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Tag: francesca garattoni

Things Are Great è il disco che i Band of Horses hanno fatto come volevano

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Dopo quasi sei anni da Why Are You OK, i Band of Horses tornano con un nuovo album, Things Are Great, che – già dal titolo – promette alquanto bene. Tante le novità: la formazione in parte rinnovata, un produttore di talento ed un songwriting più trasparente e sincero che mai. Come lato complementare della medaglia, invece, ciò che non cambia è il suono iconico del gruppo di Ben Bridwell che ritorna alle origini, caratterizzate da un sound ancora più indie ed alternative rock. Abbiamo approfondito questi aspetti –  e molti altri! – nell’intevista con il batterista Creighton Barrett. Inevitabili anche i riferimenti alla sospensione, musicale e planetaria, connessa alla pandemia ed una menzione finale a The Funeral, che, poco tempo fa, abbiamo ritrovato come soundtrack d’eccezione in una serie TV italiana di grande successo. Ricordate quale?

 

Ciao Creighton e grazie di essere qui con noi! Partiamo parlando del nuovo album Things Are Great, fuori dal 4 Marzo dopo quasi sei anni dal vostro ultimo disco. Nonostante sia passato un po’ di tempo, è possibile che certe atmosfere latenti e qualche ispirazione fossero già presenti in Why Are You OK? Come se quel disco, oltre ad avere una connessione nel titolo, contenesse già una fine per un nuovo inizio?

“Si, beh, abbiamo avuto diversi membri che sono andati e venuti dall’ultimo disco: non è una novità, la nostra lineup cambia piuttosto regolarmente, nel bene e nel male. Ma si, penso che questa sia una continuazione nel senso che Why Are You OK è stato un disco che abbiamo fatto distintamente per fare il disco nel modo che volevamo fare il disco, in contrapposizione, forse, non tanto ad avere influenze dall’esterno ma forse tornare alle origini di noi (come band, NdT), solo per il gusto di fare i dischi che vogliamo fare e i dischi che vogliamo ascoltare. Pertanto, penso che questo nuovo disco Things Are Great sia ancora più tutto questo, questo essere quei ragazzini punk rock che eravamo abituati ad essere e non preoccuparci troppo di quello che la gente possa pensare: facciamo solo questo disco al meglio per noi e facciamo meglio che possiamo.
Penso che questi due ultimi dischi segnino definitivamente una sorta di separazione dal disco precedente a Why Are You OK, che è stato una specie di esercizio, con qualcun altro che ci diceva in che direzione andare e come farlo, e questo non ha proprio funzionato bene con noi. Quindi abbiamo preso le redini in mano.”

 

In termini di sound, possiamo ritrovare il suono iconico dei Band of Horses. Tuttavia, nella produzione dell’album il contributo di Ben Bridwell, che ha anche lavorato tanto con il tecnico del suono Wolfgang “Wolfie” Zimmerman, ha avuto molto più peso del solito. Cos’è successo in quella fase del processo e come sono andate le sessioni di registrazione?

“Avevamo iniziato il disco con il nostro precedente produttore da Why Are You OK, Jason Lytle, che viene da un gruppo favoloso chiamato Granddaddy. Avevamo fatto Why Are You OK con lui ed era stato grandioso, ma abbiamo iniziato le sessioni per Things Are Great di nuovo con lui e qualcosa non girava nel modo giusto, semplicemente non lo sentivamo bene.
Abbiamo registrato qualche traccia con Jason e ci siamo presi un po’ di tempo e abbiamo suonato qualche concerto e ci siamo seduti con quello che avevamo fatto fino a quel momento. Non eravamo dove pensavamo di dover essere e abbiamo deciso che, fondamentalmente, dato che eravamo all’inizio del processo non sarebbe poi stata questa gran perdita se ci fossimo detti “Sai cosa? RIcominciamo da capo!”.
Abbiamo questo buon amico che vive nella nostra città – che è Charleston, South Carolina – che si chiama “Wolfie” Wolfgang Zimmerman. È questo ragazzo più giovane di noi che fa della gran bella musica con queste band locali nella nostra città, e faceva delle gran belle cose in un ripostiglio, neanche in un vero studio. Quindi, se questo ragazzino è così talentuoso da far suonare queste band in modo così incredibile senza neanche essere in un vero studio, cosa succede se lo piazziamo in uno vero? La cosa ha funzionato in modo fantastico e penso che sia per Ben che per me – posso parlare a nome di entrambi – Wolfie sia stato una ventata d’aria fresca. È arrivato dicendo “Voglio che voi ragazzi suoniate come voi stessi”, che è una cosa che sai, la gente ti dice sempre quando ti metti a fare un nuovo album, ma le cose vengono tirate di qua e di là, in certe direzioni che poi finiscono per esserci tolte di mano. A volte, e questa volta è stato così, tutto quello che voleva fare è stato aver fiducia nel tornare indietro al modo in cui abbiamo fatto i nostri primi dischi. Ben e io non abbiamo nessuna educazione musicale, siamo autodidatti nel suonare i nostri strumenti e penso che Wolfie abbia voluto affinare questa cosa, più che fare un qualcosa che suonasse grandioso, ha solo voluto che suonassimo come quando siamo con i nostri strumenti e far musica. Che alla fine è come suona il disco, credo. Risposta lunga, sorry!” (ride)

