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Tag: concerto

Sugar Blue @ Santomato Live

Siamo nella sala concerti del Santomato Live, a Pistoia ad aspettare lo spettacolo di Sugar Blue, che prosegue nel suo percorso artistico senza confini.  I musicisti stanno aspettando l’arrivo degli spettatori e Blue è seduto, da una parte, a suonare la sua armonica.

Mi avvicino e facciamo due chiacchiere, anche con la moglie, bassista della band, Ilaria Lentieri.

 

Come mai questo ritorno all’Africa?

“Generalmente quando si parla di Funk, Jazz, Rock’n’Roll, Punk… tutto torna all’Africa. Lì è dove tutto è iniziato, tutto ha avuto origine. Senza musica africana staremmo ancora facendo il Valzer. (ride)
Ed il Valzer è molto bello ma “you can’t groove it, baby!””

 

Di tutti i personaggi e gli artisti con cui hai collaborato chi ricordi con maggiore emozione?

Willie Dixon è stato un mentore, un amico un padre. Sono stato davvero onorato di poter suonare con Ray Charles e mi sono divertito molto con Prince ed ho amato fare Rock’n Roll con i Rolling Stones.
Ho avuto tante bellissime opportunità, suonando con i più grandi del Jazz, del Blues e del Funk, come Stan Getz, James Cotton, Junior Wells, Big Walter Horton ed altri…
Sono molto grato di aver suonato con alcuni dei più grandi musicisti del mondo. Sono stato fortunato.”

 

Ci sarebbero state le stesse opportunità se fosse vissuto adesso?

“Purtroppo no perché molte di queste persone sono morte e nessuno sarà mai come loro. Per fortuna abbiamo registrazioni di questi grandi uomini ma oggi questo tipo di esperienze non sarebbe possibile.
Mi sono trovato nel posto giusto al momento giusto.”

Negli occhi una luce, un mix di malinconia, gratitudine ed entusiasmo.

Sorrisi. Blue è una persona che ama ridere e far ridere, ama far star bene e far sentire a proprio agio.

Alle 22.30 è iniziato il live, con non poca emozione, sia da parte del pubblico che da parte dei musicisti che non si ritrovavano insieme da circa due anni.

Il concerto è iniziato con una ricca dose di energia, con una introduzione strumentale che sembrava volerci gridare: “Hey voi!!! Questo è Blues!!!”. 

 

20220511 SugarBlue Pistoia letiziamugri 2

 

Sul palco c’erano:
Damiano Della Torre piano /organ/ accordion
Ilaria Lantieri Whiting Bass / vocal
Sergio Montaleni guitar / vocal
CJ Tucker drums (USA)
Kalifa Kone Kamalengoni, tama, djembe (Mali)
Petit Solo Diabate balafon, djembe (Burkina Faso)

Il pubblico ammutolito ha seguito ogni nota con ammirazione e, a volte, stupore.

Non capita così spesso trovarsi faccia a faccia con la storia, con chi quella famosa storia di cui tutti parliamo l’ha davvero vissuta e scritta, assistendo ad uno show avvolgente con grande reinterpretazione dei classici della tradizione afro-americana e riarrangiamenti di originali composizioni e cavalli di battaglia del repertorio di Blue.

Il secondo pezzo è Red Hot Mama scritto negli anni ’90; un esempio tipico della musica rivoluzionaria di Blue, che ha sviluppato una velocità ed una tecnica uniche, mischiando il Blues al Funk ed al Jazz, un connubio mai sentito prima che, se da una parte lo hanno reso un pioniere, dall’altra lo hanno escluso dal mondo dei puristi del Blues.

Prosegue il live con One More Mile, un pezzo di James Cotton a cui è molto legato, tanto che ha dato il suo nome al figlio a cui James Cotton ha fatto da padrino.

Non poteva mancare il tributo a Muddy Waters con Hoochie Coochie Man e poi di nuovo una dedica al mentore James Cotton, Cotton Tree.

Si arriva alla fine senza nemmeno rendercene conto.

All’arrivo di Miss You il pubblico esplode in un grande applauso; il famoso riff nacque dall’incontro di Blue con gli Stones, che volevano questo nuovo groove di blues misto a funk tipico della Chicago degli anni ’70.

Il concerto termina con Messin’ with the Kid, cavallo di battaglia di Junior Wells.

E così, in circa due ore, ci ritroviamo ad aver attraversato la vita di Blue, con tributi ai suoi mentori, che tanto lo hanno spronato nella ricerca dalla sua personalità (parola d’ordine nella ‘black community’) che ha come risultato un armonicista unico al mondo, fuori dai canoni, moderno, in cui è racchiuso talento e personalità, eclettico e colorato, con sempre tanta gratitudine per la cultura africana.

 

20220511 SugarBlue Pistoia letiziamugri 7

 

Setlist

RED HOT MAMA

ONE MORE MILE

HOOCHIE CHOOCHIE MAN

COTTON TREE

BLUESMAN

WHO’S BEEN TALKIN’

INTERMEZZO ACUSTICO

BAD BOYS HEAVEN

TIME

MISS YOU

MESSIN’ WITH THE KID

 

Foto e testo: Letizia Mugri

Italia 90 @ Covo Club

Serata all’insegna della Union Jack in quel del Covo Club di Bologna.

Sabato sera finalmente è stata recuperata la data degli inglesi Italia 90 prevista inizialmente ad aprile 2020 e che la sottoscritta attendeva con trepidazione.

Ma partiamo dall’inizio.

Ad aprire la serata ci sono i Qlowski, band metà emiliana e metà inglese prodotta da quel gioiello di etichetta nostrana che è la Maple Death Records. Post punk più classico con sfumature di noise, che a tratti sfocia in una rivisitazione moderna del kiwi-pop, grazie alla voce pungente di Cecilia Corapi, che si alterna ai toni più bassi di Michele Tellarini. La band presenta il loro LP Quale Futuro e aprirà tutte le date previste nello stivale dei nostri beniamini inglesi dal nome per noi a dir poco nostalgico ed evocativo.

