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Tag: denmark

Roskilde Festival 2022

Da dove iniziare a parlare del Roskilde Festival, istituzione danese dal 1971, quest’anno alla sua 50ª edizione (posticipata dal 2020)?

Partiamo dall’inizio: è l’una di pomeriggio di mercoledì 29 Giugno, fa un caldo terribile per la Danimarca, sono schiacciata da 12 kg di zaino sulle spalle pieno di macchine fotografiche e obiettivi, il computer, annessi e connessi, ho due braccialetti al polso che mi daranno accesso al festival e ai palchi e sto camminando in salita.

Ma chi me lo sta facendo fare?!

E poi, inizia a vedersi un pinnacolo arancione in mezzo agli alberi, sto arrivando da dietro l’iconico tendone arancio dell’Orange Stage, simbolo del festival dal 1978 quando l’organizzazione lo comprò di seconda mano da un tour dei Rolling Stones, e mi rendo conto di starmi avviando verso una cosa forse più grande di me, un’emozione intensa mi prende alla gola sapendo chi è passato su quel palco e tristemente la tragedia che ci si è consumata davanti. È difficile spiegare a parole la sensazione allo stesso tempo di timore reverenziale dettata da un posto che mi ha sempre fatto molta paura (nel 2000 avevo circa l’età dei ragazzi che sono rimasti schiacciati dalla folla, il pensiero va sempre lì: e se fosse capitato a me?) e di pura gioia e senso di appartenenza. Come due poli uguali di una calamita che generano due forze tanto opposte quanto potenti, una paura inconscia e il richiamo affascinante di un’esperienza nuova ancora tutta da vivere, è bastato un passo verso le cancellate per sbilanciare questo stallo emotivo e farmi attrarre dal magnetismo che un evento del genere esercita su chi, come me, è affamato di musica.

Dopo vari tentativi e km camminati a vuoto per trovare il backstage village, è stato il momento di andare a perlustrare il festival prima dell’apertura al pubblico, letteralmente la quiete prima della tempesta. L’area dove si svolge il programma musicale del festival è grande, circondata da aree altrettanto grandi adibite a campeggio, piccoli villaggi con altri palchi, aree ricreative, installazioni artistiche e altro ancora, tant’è che nella settimana del festival la città di Roskilde da decima, diventa la terza più popolosa del Paese.

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È surreale passeggiare in questi grandi spazi, sfilare davanti ai palchi ancora silenziosi e immaginare quanto sarà calpestato il terreno tra poche ore.

A quanto pare c’è un rituale che assomiglia più ad una spedizione di caccia grossa che ad un festival: i fotografi si vestono con delle pettorine ben visibili, si vanno a posizionare in punti strategici, possibilmente al riparo di qualcosa per non essere travolti, e cercano di catturare questa specie di migrazione di gnu hippy. Allo scoccare delle cinque in punto del mercoledì pomeriggio, si aprono i cancelli che separano i campeggi dall’area del festival e c’è “la grande corsa” per accaparrarsi un posto in prima fila al proprio palco preferito.

Il mercoledì è una giornata breve ma intensa, si apre con Fontaines D.C. e in poche ore si alternano sui palchi nomi come Robert Plant, Post Malone e Biffy Clyro. Il mio Tour de Force, in parallelo al Tour de France che si svolge su suolo danese in questi stessi giorni, inizia quindi con un giro di ricognizione: cerco di capire come muovermi tra un palco e l’altro, i percorsi più brevi, gli ingressi ai pit, le posizioni strategiche e quali obiettivi montare sulle macchine.

Alla fine della prima giornata, dopo solo sei concerti, i piedi bruciano come se avessi camminato sui carboni ardenti, ma sono solo 13 km in scarpe da tennis: come faccio ad arrivare a sabato?

Qualche ora di sonno, un’occhiata veloce alla foto e giovedì ricomincia la rumba con un programma ancora più fitto di quello del giorno prima. Oggi tappa crono, nel senso che ho i minuti contati: dalle 16:00 in poi ad ogni scoccare dell’ora un nuovo concerto da fotografare, spostarsi da un palco all’altro attraverso fiumi di gente e birra, ma nonostante tutto riesco a vedere un pezzo di redivivo indie rock direttamente dal mio amato Pacific Northwest, Modest Mouse, e a seguire una reminiscenza adolescenziale, le TLC, per poi saltare da Jimmy Eat World e tornare ad una musica più pacata ma non meno energica con The Whitest Boy Alive, forse uno dei gruppi che più di tutti stuzzicavano il mio interesse. Pausa. Ora di tirare fiato prima della reginetta pop Dua Lipa sull’Orange Stage ma soprattutto, molto più intrigante per me, la dolcissima Phoebe Bridgers con la sua banda di scheletrini a suonare all’Avalon. Atmosfera, delicatezza, un tocco di malinconia intimista molto più nelle mie corde delle ballerine scosciate viste poco prima.