 

Nella vostra discografia, i testi rappresentano una parte fondamentale di ogni disco: che storie raccontano le canzoni di Things Are Great? C’è una traccia a cui sei particolarmente affezionato?

“La mia traccia preferita dell’album s’intitola Ice Night We’re Having ed è questa sorta di galoppata veramente strana, una canzone che suona veramente indie rock, che è un po’ il mio cuore. Questa è la mia canzone preferita.
Per quanto riguarda i testi, Ben stava attraversando un sacco di situazioni pesanti durante la creazione di questo disco. Pertanto non posso veramente rispondere riguardo al contenuto dei testi, ma Ben davvero viene fuori (in quello che scrive, NdT) e pensa davvero a cosa sta dicendo. Ma penso che questo disco sarebbe comunque venuto fuori: abbiamo dovuto posticipare a causa della pandemia e di tutto ‘sto casino in cui siamo tutti; penso che questo lo abbia aiutato a scrivere le parole in un modo forse di più facile accesso, dato che tutti stiamo in qualche modo vivendo tempi difficili. Penso sia più facile abbattere quei muri che probabilmente aveva precedentemente messo su; adesso che siamo tutti in una situazione un po’ merdosa, le sue parole su questo disco si prestano ad essere più dirette che nei dischi precedenti, dov’era più come “Guarda, un po’ capisco cosa sta passando questo ragazzo anche se io sto passando qualcosa di totalmente diverso”, mentre adesso la cosa si presenta in modo molto più ovvia per tutti noi.”

 

Cover band of horses

 

Il titolo dell’album suggerisce un’accezione positiva, potremmo quasi dire una specie di proposito. Tuttavia, all’interno della tracklist troviamo canzoni come Tragedy of the Commons, In The Hard Times o In Need of Repair che si riferiscono a situazioni complicate. Lo scombussolamento planetario causato dalla pandemia ha influenzato la scrittura dell’album in qualche modo? Come avete vissuto o state ancora vivendo questi anni di sospensione e lontano dai palchi?

“In Luglio, la scorsa estate, abbiamo finalmente avuto il via libera per suonare i nostri primi concerti ed erano due concerti in preparazione al Lollapalooza. Abbiamo suonato qualche concerto, siamo tornati alla nostra vita, ma durante quell’anno o poco più di distacco, metti in discussione un sacco di cose: per dirne una, stavamo seduti su questo disco, che era finito, e il tempo senza far niente può diventare davvero orribile. Hai troppo tempo a disposizione per pensare “È un buon disco? Fa schifo?”
È stato così tanto tempo nella fase di creazione, come una specie di quadro che non finirai mai. Ad un certo punto devi mollare. Quel periodo è stato particolarmente duro per tutti noi, non solo finanziariamente: sai, Ben e io abbiamo entrambi famiglia, abbiamo dei bambini e gestire il tutto è stato difficile.
Ma ci ha anche fatto mettere in discussione un sacco di cose su cui forse prima non ci siamo mai fatti domande. È stato come se tutto si fosse fermato, non c’erano manuali d’istruzione, nessuno sapeva cosa fare, nessuno sapeva cosa farsene. È sembrato che per la prima volta – anche quando ci sono stati tracolli finanziari e simili, la gente continuasse ad andare a spettacoli e la gente continuava ad andare al cinema, come durante la Grande Depressione, la gente aveva uno sfogo artistico – per la prima volta non fosse una possibilità contemplata (quella di fare arte, musica, NdT). E quindi quando arrivi al punto di “Cosa ne facciamo dei musicisti che suonano live?” nessuno sapeva cosa fare. Tutto durante la pandemia era così focalizzato al non far succedere che era davvero opprimente. Era difficile pure arrivare al concetto di “Merda!”.
Abbiamo fatto questo per vent’anni ed è una specie di seconda natura per noi. Per i primi mesi non sapevamo neanche cosa ci stava colpendo. Era tutto un “Wow, iniziamo qualcosa di nuovo? Lo facciamo? Non faremo più nulla di tutto questo?” Nessuno aveva nessuna risposta, era tutto pazzesco e per fortuna il cielo si è rischiarato un po’ e abbiamo ricevuto le email per questi concerti pre-Lollapalooza e finalmente è stato “Cazzo, si!”.
Insomma, tempi folli…”