Il quartetto originario di Brighton ma oramai trasferitosi a South London sale sul palco ed è evidente che il pubblico non sta più nella pelle. Subito partono i bassi perentori e assordanti accompagnati da una voce rabbiosa e penetrante, un cantato quasi da hooligan e atmosfere da pub malfamati londinesi. Vengono eseguiti brani da tutti gli EP pubblicati finora, in quanto un disco completo non è ancora uscito, ma di talento ce n’è a profusione. Da citare sicuramente Strokes City e Borderline, che parlano della brutalità della polizia, di violenza e della politica che va a scatafascio nella vecchia e cara Inghilterra. Ovviamente il pogo parte istantaneo e alla fine, neanche il cantante riesce a resistergli: come in ogni concerto punk prende il microfono e si butta nella mischia a cantare e ballare, con una voce ancora più furiosa ed evocativa. Sul palco appare di nuovo la Corapi ed eseguono un brano insieme, dimostrando che la sintonia tra le due band è forte e intensa. Sul finale, per la mia felicità, viene suonata Competition, dal loro primo EP del 2017, con dei bassi potentissimi e rabbia sistemica ed è stata proprio questa a farmi innamorare della band al primo ascolto. 

Il paragone con i primissimi Gang of Four forse è troppo facile ma inevitabile. Se vogliamo poi andare su band più recenti si può parlare anche di IDLES, non solo per il sound ma anche per tematiche politiche e ironia pungente dei loro testi. Lo stile da skinhead, come se fossero appena usciti dal film This Is England, poi, fa tutto il resto. Gli Italia 90 confermano di essere una delle band più interessanti che si affacciano sul panorama inglese e portano freschezza e novità in un genere che sembrava ormai già stato sondato in lungo e largo. 

 

Alessandra d’Aloise

Foto di copertina: FabioBP

Bee Bee Sea @ Covo Club

Il trio dei Bee Bee Sea nasce nella più sperduta e desolata provincia mantovana, in un paesino sconosciuto dal nome Castel Goffredo dove le attività ludiche da fare per dei giovani scarseggiano. Non a caso, infatti, il loro motto è “When there’s no good shit around you better form a band”. E meno male direi, perchè dalla desolazione della pianura padana i ragazzi sono arrivati ad aprire band di un certo peso, come IDLES e Black Lips, e persino Iggy Pop in persona li ha apertamente elogiati nel suo programma radio.

Annullata e riprogrammata più volte, la band si è finalmente esibita venerdì sera sul palco del Covo Club di Bologna, dove per fortuna passano spesso e si può dire che hanno uno zoccolo duro di fan che li supporta costantemente, tra cui la sottoscritta. La loro peculiarità, infatti, sta nel riuscire a suonare un garage rock fresco e innovativo, ma soprattutto di farlo sembrare come la cosa più semplice del mondo. I giovani mantovani sul palco si divertono, scherzano tra loro, si esibiscono in balletti improbabili con una leggerezza e sfacciataggine che sembra quasi che non stiano suonando per un pubblico, ma che siano a cazzeggiare nel garage di casa. Viene presentato il disco, uscito ormai nel 2020, Day Ripper che ha il classico sound energico e incisivo e viene accolto con danze scatenate e stage diving. Non sono mancate citazioni dai dischi precedenti: Sonic Boomerang, dal ritmo incalzante e ripetitivo che puoi ascoltarla solo ondeggiando la testa ossessivamente avanti e indietro, This Dog Is The King Of Losers dal sound dissonante e veloce. Grande finale con la cover Piangi con Me del gruppo beat The Rokes eseguita a dovere con voce straziante da Damiano Nigrisoli, conosciuto ai più come Wilson Wilson.

A fine concerto ero sudatissima, piena di lividi e con un fischio costante nelle orecchie ma un sorriso a trentadue denti. I Bee Bee Sea rimangono una delle band italiane più energiche e divertenti da vedere dal vivo, se sei un amante del garage rock scatenato e del pogo violento non puoi farteli scappare. 

 

Alessandra d’Aloise

Bodega @ Covo Club

It’s (not) only post punk and we like it

Endelss Scroll, uscito nel 2018 per la What’s your Rupture, è un disco rumoroso, dissonante e psichedelico. Infatti, non a caso, è stato prodotto da nientepopodimeno che da Austin Brown dei Parquet Courts. Così i Bodega, quintetto newyorkese, ha attirato l’attenzione della critica internazionale ricevendo pareri più che positivi, anche con i lavori successivi. Finalmente, covid permettendo, sono arrivati in Italia per un tour di quattro date che si è concluso sabato sera sul palco del club più avanguardistico della città felsinea: il Covo.

La doppietta Thrown e Doers apre il concerto, e anche il loro ultimo disco Broken Equipment, riscaldando l’atmosfera immediatamente: ritmi serrati e adrenalinici come il più classico del post punk vuole. Il clima cambia, però, quando arriviamo alla più astratta C.I.R.P. che sottolinea un lato più sperimentale e quasi talkingheadsiano della band. Non sono mancate citazioni dai lavori precedenti: How this is Happen?!, dal piglio tendente al garage, che ha portato un timido pogo nel pubblico ma senza esagerare. Una grinta maggiore rispetto alla versione del disco è stata Jack in Titanic, che dal vivo si è dimostrata molto più coinvolgente e danzereccia. Finale agrodolce con Charlie che andava quasi cantata a squarciagola con gli accendini. La band è emozionata ma concentrata, cerca sempre il contatto con il pubblico che risponde entusiasta. Nota di merito va alla batterista Tai Lee, grintosa e talentuosa come pochi, dimostrazione vivente che quello non è assolutamente un lavoro per soli uomini.

La band newyorkese ha dimostrato enormemente che inserirli tra gli innumerevoli gruppi della scia del revival post punk è altamente riduttivo e che, specialmente nel loro ultimo disco, sono maturati molto. Broken Equipment è un disco che affronta tematiche importanti ed intime, con un sound che spazia enormemente nell’oceano di sottogeneri che caratterizza l’alternative rock. Inoltre, l’alternanza alla voce di Ben Hozie e l’ipnotica Nikki Belfiglio ha uno stampo che richiama molto i Sonic Youth, ma anche con citazionismo ai Pixies e, in alcuni tratti, Arcade Fire. Continuate così cari Bodega, che già non vedo l’ora di sentirvi di nuovo!

