con un sorrisetto demenziale stampato dopo essermi reso conto che forse davvero sarei riuscito a vedere Damien Rice. Scrivo a Sara “non ci credo finché non ce l’ho davanti” e proseguo serenamente il viaggio.

Nonostante i trascorsi, le premesse e la voce che in sottofondo spezzava la tranquillità ribadendo, in ogni mezzo di trasporto, la forte possibilità di disagi dovuti allo sciopero, al Teatro Romano di Ostia Antica ci sono arrivato, puntuale e gasatissimo.

Ero così preso nel risolvere uno alla volta i problemi del viaggio che non avevo pensato a cosa mi avrebbe riservato la location. In effetti, sia il nome del teatro che l’artista in questione mi avrebbero dovuto far riflettere ma niente, ho spalancato gli occhi e dato spazio allo stupore solo una volta passato il cancelletto d’ingresso, viaggiando così indietro nel tempo di un paio di millenni.

Rovine antiche, portici, colonne, pilastri, nicchie ed arcate circondano tutto il percorso che porta all’ingresso del teatro, ed io ho marciato a testa alta, mezzo zoppo e vestito da turista sfigato, come se avessi trionfato in guerra.

Questa volta ci siamo, lo sto per vedere.

Il Teatro Romano è qualcosa di pazzesco, la sua vista toglie inevitabilmente il fiato, con il quel sapore antico, la luna splendente, gli alberi dietro al palco, le luci e l’atmosfera che solo Roma sanno dare, infine quei gradoni e quel palco che il concetto di spettacolo lo hanno visto nascere.

 

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Mentre entro e cerco posto a sedere, si sta esibendo tale Gyda Valtysdottir (difficile da scrivere anche con Google e qualcuno che detta), sola con il suo violoncello e fighissima in quel palco illuminato da ciò che resta del sole alle 20:15, come per dire: cercate posto ma con stile.

Da qui passo un’ora abbondante a bocca aperta a pensare, scrivere, fotografare, ascoltare e rendermi conto che ce l’ho fatta. Ai 4000 presenti con tanto di sold-out è sembrato tutto più che normale, a me è parso di vincere la lotteria e dire che di concerti rocamboleschi ne ho visti tanti!

Passa velocemente e soavemente anche la mezzora di Mariam The Believer, che mi da il tempo di riflettere e documentarmi sul perché Damien Rice sia sempre contornato da musiciste donne, scoprendo, dopo una veloce ricerca, la sua affinità con l’universo di arte e femminismo (su Instagram ad esempio segue solo 9 persone tra cui la pagina ufficiale di Frida Kahlo, il MoMA e la Tate Gallery, oltre alle artiste che lo accompagnano dal vivo).

Il mio posto è tra primi davanti, parte l’applauso quando si spengono le timidissime luci, ora mi tocca crederci, ce l’ho di fronte. Non mi perdo in presentazioni o note biografiche, ho già esagerato con le premesse e l’aspettativa che ho cercato di creare rischia di non essere all’altezza del risultato.

Niente di più falso, vado dritto al sodo: Damien Rice mette i brividi, pelle d’oca al primo accordo, la voce è perfetta, la chitarra è volutamente impercettibile, si trema. Non sapevo come aspettarmelo dal vivo, sarà depresso? Sarà uno scorbutico irlandese che a causa del cielo nuvoloso e qualche storia d’amore finita tragicamente ha scritto i tre album più tristi della storia?

Qui Damien mi ha spiazzato, è un giocherellone! Intrattiene, fa battute che non ti aspetti tra una canzone e l’altra, improvvisa, chiede sigarette al pubblico, ne esce con battute intelligenti che ti fanno comprendere ed avvicinare al suo modo di comporre quelle canzoni così intese.

Come promesso continuo a parlare di musica: zero momenti di noia nonostante la sua poca varietà nei suoni, per quasi tutto il concerto si esibisce da solo, alternando chitarra e piano, a volte spingendo sulle dita, spesso lasciando la scena alla voce, penetrante come su disco, forse qualcosa di più.

Se ne sta lì, quasi al buio a strappare applausi a scena aperta con canzoni di una tristezza disarmante e col suo fare impacciato, a volte ricominciando la canzone perché (grattandosi la testa): “ops, sono partito dalla seconda strofa!”. Insomma è impossibile non volere un bene dell’anima a uno così!

Nel finale tornano sul palco le sue girls, formando una quintetto con archi, piano e chitarre per sganciare bombe di lacrime come colpi da KO, “9 Crimes” su tutte, per poi concludere con “The Blower’s Daughter” in versione unplugged a contatto col pubblico. Una coltellata fa male uguale.

Una volta riaccese le luci scatta l’effetto cinema, l’universo Damien si dissolve e si torna con i piedi per terra, 5 minuti di applausi.

È sicuramente difficile fare una valutazione oggettiva di questo concerto ma, per fortuna, non mi viene richiesta, quindi mi limito a consigliare vivamente di compare una stecca di fazzoletti e prenotare il posto per un live di Damien Rice.