 

Non so se sei al corrente che la vostra canzone The Funeral è stata recentemente usata in una produzione Netflix Italia intitolata Strappare Lungo i Bordi. È un colpo di grazia emotivo, non appena le note inconfondibili della sua intro attaccano, il protagonista raggiunge l’apice del suo viaggio interiore verso la presa di coscienza e accettazione della realtà che sta vivendo. Com’è il tuo rapporto con questa canzone in particolare, che ha fatto così tante apparizioni sia sul piccolo che grande schermo, solitamente per sottolineare momenti intensi (e spesso pieni di lacrime)?

“Ad essere onesti, il peso di quella canzone non mi aveva veramente colpito finchè non abbiamo iniziato a suonarla dal vivo e allora è diventata tutta un’altra cosa. È stato come… nel bene o nel male, ci sono persone che conoscono solo quella canzone, e sono lì, agli spettacoli, che aspettano solo quella specifica canzone, e noi che dobbiamo piegarci a fare il nostro spettacolino con la consapevolezza che “Tu non arrivi alla fine del concerto”. Questo è un aspetto della cosa. Ma ad essere perfettamente onesti, non è mai un’occasione persa per me suonare quella canzone, perchè la sala cambia, significa così tanto per così tante persone in così tanti modi diversi. Non solo per qualcuno che ha veramente subito una perdita… è un suono identificativo per le vite di così tante persone ed essere parte del gruppo che lo ha fatto, ne sono follemente grato. Amo l’uso che ne viene fatto nei film perchè è la canzone perfetta per quella roba. È evocativa di suo e non posso neanche immaginare quanto sia evocativa per la gente che l’ha sentita e un po’ se l’aspettano. Ma per quello che mi riguarda, non perderà mai la sua meraviglia. La gente continua a metterla nei film… questo è un gran bell’uso di quella canzone! Ancora e ancora! Funziona! È somatica e cinematica in modo ovvio. Penso sia fantastica. Lo show (Strappare Lungo i Bordi, NdT) è bello?”

 

Si, è veramente una bella produzione. È un fumetto animato di Zerocalcare, un comic artist davvero talentuoso e molto conosciuto in Italia. Pensavamo fosse sarcastico e invece, alla fine, quando The Funeral attacca, siamo scoppiati tutti in lacrime. È davvero un’esperienza di formazione.

“Wow! Zerocalcare? Ci darò un’occhiata, grazie!”

 

Laura Faccenda
Editing e Traduzione: Francesca Garattoni
Foto: Stevie and Sarah Gee

Things Are Great is the record Band of Horses made the way they wanted to

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After almost six years since Why Are You OK, Band of Horses are back with their new album Things Are Great. Many are the news on this record: the band lineup partially renovated, a talented producer and the most sincere and transparent songwriting ever. To balance this out, what does not change is the iconic sound of Ben Bridwell’s band, that circles back to its roots and their indie and alternative rock attitude. We dug into these topics – and many more! – with drummer Creighton Barrett, touching also the global suspension of our lives due to the pandemic and, last but not least, a question about The Funeral, that we have recently found in the soundtrack of a successful Italian Netflix production.