 

Alessandra d’Aloise

Foto di copertina: Filomena Mascis

Cris Pinzauti @ Hard Rock Cafè Firenze

Quando il Gambrinus chiuse, per la città di Firenze fu un colpo dritto al cuore. Cinema e caffè del centro storico, il Gambrinus era rimasto nella memoria cittadina per alcuni film-cult di Francesco Nuti girati nel seminterrato dove si trovava la sala biliardo. A causa dell’abbandono crescente, sembrava destinato a rimanere un vuoto simulacro della cultura fiorentina, fino a che, poco più di dieci anni fa, diventò parte della catena Hard Rock Cafè. Trasformato in una sala per promuovere concerti live per un pubblico locale e internazionale, la sua programmazione dà sempre nuovi stimoli a un fermento culturale underground che ora come non mai ha voglia di esistere, come la presentazione in anteprima di Moonatica, ultimo progetto di Cris Pinzauti, musicista fiorentino classe ’71 che si muove nelle correnti indipendenti del pop e del rock. 

L’Hard Rock Cafè ci accoglie in una struttura completamente rivoluzionata, unita a particolari interni originali, che fondono il ricordo di un passato alla voglia di guardare verso il futuro. Tra sorrisi e sguardi incuriositi, Cris Pinzauti sale sul palco accompagnato dalla sola chitarra acustica e suona Hellbound Train, tratto dall’album Black del 2015.  Una canzone che parla di un amore finito dove il fuoco vivo fino al giorno prima lascia il posto a una disarmante estraneità. Sulle ultime note del brano, a lui si uniscono i musicisti dell’underground fiorentino che hanno collaborato al nuovo progetto: Matteo Montuschi e Giuseppe Scarpato alla chitarra elettrica, Marzio Pinzauti al basso, Dado Pecchioli alla batteria, Federico Sagona alle tastiere, Eleonora Garella ai cori. Il live prende vita in una trama pop e rock dove si alternano brani del nuovo album a vecchi successi e omaggi ad artisti nazionali e internazionali che hanno segnato la formazione di Pinzauti. La sua interpretazione di Shock the Monkey di Peter Gabriel scalda la platea e non fa provare nostalgia dell’originale. 

Il pubblico ancora non conosce Non Andar Via, Giuda, Normalità, Parafulmine, Strega e tutte le altre canzoni del nuovo album, eppure diventa parte pulsante di canti e ritornelli come se le avesse sentite da sempre, perché Moonatica racconta di noi, di ogni essere umano catturato nelle sue fragilità, sbagli ed ossessioni liberando grintosi riff di chitarra elettrica, passaggi vocali graffianti, potenti fraseggi del basso. L’esecuzione è impeccabile, ma è la complicità che c’è sul palco a riempire la sala di una potenza inaspettata. Anche se Cris Pinzauti è la voce leader, sono tanti i momenti corali dove gli artisti abbandonano ogni individualismo per far parte di un progetto unico che si chiama musica, quella che non chiede permesso per entrarti nella pelle, negli occhi e nel cuore e abbattere ogni muro per dare vita al dialogo.

La serata finisce e i musicisti si concedono a un pubblico emozionato. Sul palco vuoto, gli strumenti sanno ancora dell’energia che c’era solo qualche minuto prima. Dentro di te, ringrazi chi ancora crede nella musica originale e la fa, la propone, la ospita, la promuove. Chi va in direzione ostinata e contraria perché il vento cambi e torni a favore dell’arte. Chi fa di tutto perché quel messaggio esca da quelle stanze, oltrepassi quelle porte, per diffondersi tra le strade bagnate dalla pioggia di una città che dorme e sogna un futuro migliore distante solo una nota. 

 

Alma Marlia

Foto di copertina: Sabrina Vivoli

Fontaines D.C. @ Alcatraz

L’Alcatraz di Milano ha accolto il ritorno dei Fontaines D.C. a pochi mesi dal concerto a Parma per il Barezzi Festival.
Green pass, ffp2, sedie. Se non ci fosse un palco sarei anche pronto per una quarta dose, per fortuna la birra non era analcolica e, in fondo, essere di nuovo a un concerto è un gran privilegio.

Aprono la serata i Just Mustard, stesso paese di origine ed etichetta dei Fontaines, ma decisamente più orientati verso uno shoegaze in salsa irlandese.

I Nostri salgono sul palco mentre sfuma un Tom Waits d’antan. Il locale è finalmente pieno. Dietro di me urlano ragazze straniere, qualcuno tenta di alzarsi, cercando sguardi di intesa. Sembra quasi di essere a un concerto vero. Le sedie vengono abbandonate dopo pochi accordi di Televised Mind, pezzo che apre la setlist. Seguono A Hero’s Death e Sha Sha Sha. L’Alcatraz non è solo in piedi. Balla. Sono a un concerto vero. A Lucid Dream precede la nuovissima Jackie Down the Line, che si inserisce senza disarmonie nella scaletta costruita sui primi due dischi. Il primo vero uno-due arriva con I Don’t Belong seguita da Chequeless Reckless, che nella sua incarnazione live è ormai una garanzia. Segue chicca e rarità, i ragazzi regalano a Milano una Roy’s Tune intima e coinvolgente.

E poi piano piano, come mi capita nei concerti che amo ricordare, scivolo nella pancia del concerto. Un luogo protetto, in cui musica, immagini, pensieri e sensazioni si impastano tra di loro, lasciando una scia di fotogrammi, un gusto di fondo. So che durante la sacra triade BigHurricane LaughterToo Real, mi sono autocertificato tre pelli d’oca. Due per la questura, perché l’ultima era disturbata dal tentativo del sottoscritto di studiare se, effettivamente, ero davanti ai primi nuovi arrangiamenti dei pezzi eseguiti live. I Fontaines, sentiti a inizio novembre, ieri sera sembravano provenire dal futuro. In quattro mesi sono evoluti, alcuni pezzi hanno preso vita propria, e sul palco risultavano ben diversi dall’esecuzione quasi didattica sentita a Parma. Sono soprattutto i pezzi di Dogrel a trascendere maggiormente, forse perché hanno più concerti alle spalle.