Per molti può essere una delle esperienze più malinconiche di sempre, per me si è trattato di felicità allo stato brado.

Grazie di tutto Livenation e grazie a Simona Panzini che ci ha gentilmente concesso a pubblicazione di tre dei suoi meravigliosi scatti della serata.

Alla Prossima.

Stefano “Cece” Gardelli

 

I Pearl Jam a Milano aprono il loro mini-tour Italiano

I-days 2018
Pearl Jam

 

Ansia. Questa è la parola che sceglierei per descrivere i giorni che hanno preceduto l’atteso concerto dei Pearl Jam agli I-days 2018. Ansia perché dopo l’annullamento dello spettacolo di Londra anche l’appuntamento di Milano era a rischio. E dopo 7 mesi di attesa non ero pronta a ricevere una notizia simile, soprattutto a causa di un mal di gola.
Quindi dopo che hanno confermato la loro presenza al festival milanese tutto il resto sembrava secondario. Non importava la camminata sotto il sole cocente e non importava nemmeno avere perso i miei amici e aver rischiato di rimanere a piedi. A quel punto l’unica cosa che importava era essere li.

Prima dei Pearl Jam si sono esibiti gli Sterophonics che hanno dimostrato di saper gestire una folla come quella che ieri ha riempito l’aera expo di Milano, la location che quest’anno è stata scelta per ospitare gli I-days.
La band gallese, che è stata sul palco per circa un’ora, oltre ad aver portato i loro pezzi più famosi ha accennato un piccolo tributo ai Pearl Jam con le note iniziali di Given to Fly. La folla è impazzita.

Penso che sia stato quello il momento che tutti aspettavano; l’istante che ha fatto pensare a tutti “ecco ci siamo”.

E poco dopo è iniziata la magia.

Quando Eddie Vedder è salito sul palco, parlando in un italiano maccheronico, intonando Release nella nostra lingua, tutto sembrava essere perfetto e le preoccupazioni dei giorni precedenti sono volate via.
Nonostante fosse sotto tono e abbia fatto fare un grande lavoro al pubblico e al suo chitarrista le emozioni che ha regalato a chi era presente sono state tante. Non importava la lontananza o la vicinanza dal palco: essere al centro della folla, tra 60.000 persone che saltano e cantano Even Flow è stata un’emozione unica.
Tanti intermezzi parlati, forse per dare il tempo al cantante di riposare un po’ le corde vocali. E proprio nel bel mezzo del concerto c’è stato il momento più romantico della serata. Eddie, in un italiano traballante e un po’ da commedia americana, ha letto una lettera in cui ricordava il primo incontro con la moglie avvenuto proprio a Milano 18 anni prima. E dopo averla chiamata sul palco, con una bottiglia in mano, hanno brindato insieme. Musica e romanticismo, non si poteva chiedere di più.
Scaletta ridotta, viste le condizioni di Vedder, ma ricca di grandi classici e tributi a band come i Pink Floyd, Van Halen e Neil Young.

E mentre al termine del concerto ripercorrevo la camminata a ritroso per tornare alla macchina, continuavo a chiedermi “Chissà come sarebbe andata se fosse stato in forma”.
Credo che per avere una risposta tornerò a sentirli alla prossima tournée europea. Perché davvero ne vale la pena.

 

Laura Losi

 

 

Foto di Stefanino Benni

Un grazie di cuore a The Front Row

 

 

 

Ghemon e i suoi 36 anni a MEZZANOTTE

 

 

Ore 24:00

Auguri Ghemon!

Buon Compleanno!

 

Si perché Ghemon ha festeggiato in Romagna il proprio compleanno, il 31 marzo sul palco del Vidia Club di Cesena. Assieme a tutti noi a Mezzanotte, come il titolo del suo ultimo album. E proprio a mezzanotte un boato di auguri dal pubblico e la sua commozione sono stati i protagonisti per 60 secondi. Lo abbiamo intervistato qualche giorno prima del concerto, e già da quello scambio di battute eravamo emozionate e ansiose di assistere per la prima volta al suo live.

Ciao Ghemon. Siamo Sara Alice Ceccarelli e Claudia Venuti di VEZ Magazine. Grazie per aver accettato la nostra richiesta di intervista.

Ma grazie a voi! Mi piaceva tanto il nome quando l’ho letto sul calendario. Ero davvero curioso di parlare con voi.

Il tuo genere musicale è un genere al quale si associano, spesso superficialmente, sempre gli stessi temi. Temi come la droga, la vita di strada, il vivere di espedienti. Il tutto condito da una sorta di autocelebrazione. È un genere nel quale nessuno si mette mai veramente a nudo, mentre tu lo fai ed è un tratto distintivo della tua musica. Quanto è intenzionale questa cosa e quanto ti viene spontanea?