 

Hello Creighton and thanks for being here with us. Let’s start talking about your new album, Things Are Great, out on March 4th after almost six years since your last release. Although some time has passed, is it possible that some underlying atmospheres and inspiration were already seeded in Why Are You OK? As if that record, besides having a connection within the title, already contained an end and a new beginning?

“Yes, well, we’ve had some different members that have come and gone since the last record: that’s nothing new, our lineup changes pretty regularly for better or for worse. But yes, I think this is a continuation in the way that Why Are You OK was a record that we made distinctively to make the record the way that we want to make the record, as opposed to, maybe, not so much outside influence but maybe getting back to the roots of us, just making the records that we wanna make and the records that we want to listen to. So, I think this newest record Things Are Great is even more of that, of been the little punk rock kids we used to be and not worrying so much about what other people are gonna think: let’s just make this record the best for us and make the best that we can.
I think those two records definitely show a bit of a departure from the record before Why Are You OK, which was kind of exercise, with someone else kind of telling us which way to go and how to make it, and that didn’t sit very well with us. So we kind took the reins.”

 

In terms of sound, we can find the iconic sound of Band of Horses. However, in the production of the album the contribution of Ben Bridwell, who also worked a lot with the sound technician Wolfgang “Wolfie” Zimmerman, had much more weight. What happened at that stage of the process and how did the recording sessions go?

“We had started the record with our previous producer from Why Are You OK, Jason Lytle, who is from a fantastic band called Granddaddy. We made Why Are You OK with him and it was great, but we started the session for Things Are Great with him again and it just wasn’t vibing properly, just it didn’t feel right.
We recorded a few tracks with Jason and kind of had some time and we played some shows and kind of sat with what we’ve done thus far. It just wasn’t where we thought we should be and we decided that it was so early in the process that it wasn’t too big of a loss just to be like “You know what? Let’s start again!” basically.
We have a great friend that lives in our town which is Charleston, South Carolina, named “Wolfie”, Wolfgang Zimmerman. He’s this younger kid who’s making really great music with these local bands in our town, and he was doing really great things out of the storage shed, it wasn’t even a real studio. So, if this kid is that talented where he can make these bands sound incredible with not being even in a real studio, what happens if we put him into a real one? We worked out fantastically and I think to Ben and I, I can speak for both of us, Wolfie was just a breath of fresh air. He came into it, saying: “I want you guys to sound like you guys”, which, you know, people always say they do when they go to make a new record but things get pushed, things get pulled in certain directions outside your hands. Sometimes, and this time, all he wanted to do was to trust to go back to the way we made our earlier records. Ben and I don’t have any musical training, we taught ourselves how to play our instruments and I think he wanted to hone in on that, more than try to make grandiose sounding thing, he wanted us to just to sound like we were with our instruments and making music. Which is what it sounds like, I think. Long answer, sorry” (laughs)

 

Within your discography, lyrics represent a fundamental part of every record: what stories do the songs on Things Are Great tell? Is there a track you are particularly fond of?

“My favorite track on the record is called Ice Night We’re Having which is just this really weird kind of gallop, really indie rock sounding song, which is kind of my heart. That’s my favorite song. As far as the lyrics go, Ben was going through a lot of heavy stuff during the making of this record. So I can’t really answer so much for the lyrical content, but Ben, he really comes over and really thinks about what he’s saying. I do think on this record, he said in previous interviews, I don’t know, it’s as if he’s a bit more unmasked in this record. But I think this record would have come out: we’ve got pushed back because of the pandemic and of this shit that everyone’s been in, I think it helped him to write the words to where maybe it’s easier to access them in a way everyone’s going through kind of a bad time right now. I think it’s easier to break down those walls that maybe he had in place previously to where everyone is kinda like in a shitty situation and his words on this record lend themselves in a little bit easier than past records, where it’s like: “Look, I kind of feel what this guy is going through and even though what I’m going through is completely different”, it paints a pretty easy picture for all of us.”

 

Cover band of horses

 

The album title hints to a positive meaning, we could say of “purpose”. However, within the tracklist we find songs like Tragedy of the Commons, In The Hard Times or In Need of Repair that refer to complicated situations. Did the planetary upset caused by the pandemic influence the writing of the album in any way? How did you live or are you still living these years of suspension and away from the stage?