Skinty Fia e Boys in the Better Land chiudono una setlist che è passata dritta come un treno, con pochissime parole e un mare di note e un uomo, là sul palco, che da solo vale il prezzo del biglietto.

Grian Chatten è rapito dalla sua musa al primo accordo. Ha un pessimo rapporto con le aste dei microfoni, ma questo già lo sapevamo. Ha una presenza sul palco che incarna con violenza la necessità di urlare i suoi testi al mondo. Mentre al suo fianco chitarre e basso sembrano colonne, lui decanta le virtù dell’iperattività. Il movimento stereotipato, ritmato, ripetitivo delle mani mentre si defila sul palco, allontanandosi dal microfono, disegnando spirali, per gioco e sfida, piccole sezioni auree di attesa. Crea vuoti e pause, poi torna con urgenza al microfono e diventa pesante e invisibile, un fantasma e un monolite. Ha un dono, quel ragazzo: sa portarti dentro le canzoni, all’interno dei testi, e sa farlo creando un’intimità e un’empatia imprevista. Pochi filtri sul palco, davvero. Poco star. È un mezzo per le canzoni, per la musica, è strumento.

I Fontaines tornano sul palco per due pezzi, I Was Not Born e The Lotts. Sono sazio. Breve ma intenso, direi meglio denso. Diciassette pezzi, più lungo rispetto alle due date spagnole precedenti.

Spazzati via i fantasmi che aleggiavano al teatro Verdi di Parma, quando Clash, Smiths, Joy Division e Cure sembravano essersi fusi in un nuovo, plastico, prodotto di un post-qualcosa, perché ormai il prefisso è imperativo. Invece ieri sera ho visto nascere qualcosa di autonomo e di potente. Qualcosa che supera i riferimenti, gli echi, le eredità. La musica dei Fontaines è diventata adulta.

A tutto questo aggiungiamo che il prossimo mese vedrà la luce il terzo album della band, Skinty Fia, e che sono già previste due date a giugno, a Milano e Bologna.
Ieri sera, come ultimo gesto del giorno, ho acquistato due biglietti. Fidatevi, stanno diventando una grande band. 

 

setlist fontaines milano

 

Andrea Riscossa

Foto di copertina: Mairo Cinquetti

Pan American @ Tipoteca Italiana

Tundra, Paesaggi Sonori Contemporanei
Cornuda (TV) // 19 Novembre 2021

 

Pan American: un viaggio ad occhi chiusi

Non credo sia ancora stato fatto, almeno non che io sappia, e sta di fatto che al momento non ho voglia di cercare e magari smentirmi, tuttavia credo che qualche giornalista, scrittore, critico musicale, dovrebbe prima o poi scrivere una sorta di apologia per “coloro che chiudono gli occhi durante i concerti (ma non stanno dormendo)”.

Ieri sera, circondata da una leggera nebbiolina padana, la Tipoteca di Cornuda (primo inciso, luogo che meriterebbe una visita, quando incidentalmente doveste passare da quelle parti) ha ospitato, grazie a quegli impavidi di Lynfa, la prima data del mini tour italiano di Pan American (l’indomani sarebbe stata la volta di Jerusalem in My Heart, e sfido chiunque a trovare una doppietta più azzeccata per un festival che s’intitola Tundra – Paesaggi Sonori Contemporanei), il progetto solista di Mark Nelson, già chitarra e voce dei Labradford, ai quali il sottoscritto sarà eternamente grato.

Ero già stato in Tipoteca, almeno un paio di volte, per Chris Brokaw e Julia Kent se non erro, e il piccolo auditorium va pian piano riempendosi quando poco dopo le 21.30 il nostro guadagna il centro del palco, un timido (ma timido timido davvero) saluto al microfono un po’ in italiano, un po’ in inglese, e imbracciata la chitarra le prime note iniziano a diffondersi nell’aria.

Ora, il cappello iniziale non era buttato lì a caso, ma era un pensiero che ho elaborato mentalmente durante buona parte dello svolgimento del primo brano in scaletta, che in realtà trattavasi più di una suite lunga quasi mezz’ora, fatta di synth e arpeggi di chitarra, dilatati, languidi, dove verso la metà fa capolino anche la magnifica Memphis Helena, tratta dall’ultimo disco a nome Pan American, A Son con un sussurrato “I′m away from home / I’m away from home in time / We left it all behind”.

Non c’è illuminazione sul palco, la poca luce che si diffonde sulla scena è data dalla proiezione di una serie di video (riprese dal treno o da un auto durante una pioggia, semafori, palazzoni, campi di girasole, riprese subacquee da una piscina pubblica e a parere dello scrivente non così centrali e funzionali alla narrazione, ma si tratta di certo di un mio limite), e Mark Nelson, escluse la rare volte nelle quali si affaccia dalle parti del microfono, è spesso chino o davanti al laptop o accucciato ad armeggiare con i multieffetti della pedaliera, ed è chiaro che il messaggio che mi sta rivolgendo è “non c’è niente da vedere qui, dirigi il tuo sguardo altrove”; però con tutto il rispetto, non siamo all’interno di una sala rinascimentale rivestita di affreschi e decorazioni, il pur confortevole auditorium offre bianche pareti e lucido legno moderno, è chiaro che il viaggio da fare è più astratto, spirituale direi, e quale modo migliore per farlo che chiudendo gli occhi e abbandonandovisi.

Ed è quello che faccio.

Per oltre un’ora mi lascio condurre e trasportare, il concerto scivola via sorprendentemente veloce, nonostante la musica di Pan American sia lenta, minimale, impercettibile a volte, sfuggevole, dall’andamento e dalla struttura spesso simile eppure mi trovo a pensare che sebbene io abbia l’impressione di ascoltare sempre lo stesso pezzo mi trovi ogni volta in posti diversi, ugualmente affascinanti.

Ed in effetti in vita mia non sono mai stato tanto a nord, la tundra per me è solo una reminiscenza scolastica “tundra, taiga, muschi e licheni” e mi avvio verso casa, la nebbia di prima è ancora lì ad aspettarmi, d’altronde mi pare si sposi bene col contesto generale. 