È estremamente spontanea, da subito è stato così, da subito non ne ho potuto fare a meno e ho proseguito su quella strada. Quello che dite è vero. So bene quali sono alcune caratteristiche che riguardano la scrittura del rap o i personaggi che vengono descritti. In qualche modo, tra virgolette, ci sono pure affezionato a livello di utente, perché so come e perché è nato il rap e certe cose hanno fondamenti e basi storiche e artisticamente parlando hanno un senso se vengono scritte in quel modo. Il problema nasce quando chi le scrive e le canta talvolta non è del tutto consapevole di questo background. È un peccato, perché poi si perde l’autenticità. Quindi ho semplicemente pensato di essere me stesso, senza dovermi adattare agli stilemi del genere rap o alle aspettative che si hanno sui temi che di solito vengono trattati. Mi sono detto “questo sono io, con tutti i miei difetti, ed è questo che voglio scrivere” ed è venuto tutto in maniera molto naturale. Se è questo quindi quello che traspare, vi ringrazio di avermelo detto. È un complimento.

In una tua intervista di qualche tempo fa avevi dichiarato di aver vissuto un periodo di isolamento, una sorta di distacco dalla realtà. L’hai fatto per ritrovarti e che impatto ha avuto sulla tua scrittura?

Un ritiro di questo tipo non è facile da vivere, ma lo si fa con le migliori intenzioni, per una crescita. Sicuramente ha avuto un grande impatto sia su di me che sulla mia scrittura, anche perché quando mi prendo del tempo lo faccio appunto tentando di evolvermi, di migliorare la situazione presente nei limiti del possibile, ovviamente. È stata una necessità perché venivo da due anni e mezzo di tour nel quale ho cantato, conosciuto tanta gente, parlato tanto e viso tante cose. Avevo come la necessità di andare in “cantina”, diciamo, di ritirarmi per conto mio. Ogni tanto ho bisogno di silenzio, di partire, e delle volte le persone me lo chiedono se sono vivo o se sono morto.

Abbiamo letto tanto di te. E’ bellissimo l’atteggiamento con cui racconti la tua depressione. Molto spesso noto che si fa fatica a parlarne, invece tu non fai fatica. Tu pensi che parlarne possa servire, utilizzando quindi la propria malattia in maniera propedeutica? 

Ne ho iniziato a parlare perché ho visto che su di me funzionava. Mi spiego meglio. Seguo le TV di tutto il mondo, sopra ogni cosa quelle anglosassoni e mi interesso di svariate cose, non solo di musica. A me piace tanto anche lo sport e sui media stranieri ho quindi notato che ormai è una questione di cultura generale parlare di certe problematiche come la depressione. Gli sportivi, i comici, gli attori, i cantanti parlano approfonditamente della propria malattia e sempre senza vittimismi. Da utente quindi ho tratto molto giovamento da questa opera di sensibilizzazione da parte dei media stranieri. Questo, che all’estero ormai avviene da qualche tempo, ha aiutato tanto anche me che li ascolto da lontano, seppur io fossi già ad uno stadio avanzato con la mia terapia con una diagnosi già fatta ormai da tempo. Siccome è stato utile su di me ho pensato che avendo anche io un megafono avrei potuto farlo a mia volta per poter aiutare gli altri. È importante che gli altri capiscano che genere di emozioni si provano e che la accolgano la malattia perché non è una cosa di cui vergognarsi.

Cosa diresti quindi a chi ne soffre e ha paura di affrontarla?

Gli direi che non è un male oscuro. Non è un male da nascondere per mantenere le apparenze, perché altrimenti mostrarsi per come realmente si sta sarebbe sintomo di debolezza. A me questa cosa del mantenere le apparenze rompe particolarmente le scatole. Una volta lo psichiatra mi ha detto “Se una persona ha il diabete non è colpa sua” allo stesso modo quindi, non ci si deve sentire in colpa se si è malati di depressione. Bisogna affrontare la depressione, curarla e imparare a conviverci con tutte le difficoltà del caso e con l’aiuto necessario. La realtà è che la depressione rimane con noi e ci accompagna ogni giorno, tanto vale usarla a nostro favore, per conoscere meglio noi stessi, con impegno. Può essere una risorsa quindi, come dicevate prima, se viene utilizzata in maniera propedeutica. Questa cosa mi sembra che stia molto aiutando. Mi arrivano tantissimi messaggi da persone di tutte le età che mi ringraziano di aver toccato l’argomento. Mi fa piacere perché ho capito di aver toccato una cosa importante. Talvolta mi dicono che ho molto coraggio a espormi in questo modo. In realtà non è così, perché è stato molto più difficile affrontare la depressione e uscirne. Questo non è niente. Parlarne non è niente.

Possiamo venirti a trovare sabato dopo il concerto?

Certamente, non ci sono problemi anzi dovete! Quella di Cesena la prendo come una serata di festa. Per prima cosa perché è la seconda serata quindi la tensione è svanita e poi perché a mezzanotte sarà il mio compleanno. Siete proprio le benvenute. Venite che ci diamo un abbraccio e brindiamo insieme nei camerini del Vidia Club!

 

Grazie mille Ghemon. Per la tua musica, le tue parole e la tua umanità.

E per l’abbraccio.

 

Sara Alice Ceccarelli & Claudia Venuti

 

Ghemon VEZ 19

 

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