“In July, last summer, we finally got the go ahead to play our first few shows and it was two shows leading up to Lollapalooza. We’ve played some shows, got back at it but, that year or so off, you question a lot of things: for one, we were sitting on this record and it was done and you know, idle time can be so horrible. You just have more time to think about “Is it a good record? Does this suck?”.
It’s been so long in the making, It just kind of like a painting you’ll never finish. You just let it go. That time was pretty hard for all of us, not just financially, you know, Ben and I both have families, we have children, so trying to navigate that was of course rough.
But it also made you question a bunch of stuff that maybe we didn’t get the question before. It was just like everything just came to a stop, there’s nothing on the books, no one knew what to do, no one knew how to do anything with it. It seemed that for the first time – even when there’s been financial breakdowns and stuff before, people still went to shows and people still went to the movies, like in the Great Depression and stuff like that, like they had this artistic outlet – for the first time that wasn’t even possibility. And so when you break it down to “What about musicians who played live?” ,no one knew what to do. Everything during the pandemic was focused on not letting that happen, it was so overwhelming. It was hard even break it down to like “Shit!”.
We’ve been doing this for twenty years and it’s such a second nature to us. For the first few months, we didn’t even know what hit us. It was just like: “Wow, Do we start something new? Do we? Do we not do this anymore?” No one had any answers, it was pretty crazy and luckily the clouds lifted and we got the emails about going to play those two warm up shows for Lollapalooza and it was just like… “Holy shit, it’s back”.
So, it was crazy time…”

 

I don’t know if you’re aware that your song The Funeral has been recently featured in an Italian Netflix production titled Tear Along The Dotted Line. It’s an emotional coup de grâce, as soon as the notes its signature intro start sound, the protagonist reaches the climax of his inner journey towards self-awareness and consciousness of the reality he’s living. How is your\the band relationship with this particular song, that made so many appearances both on the big and the small screen, usually to underline intense emotional moments?

“To be honest, the weight of that song didn’t really hit me till we started playing it live and then it just becomes this other thing. It’s like, for better or for worse, ‘cause there are some people that only know that song, in, there, at the show, they’re just waiting for that song, so we have to do our showbiz act which is like “You don’t get to the end”, that little act. That’s one side of it. But to be perfectly honest, it’s never lost on me playing that song live for people because the room changes, it means so much to so many people in so many different ways. Not just about like someone actually losing somebody… it’s an earmark for so many people’s lives and to be a part of a band that did that, I’m insanely grateful for it. I love the use of it in movies because it is a perfect song for that stuff. It resonates and I can’t ever tell that resonates ‘cause people have heard it and they’re going to expect it, you know? But it’s still to me at least my side, it doesn’t ever lose its awesomeness. People keep putting it in movies…that’s a great use of that song, yet again! It works there! It’s obviously somatic and cinematic. I think it’s great. Is that show good?”

 

Yes, it was a really good production. It’s actually an animated comic by Zerocalcare, who is a very talented comic artist and is very successful in Italy. We thought it was sarcastic but instead, at the end, when The Funeral started, we all burst into tears. It was a very coming of an age experience.

Wow, Zerocalcare? I’ll look him up, thanks!

 

Laura Faccenda
Editing and translations: Francesca Garattoni
Photos: Stevie and Sarah Gee

Spoon “Lucifer on the Sofa” (Matador Records, 2022)

Ci sono le band da caratteri cubitali nei cartelloni dei festival e ci sono le band da seconda linea; ci sono gruppi che fanno tanto rumore per nulla quando escono con un nuovo album, magari privo di sostanza, e ci sono gruppi che senza fanfare fanno il loro sporco lavoro, creando piccoli gioielli astratti dallo spazio-tempo.

Gli Spoon fanno parte della seconda categoria.

Ormai alla soglia dei trent’anni di onorata carriera, la band di veterani dell’indie di Austin, TX, ha dato alle stampe il suo decimo album Lucifer on the Sofa, un disco degno di nota perché riporta nelle nostre orecchie quel sound tipico di Britt Daniel & Co.