Am I away from home?

 

Alberto Adustini

Fontaines D.C. @ Barezzi Festival

È sabato sera, sono all’interno del Teatro Regio di Parma. 
Ho superato colonne ioniche, ho adocchiato Muse, un Apollo, Baccanti e sulla mia testa incombono Aristofane, Euripide, Plauto e Seneca. Attorno velluto e un pubblico abbondantemente over trenta, non ci sono abiti da sera e binocoli da teatro.
Il contrasto è già potente, da un palco laterale pende una bandiera irlandese.
Sul palco un telone con la grafica dell’ultimo album dei Fontaines D.C., A Hero’s Death. Caso vuole sia rappresentata una statua raffigurante un eroe del ciclo dell’Ulster.
Il gruppo nasce nel grembo del British and Irish Modern Music Institute di Dublino, appena quattro anni fa. Pubblicano due raccolte di poesie, la prima, Vroom, è dedicata ai poeti beat Jack Kerouac e Allen Ginsberg, mentre la seconda, Winding, si ispira alla tradizione irlandese: James Joyce e William Butler Yeats su tutti.
La setlist della serata è ampiamente annunciata. I ragazzi hanno solo due album alle spalle e durante il tour nel Regno Unito hanno eseguito le canzoni seguendo un indice ben preciso, con pochissime eccezioni. E sarà breve, perché non amano chiacchierare, quando sono sul palco.
Questo il contesto. Questo il menù.
Le variabili siamo noi, molti dei quali a digiuno da concerto da diversi mesi (anni?) e la reazione dei cinque davanti a un pubblico seduto, mascherato e comodamente alloggiato tra velluti e stucchi dorati.
Abbiamo il materiale esplosivo, l’innesco e il detonatore. Abbiamo alte aspettative e un bisogno disperato di ritrovare la musica condivisa dal vivo.

 

vezmegazine 350 fontaines dc andrea ripamonti teatro regio Parma 06112021

 

E infatti quello che attendevo, accade poco dopo.
A pochi metri da me, con una prepotenza stupefacente, la musica si riprende la sua parte fisica, carnale. Mi ero dimenticato di quanto fosse importante, di quale fosse l’impatto di un live. Il contesto aiuta, il cantante, Grian Chatten, fa il resto. Durante la prima canzone distrugge l’asta del microfono, ci rimette un dito, ma sembra posseduto dalle Muse del foyer, sembra lui stesso una baccante. Cammina, corre, le dita delle mani a seguire emozioni, parole, quasi che la musica la si possa toccare, mentre dal palco scivola verso il pubblico. Canta, enuncia, elenca, si sbraccia, si sdoppia, si perde. È uno spettacolo di furia e gioventù, è una guida tra le parole che escono a valanga, soprattutto nei pezzi del secondo album.
E mentre lui gioca a fare il pazzo, sbagliando raramente una nota, gli altri sono colonne che reggono una parte monolitica e precisa dello show, perché i Fontaines riescono a passare da pezzi puliti e precisi a veri e propri muri sonori, con testi e sottostesti, ricchi e opulenti, come durante la grassissima doppietta Living in America e Hurricane Laughter, cotta per l’occasione nello strutto e unta di Sangiovese.
Il vaccino mi consente di urlare Sha-Sha-Sha scevro di sensi colpa, e poi mi perdo senza vergogna nelle stanze più oscure dei loro pezzi più intimi , evocatori di fantasmi (Ian Curtis ieri sera era a teatro, sia chiaro) e di immagini quasi cinematografiche.

 

vezmegazine 482 fontaines dc andrea ripamonti teatro regio Parma 06112021
La musica ieri sera si è ripresa i corpi di chi la esegue, si è ripresa lo spazio di un palco. Anche l’asta del microfono, massacrata, maltrattata, spostata e abbandonata da Chatten diventa parte della band. Crea vuoto, crea attesa.
È un flusso di coscienza, sopra e sotto il palco. Ed è meraviglioso.
Così il pubblico scopre la sesta legge di Otis Day, quella che recita “qualunque natica, prima o poi, si stacca dalla sedia e inizia a ballare”, e quindi, vinto l’imbarazzo di farlo in un tempio, la platea rompe gli indugi e abbandona i velluti dei sedili. Alcuni raggiungono la più preziosa e artistica transenna della loro vita e l’unione tra gruppo e pubblico si completa. Aggiungiamo un paio di giri di pelle d’oca e direi che abbiamo saziato pancia e cuore. Il diaframma già era in festa nel risentire quel sano riverbero musicale.
È stato un ritorno alla grotta di Platone. Un ritorno allo spettacolo, alla proiezione della realtà, che di realtà ne abbiamo già presa sui denti un po’ troppa, da un paio di anni a questa parte. Solo tornando sotto un palco ho potuto sentire il reale peso di quella assenza. Attendere così tanto per tornare a rivivere un concerto lo ha però anche riempito di nuovi significati, lo ha reso ancora più speciale.
Cari Fontaines D.C., sarete la mia “seconda volta”, perché il primo vero concerto dopo una pandemia, credo, non lo si scorderà mai. Quindi, consiglio per gli acquisti: a marzo i ragazzi torneranno in quel di Milano. È quasi d’obbligo esserci. 

 

Andrea Riscossa

 

Setlist
A Hero’s Death
A Lucid Dream
Sha Sha Sha
Chequeless Reckless
You Said
I Don’t Belong
The Lotts
Living in America
Hurricane Laughter
Too Real
Big
Televised Mind
Boys in the Better Land

Roy’s Tune
Liberty Belle

 

 

Grazie per le foto ad Andrea Ripamonti e Rockon.

Ministri @ Balena Festival

Arena del Mare (Genova) // 18 Luglio 2021

 

Due anni esatti prima del concerto dei Ministri (Davide “Divi” Autelitano, Federico Dragogna e Michele “Michelino” Esposito), io mi trovavo all’Arena del Mare. Ero in piedi e, con scarso successo, mi muovevo seguendo il ritmo delle canzoni dei Fast Animals and Slow Kids. All’epoca non potevo sapere che avremmo vissuto una pandemia e che avrei sentito la mancanza della calca, del caldo asfissiante e dei capelli ricci sudati che mi bagnano il collo fino a che non li lego.