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Quattro giorni di festival sono lunghissimi, come un weekend con tre venerdì, ma il venerdì quello vero arriva e porta con sè The Smile, il neonato progetto di Thom Yorke e Jonny Greenwood presto anche in Italia, e Arlo Parks, energica poesia R&B. Venerdì è la tappa di montagna, come ben rappresentato dalla scenografia che Tyler, the Creator fa installare sull’Orange Stage, e lui così tanto nel ruolo dello stambecco che giustamente si fa fotografare solo da lontanissimo. Venerdì porta anche la pioggia, un paio di scroscioni brevi ma intensi che purtroppo liberano nell’aria quegli odori acri e fermentati tipici di festival, sopiti i giorni precedenti dal terreno secco e assetato di birra (più o meno processata dal corpo umano). Un festival non può considerarsi tale se non ti prendi almeno due gocce d’acqua: è chiaramente indicato nello statuto dei festival nordici, capitolo “avversità inutili per il gusto di dar fastidio”. Adesso, quindi, siamo in regola anche con questo.

Sabato: arriva il Tour de France, per davvero, che chiude le strade dalle sette di mattina e mi obbliga ad una levataccia se voglio essere presente al rituale giornaliero della distribuzione dei pass per l’Orange Stage, che oggi ha il programma più ciccio dei quattro giorni: St. Vincent, Haim e The Strokes.

Ma come dice il detto, il mattino ha l’oro in bocca e in particolare a queste latitudini, dove già alle 5:30 è giorno fatto da un pezzo, mi dà l’occasione di vedere un altro aspetto del festival altrimenti non celebrato abbastanza: il lavoro incredibile che fa il personale – esclusivamente volontario – per rendere possibile il tutto. Per la rubrica Non Tutti Sanno Che, infatti, il Roskilde Festival è un evento non-profit; si basa ogni anno sul lavoro di circa 30,000 volontari che montano, smontano, puliscono, gestiscono, sorvegliano e aiutano e chi più ne ha più ne metta in modo che, al netto delle spese vive, il ricavato della settimana vada a supporto di iniziative umanitarie e culturali a beneficio di bambini e giovani.

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Tornando a noi e alla mia passeggiata tra prati che venivano ripuliti dall’immondizia del giorno prima, strade spazzate e facce assonnate, mi ritrovo a far colazione con kanelsnurrer appena sfornate (ci sarebbe da scrivere un articolo solo sulla varietà e la bontà dell’offerta culinaria) ad un tavolo condiviso con tanti altri mattineri come me, baciata dal sole mentre guardo il tendone dell’Avalon vuoto e silenzioso, ignaro – ed io con lui – di quello che avrebbe visto da lì a poche ore durante il live indemoniato degli Idles. 

La giornata scorre piuttosto veloce, tra Big Thief e St. Vincent – da oggi in poi anche detta Barbie Rockstar, grazie ad una performance impostata e plasticosa – e finalmente arriva il momento: The Strokes come ultimo headliner. Aspettative altissime, soprattutto memore del live sorprendente al Primavera Sound del 2015, ma… il “momento” si è fatto attendere ben mezz’ora – cosa che ai festival proprio non si fa – e forse visto il disastro che si è svolto sul palco forse era meglio che il momento non arrivasse mai. Julian Casablancas è stato a dir poco imbarazzante nella sua performance, stonato, fuori tempo e apertamente senza voglia alcuna di intrattenere le decine di migliaia di persone che si aspettavano di chiudere il festival con il nome più atteso dei quattro giorni.
“Siamo qui, dobbiamo ammazzare il tempo” – non esattamente la dichiarazione di un frontman carismatico; il resto del gruppo nel frattempo faceva il suo sporco lavoro, ma senza particolare coinvolgimento nè nei confronti del suo cantante nè nei confronti degli astanti. Uno spettacolo così misero e un meltdown così pesante non lo vedevo da anni, davvero un peccato e un po’ una vergogna che sia successo nel momento più alto di quello che altrimenti sarebbe stato un festival delizioso.

Lasciandomi alle spalle una Last Nite che da lontano sembrava vagamente meno massacrata di Reptilia, ho salutato il festival grande grosso e che mi faceva paura solo pochi giorni prima con un sentimento di affetto e gratitudine, promettendogli di tornare ancora. Qui lo chiamano orange feeling e adesso capisco a cosa si riferiscono.

Francesca Garattoni

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Syd For Solen 2022

Dice il detto “tra i due litiganti, il terzo gode”.

Così è stato per il Syd for Solen: dopo uno scontro fratricida tra festival danesi la settimana precedente (NorthSide vs. Heartland), il neonato festival di Copenhagen, piazzandosi nel secondo weekend di Giugno, si è potuto accaparrare nomi di tutto rispetto della scena internazionale, liberi anche dagli impegni del Primavera Sound a Barcellona.