I Ministri vengono da Milano e amano Genova, lo hanno voluto ricordare sul loro account di Instagram nei giorni precedenti al concerto che si è tenuto nell’ultima serata del Balena Festival. L’ansia dell’attesa era più forte che mai e ho ripassato le canzoni della scaletta: volevo essere pronta per il mio ritorno ai live. 

In apertura si è esibito Pablo America, che ha scaldato il pubblico agitando la sua imponente massa di capelli ricci, neri e crespi che sembravano perfetti per la sua personalità. Dopo aver cantato alcuni suoi brani, come Noi non siamo il punk, Ascoltavo i Nirvana e Arianna, è iniziata un’attesa di mezz’ora che si è conclusa con l’arrivo dei Ministri sul palco e Tempi Bui. “Veramente vivo in tempi bui”: un inizio azzeccato.

Da subito, ho percepito un senso di stranezza che mi ha accompagnato per tutto il concerto: le sedie e il distanziamento non si adattavano al rock dei Ministri. Come ha detto lo stesso Divi: “Voi siete obbligati a stare seduti e noi siamo obbligati a vedervi così”. Negli intermezzi erano di poche parole, ma perfette. Più volte ci hanno invitato a farci un applauso e ricordarci che, nonostante tutto, ci stavamo portando a casa un concerto e andava bene così. Percepivamo un profondo senso di gratitudine.

Anche sul palco, la band ha ribadito in più momenti il forte legame con Genova e ha ricordato le sofferenze che la città ha vissuto e provato a superare. Avevo cinque anni, ero in vacanza, riconoscevo le mie strade nelle immagini dei telegiornali e non capivo come mai avessi paura. “Venti anni esatti fa, qua a Genova, è stato sospeso lo stato di diritto e noi ci abbiamo scritto una canzone”. La Piazza è uno dei tanti brani da pelle d’oca dei Ministri, ma ascoltarla nei giorni di commemorazione dei fatti del G8 ha tutto un altro sapore.

Abbiamo “ballato” sulle note dell’ultimo EP Cronaca Nera e Musica Leggera e di altri brani come Comunque e Gli Alberi e ci siamo emozionati sul tributo a Franco Battiato con Alexander Platz. Faceva più caldo rispetto alle sere delle settimane precedenti e tra le facce sudate del pubblico, un ragazzo ha guardato il suo smart watch e ha urlato di aver fatto molto più movimento del solito. Ho guardato anche io il mio: finalmente qualcosa ricordava la normalità.

Uno dei momenti più significativi del concerto, è stato quando Divi è sceso dal palco e ha iniziato a cantare e suonare il basso girando tra il pubblico e guardandoci negli occhi, manifestando la voglia di tutto il gruppo di ricominciare a stare in mezzo alla gente. 

Anche la chiusura è stata azzeccata e tra qualche lacrima, abbiamo iniziato a intonare Una Palude insieme ai Ministri. “Non è un segreto che la terra sia una palude senza di te” è una delle frasi migliori per salutare il pubblico che è tornato ad assistere ai concerti. Quando il gruppo ha lasciato il palco si percepiva già la nostalgia e dalle sedie delle ultime file è partito un coro che cantava Abituarsi alla Fine (in una versione più da stadio), un brano che non era nella scaletta. Tutti speravamo che la band tornasse per un ultimo pezzo. 

Poi è arrivato il momento di lasciare l’Arena del Mare, con la consapevolezza che non ci abitueremo mai alla fine dei concerti, ma c’è un pensiero che mi ha consolato mentre raggiungevo il parcheggio con i capelli finalmente legati: quello che ci mancava sta tornando. 

 

Marta Massardo

Foto di Copertina (archivio): Simone Asciutti

ferrarasottolestelle 2021

Parco Massari (Ferrara) // 30 Giugno – 4 Luglio 2021

 

L’estate è appena iniziata, questa estate 2021 che si vuol scrollare di dosso un anno durissimo, per noi tutti e per la musica in particolare.

L’estate ferrarese, si sa, è rovente, spesso afosa, e gli appuntamenti dello storico festival ferrarasottolestelle, con le sue proposte live di altissima qualità, sono più rinfrescanti che mai.

Quest’anno la location è davvero suggestiva, all’interno di un fantastico giardino, il Parco Massari, cuore verde della città. È da qui, da questo cuore, che tutto ricomincia a pulsare, con più lentezza, quasi timidamente.

Seduti sul prato, connessi con la terra e col mondo, qualcuno ai margini accenna a qualche passo di danza…

 

FSLS 30 giugno Iosonouncane credit Sara Tosi 20
Iosonouncane (foto ©Sara Tosi)

 

La prima serata comincia con l’esibizione dei Vieri Cervelli Montel, che vengono accolti con un applauso, ma l’atmosfera è ancora tranquilla, finché non irrompe il fragore dell’incipit dell’album IRA di Iacopo Incani in arte Iosonouncane, un’esplosione di suoni, una lingua artefatta che diviene essa stessa pura sorprendente sonorità . Il pubblico, a terra, completamente avvolto da questa performance artistica, sembra trasportato in un mondo sconosciuto.

La serata seguente, apre il concerto il gruppo post-punk pesarese Soviet Soviet. Il dover stare seduti nelle proprie postazioni sul prato per rispettare le regole covid stavolta diviene una sensazione scomoda: fino ad un paio di estati fa questa musica ci avrebbe trascinati tutti sotto al palco a pogare e a saltarci addosso, ma adesso, noi tutti, stoici resistiamo…

 

Massimo Volume credit Riccardo Giori 3
Massimo Volume (foto ©Riccardo Giori)

 

Arrivano i Massimo Volume, una certezza nel panorama post-punk italiano, ed i fan li accolgono con molto calore, godendo come sempre delle liriche taglienti di Emidio Clementi e della sua band, che presentano il loro ultimo lavoro Il Nuotatore.

La terza serata è strana, in concomitanza si gioca la partita di Euro 2020 tra Italia e Belgio, ma il pubblico non ha dubbi e sceglie l’ottimo intrattenimento dal vivo che ci portano La rappresentante di Lista e prima, in apertura, una giovane band di origine padovana, i Post Nebbia.

 

la rappresentante di lista credit Riccardo Giori 3
La Rappresentante di Lista (foto ©Riccardo Giori)

 

Il duo di performer porta sul palco note e colori e tantissima fisicità, che viene trasmessa al pubblico attraverso un’atmosfera molto positiva, ed il pubblico reagisce battendo i piedi, cantando insieme, alla ricerca della ritualità collettiva che ancora manca. L’emozione è tanta ed alla fine si catalizza tutta in quella bandiera su cui viene scritta la parola “vita” con una bomboletta spray.

Nella quarta serata, il pubblico è diverso, è molto più giovane. Apre il concerto Generic Animal, e tutti cominciano subito a cantare, arriva Mecna ed esplode l’entusiasmo – tutti seduti a terra, ma le braccia si agitano, le torce dei telefoni si accendono, si canta: ecco il grande rito del live che ritorna!

 

Mecna credit Riccardo Giori 3
Mecna (foto ©Riccardo Giori)

 

Le emoticon della scenografia fanno l’occhiolino ad un pubblico di ragazzi emozionati che chiedono le loro canzoni preferite, e lui concede ovviamente anche il bis.

Alla fine, tutti se ne vanno in modo composto, mentre si odono i primi tuoni dell’imminente temporale.

La serata seguente, in cui avrebbe dovuto esibirsi Venerus, è stata purtroppo annullata a causa del maltempo.

Si conclude così questa edizione di ferrarasottolestelle, rinnovata ed originale, che ha avuto un ottimo successo di pubblico, che si è mostrato molto rispettoso delle regole e che ha potuto sperimentare un modo più rilassato di divertirsi, senza rinunciare alle emozioni, grazie alle proposte di artisti che incontrano i gusti di diverse fasce d’età e ad un’organizzazione impeccabile.

Confesso però che a me sono mancati un po’ i ciottoli di piazza Castello e i piedi doloranti a fine serata… Torneranno? Chissà…

 

Margherita Lambertini

Foto di copertina Riccardo Giori

Maledetti Cantautori @ Teatro della Concordia

Teatro della Concordia (Venaria Reale) // 28 Maggio 2021

 

…E quindi uscimmo a riveder le stelle
Dante, Inferno, XXXIV, 139

 

Ieri sono tornato a un evento live. Chiamiamolo concerto, anche se, a ben vedere, Maledetti Cantautori è molto di più.
Avevo un accredito stampa. E a quel punto anche un vago senso di colpa, così, avvisata la biglietteria della mia presenza, ho comunque pagato l’ingresso. È una questione di karma, è una questione di militanza e di sostegno. Io senza voi non scriverei, in fin dei conti. Ora, devo anche chiedere scusa a VEZ, perché io ai concerti tendo ad ascoltare e a pensare e così, alla fine, ho una timida foto per altro neanche scattata dal sottoscritto. E sorrido a pensarci, perché nonostante non fossimo in molti, la mia etica da concertista over quaranta mi impone di avere cautela nell’uso del telefono a un concerto. Un buon segno, penso, non ho perso le buone maniere.

Il Teatro della Concordia di Venaria Reale è il luogo che accoglierà questo nuovo inizio. Quindi sarò comodamente seduto, con un ottima acustica, in ampi spazi rispettosi di norme anti-covid. Quasi commosso anche dalla birra pre-concerto, un rituale che sembra appartenere a un’era lontana, di baccanali e festival pieni di droplet e sudore.
L’evento principale è stato preceduto dall’esibizione di due nuove proposte del panorama torinese: Carsico ed Eugenio Rodondi, esponenti di un nuovo cantautorato pieno di buoni propositi.
Lo spettacolo principale inizia quindi poco dopo le 21.00. Sul palco sale Nicholas Ciuferri, autore del libro cui si ispira lo spettacolo, Nathalie, cantautrice e vincitrice di X-Factor nel 2010, The Niro, nome d’arte del cantautore romano Davide Combusti, Riccardo Tesio, fondatore dei Marlene Kuntz, produttore e chitarrista, Andrea Angeloni ai fiati e il 23enne giovane talento Pit Coccato.

È uno spettacolo fatto di storytelling e musica, in cui alcuni autori, sia del passato sia contemporanei, vengono presentati con brevi racconti e successivamente da un brano eseguito dagli ottimi musicisti che accompagnano Ciuferri.
Per il sottoscritto è un ripartire dalle basi. Da un racconto che si fa musica, o meglio, da un racconto che arriva alla musica. L’inquadratura scelta per fotografare l’artista descritto non è mai banale e ci porta verso lati poco noti o conosciuti, raccontando aspetti delle grandi star accessibili solo a chi si è dedicato a fondo alle loro biografie. Si parte con Tim Buckley, con un genio eclettico e problematico, dal suo rapporto con il figlio, l’amore, le famiglie, la dipendenza. Il racconto non è mai morale, pietista, anzi, incalza, aumenta di ritmo, lascia indizi sparsi, quasi come fosse un gioco tra chi racconta e il pubblico. E poi, all’apice della narrazione c’è una morte, un punto fermo, un presente. E poi musica, a turno tra Nathalie e The Niro. Il racconto prosegue con la Joplin, il Chelsea Hotel e l’incontro con Cohen, un Thom Yorke alle prese con ospedali, plastiche e una mamma, un Cash che diventa statua e gigante, come nella realtà, sospeso tra Steinbeck e linee bianche da seguire, il Lead Belly di In The Pines, resa famosa dai Nirvana nell’Unplugged, e poi Chris Cornell, Jeff Buckley, Lou Reed.
È una piccola Spoon River in prosa, in cui il soggetto non è rivelato se non dalla sua musica. Un gioco fatto di parole chiave, canzoni nascoste nelle vite narrate, piccoli segreti di grandi personaggi. È come stappare una bottiglia di buon vino e trovare tutti i profumi possibili, e, alla fine, assaggiare.
Risultati della serata: ho comprato il libro oggi. Se Ciuferri scrive come racconta, allora ho delle belle ore davanti. Poi ho scoperto che la musica dal vivo è ancora in grado di emozionarmi. Anzi no, diamo merito anche al sottoscritto: i peli delle mie braccia hanno ancora memoria e sanno alzarsi con fierezza in caso di musica ben suonata. Posso vantarmi di questa cosa, ieri sera ne sono stato orgoglioso e quasi mi sono commosso. Ultimo: cantare, anche sussurrando, dentro la mascherina è come fare l’amore sotto le lenzuola.
Lo fai proprio solo se devi. 