Collocato a Søndermarken, cuore verde di Frederiksberg, delizioso quartiere subito ad Ovest del centro della capitale danese, tra casette in mattoni a vista, aiuole ben curate e hygge a palate, il grande prato circondato da alberi secolari è stato calcato da un numero variabile tra dieci e quindici migliaia di persone al giorno, che hanno visto alternarsi su due palchi gruppi emergenti e icone affermate.

Venerdì in particolare, giorno più tranquillo dei tre a livello di presenze, più che ad un festival è sembrato di assistere ad una scampagnata tra amici: gruppetti di persone sparse sull’erba, birra d’ordinanza in mano, la gente si è goduta l’indie rock di Velvet Volume, PRISMA e Goat Girl in completo relax prima che l’atmosfera si iniziasse a scaldare con il rap di Slowthai. È per i Foals che si inizia a vedere quella massa di gente che tanto è mancata di fronte ad un palco, massa che non farà che aumentare per il primo headliner della tre giorni, Liam Gallagher.

Il nostro caro Liam sale sul palco con un grugno che già urlava smaronamento a mille e non arriva neanche alla fine della prima canzone per trovare da dire con i ragazzini in prima fila che sfoggiavano delle maglie da calcio evidentemente non gradite al nostro. Per quanto l’umarèll albionico non si smentisca nell’immobilità delle sue performances, le emozioni che suscitano le hit dei bei tempi che furono targate Oasis scuotono corpi e anime di chi ascolta.

Il picco del festival si ha però nella seconda giornata. Se il buon Sandro Ciotti fosse ancora vivo, vi reciterebbe la lineup più o meno così: “inizia la giornata sul palco principale Anna Calvi a seguire la favolosa Sharon Van Etten per lasciare poi spazio agli eterei Slowdive [respiro] deviamo verso il palco piccolo per l’esordio in terra danese delle Wet Leg per poi ripiegare sul palco principale per il set conclusivo di questa giornata soleggiata e bellissima con The National”. Sabato è stato come gustarsi un vassoio di pasticcini belli farciti, appaganti, da godersi uno alla volta e assaporare fino in fondo il sapore distintivo di ognuno.

Il pasticcino più gustoso è stato, almeno per la sottoscritta, il set de The National: coinvolti e coinvolgenti (a Copenhagen sono di casa, NdA), hanno dato al pubblico uno delle loro migliori performances, con un paio di nuovi pezzi interessanti – anche se non così d’impatto come fu ascoltare dal palco dell’HAVEN KBH Carin at the Liquor Store prima dell’uscita su disco – e un continuum di canzoni tratte da tutta la loro discografia, così densa di titoli meravigliosi da non far rimpiangere quelli lasciati fuori dalla scaletta. Il concerto si chiude con la malinconica About Today, da assorbire nota per nota guardando tra le fronde degli alberi la magia del cielo ancora chiaro delle notti nordiche.

Domenica le previsioni davano una lineup un po’ più varia in termini di sound e rovesci sparsi. Purtroppo l’acquazzone più grosso si è avuto al secondo pezzo dei Parcels che ha costretto il gruppo a battere in ritirata e sospendere il concerto almeno finchè il diluvio non si è trasformato in pioggerella. Sarà stata la musica coinvolgente, la voglia di far festa, ma quando il sole ha bucato le nubi l’ovazione del pubblico è stata assordante. Il pomeriggio procede con il pop svedese delle First Aid Kit e il soul di Leon Bridges per arrivare alla festa conclusiva, il set dei Jungle che hanno fatto saltare e ballare in un rito collettivo di riappropriazione della vita sociale negata dai due anni di pandemia.

Si chiude così questa prima edizione del Syd for Solen, festival che ci auguriamo ritorni il prossimo anno e che, nonostante qualche aggiustamento da fare soprattutto riguardo alla quantità di food trucks presenti, ha saputo coniugare la dimensione cittadina della location con la dimensione internazionale degli ospiti in modo squisitamente impeccabile.

Francesca Garattoni

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NorthSide 2022

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• Day 1 •

2 Giugno 2022

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Nick Cave and The Bad Seeds

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Disclosure

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Nathaniel Rateliff & The Night Sweats

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Drew Sycamore

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Jung

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Hans Philip

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• Day 2 •

3 Giugno 2022

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Lewis Capaldi

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Suspekt

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The Avalanches

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Thomas Helmig

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Tom Misch

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Spleen United

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Tessa

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Coco O.

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• Day 3 •

4 Giugno 2022

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The Minds of 99

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Kashmir

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Mew

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Scarlet Pleasure

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Jonah Blacksmith

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Yung @ Radar

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• Yung •

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Radar (Aarhus)  // 26 Giugno 2021

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Suspekt @ NorthSide

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Bon Iver @ NorthSide

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