La musica è tornata dal vivo, il mondo è tornato un posto più vivibile, grazie anche a questi artisti che nonostante il poco pubblico si sono impegnati e hanno dato vita a uno spettacolo interessante e appassionante.
Regolarmente conclusosi nel rispetto del coprifuoco vigente. 

Chiudo con un consiglio da amante dei bei racconti raccontati: il podcast. Ragazzi, questo spettacolo deve uscire dai teatri e dalle piazze. Osate. 

 

Andrea Riscossa

Foto di Copertina: Davide Garibaldi

Daniel Blumberg @ Anfiteatro del Venda

Una magnifica follia

Anfiteatro del Venda (Galzignano Terme) // 13 Settembre 2020

 

Praticamente c’è sto tizio, vestito in maniera leggermente eccentrica di scuro, cappellino da baseball calato sul viso a nascondere lo sguardo, che sta seduto al piano, e tamburella, giochicchia, insiste in maniera seriale, quasi ossessiva, su un paio di note gravi, le quali escono dall’impianto effettate e stridenti, completamente snaturate. 

“Starà facendo il sound check”, presumo sia stato il pensiero mio e dei (non moltissimi) presenti, comodamente sdraiati sul prato inclinato che circonda il palco del Venda, mentre il sole lentamente prosegue il suo tragitto verso ovest, tuttavia ancora troppo alto sull’orizzonte per lasciar spazio allo spuntare delle luci della pianura padana, fondale naturale per le esibizioni da queste parti.

Tra una chiacchiera, un bicchiere di vino ed un paio di risa poco alla volta tutti si convincono del fatto che quella figura longilinea e vagamente “strana”, china sul piano, deve essere lui, dai, il signor Daniel Blumberg, trentenne inglese che in questa domenica settembrina porta in Italia, unica data nella penisola, in una location con pochi eguali, il suo recente On&On….

Il di cui sopra musicista non pare dare molta importanza alla situazione che lo circonda, intento com’è a guardarsi intorno quasi smarrito, a stuzzicare la tastiera, bofonchiare qualcosa in un microfono, accennare un paio di note sull’armonica, veder correre senza sosta una biondissima bambina (che ancora non so se potesse essere sua figlia o comunque appartenente all’entourage), sorseggiare del vino, alzarsi a far nulla in particolare per poi risedersi al piano, sistemare un libretto sul leggio. 

In questo clima tra il bucolico dell’ambientazione, l’informale della domenica pomeriggio orario aperitivo, il surreale del vedere il motivo stesso del tuo pellegrinaggio in cima a queste colline intento a cazzeggiare in mezzo al palco che quasi per caso ti accorgi che gli ultimi due accordi di piano somigliano davvero molto a quelli di Madder, pezzo tratto da Minus, prima gemma regalata al mondo da Daniel Blumberg, risalente al 2018. Quando, diversi minuti dopo, si avvicina al microfono e con il suo timbro inconfondibile scandisce “It’s my morning answer” non ci sono più dubbi, è lei; semmai ti resta qualche perplessità per il semplice fatto che non sai ancora se sia effettivamente iniziato il concerto o meno, ma tant’è, inutile continuare a crucciarsi, meglio assumere una posizione più adatta e rispettosa verso quello che, e non lo dico solo io, è l’autore di uno dei migliori dischi del 2020 ed i cui concerti, e io non lo dico perché è la prima volta per il sottoscritto, sono sempre delle esperienze magnifiche.

Prendendo come assioma dunque che Madder sia stato il primo brano in scaletta, quello che emerge subito, senza troppi fronzoli, è la continua, incessante necessità, il bisogno che Blumberg sembra di avere di alterare, portandoli quasi fino al rumore vero e proprio, quasi fino alla cacofonia, i suoi brani; i quali, beninteso, sono dei capolavori, dei veri miracoli cantautoriali.

Daniel Blumberg ha una facilità e creatività espressiva e compositiva imbarazzante da quanto è sfacciata, brani come Minus, terzo brano in scaletta quest’oggi, o la title track On&On, che ha trovato spazio verso la fine del live, sono composizioni che la stragrande maggioranza dei cantautori al giorno d’oggi pagherebbe per riuscire a comporre, farebbe carte false per avere qualcosa di simile a Permanent in repertorio, credetemi. 

Un incrocio tra Mark Linkous e Keaton Henson ed un pizzico di Sufjan Stevens (con sfumature nella voce di Ben Sollee aggiungerei) sotto il quale scorre una vena rumorista di pura avanguardia, motivo per il quale più che a veri e propri concerti, quelli di Daniel Blumberg somigliano ad esibizioni  che potreste vedere in qualche MoMa o Guggenheim o in qualche galleria d’arte moderna, come quando in un momento di passaggio tra Family and On&On, unite da lenti, lentissimi tocchi di piano e vaneggi di armonica, ha passato svariati minuti a creare un fastidiosissimo rumore con un microfono, o come prima di Teethgritter, quando i minuti sono trascorsi nel guardarlo far cadere all’infinito nella coda del piano diversi oggetti metallici (monete forse?). 

È la struggente, severa carezza di The Bomb a chiudere quest’esperienza così trasversale, così vera; il sole ora sì è giunto a destinazione, dietro alle colline e al contempo le luci del mondo, mai così distanti, disegnano un tappeto intermittente alle spalle di quest’uomo, questo concentrato di creatività e stupore, di dolcezza e frastuono, che stranito, spaesato, si alza dal pianoforte, un abbozzo di inchino, non una parola, due passi a lasciare gli assi del palco del Venda, si siede poco lontano, “Minus the intent to feel, I’m here”.

 

Alberto Adustini