Dopo un paio di uscite non particolarmente memorabili – l’ultima, Hot Thoughts del 2017, piacevole ma algida – gli Spoon tornano alle radici, tornano in studio nel loro Texas, ritrovano il loro sound e creano il loro disco più rock ad oggi. Lucifer on the Sofa è un disco che sa di deserto e polvere, di luce dorata e chitarra suonata stravaccati su un divano, è il suono confortevole di qualcosa che conosci e sai che ti fa stare bene ma allo stesso tempo ha un risvolto fresco, un piglio energico e meno cupo dei dischi che ci hanno fatto amare la band a metà degli anni 2000.

Fin dalle prime note di Held, traccia di apertura del disco, anche un sordo riconoscerebbe il timbro Spoon delle chitarre languide e della batteria un po’ laconica; la voce di Britt Daniel poi, un po’ nasale, un po’ rauca, spettinata come lui, entra da lontano, come al solito. Dilatata, un po’ pigra o annoiata, ma comunque una presenza piena, ben armonizzata con la musica a cui si accompagna. Ecco, tipica traccia Spoon, niente di nuovo.

E invece.

E invece qualcosa succede in The Hardest Cut, una spinta, un ritmo un po’ più blues, un’ambizione di voler fare una traccia alla Run Run Run de The Who, portano ad un pezzo che avvolge e coinvolge, che ti fa venire voglia di ballare con l’aspirapolvere mentre fai le pulizie di casa.

Questa energia non è un episodio isolato, ma si propaga come un’onda attraverso le tracce successive rendendole accattivanti, seducenti, intense come i temi trattati in Wild o My Babe. L’album scorre piacevolmente, tra accelerazioni e rallentamenti, tra una tastiera incalzante e una ballata a base di chitarra prima appena accennata, timida, che si va a nascondere dietro alla batteria e per poi tornare in un crescendo splendidamente, pienamente rock.

È da questa pienezza rock, questi suoni forti, corposi, che emerge come una ventata di freschezza Astral Jacket, una traccia che fin dal primo ascolto ti fa fermare, qualsiasi cosa tu stia facendo, perchè vuole la tua completa attenzione e tu non puoi che dargliela.

“In the blink of an eye / You can feel so fine / You can lose all track of time”

In un battito di palpebre, ti puoi sentire così bene. In un battito di palpebre, ti puoi perdere completamente, ed è esattamente così che ci si sente: inermi, si viene inghiottiti in una parentesi di pace e tranquillità, totalmente rapiti da backing vocals eterei, ma quella che sembra eternità in realtà svanisce nel tempo di un battito mancato del cuore.

Sta a Satellite, paradossalmente, riportarci sulla terra con la sua languida dichiarazione d’amore, mentre il congedo avviene con la title track Lucifer on the Sofa, la perfetta conclusione di un disco che ti entra dentro, ben pensato e ben eseguito, e che non sapevi di aver bisogno di ascoltare finchè, con un mezzo atto di fede o di abitudine, non premi play la prima volta.

E se per caso doveste incrociare la vostra strada con quella degli Spoon, che siano headliners ad un festival di quartiere o in un anonimo slot pomeridiano a qualche grande evento, fatevi un piacere: non perdeteveli, perchè vi sapranno dare rock, quel rock che forse avete dimenticato quanto vi manca.

 

Spoon

Lucifer on the Sofa

Matador Records

 

Francesca Garattoni

VEZ5_2021: Francesca Garattoni

Quando l’anno scorso avevamo pensato alle VEZ5, l’avevamo fatto perché ci sembrava un buon modo per tirare le nostre personali somme musicali dopo un anno particolare in cui la musica era stata contemporaneamente conforto e nostalgia. Per quanto non abbia raggiunto gli stessi livelli — anche se ci ha provato — il 2021 si è mantenuto un po’ sulla stessa scia del suo predecessore, quindi eccoci di nuovo qua, anche quest’anno, a tirare le nostre fila nella speranza di riuscire a tornare il prima possibile e in modo più normale possibile sotto un palco.

 

Loup GarouX Strangerlands

A quanto pare devo avere una predilezione per i gruppi formati da artisti misti e assortiti: come fu l’anno scorso per i Muzz, quest’anno sono stata rapita dalla nuova creatura di Ed Harcourt con Richard Jones (The Feeling) e Cass Browne (Gorillaz). Un album di piacevole, classico rock.

Traccia da non perdere: Gallon Distemper

 

Kings of Convenience Peace or Love

In un mondo sempre più arrogante, rumoroso, scontroso e rabbioso, ecco un album pieno di garbo e gentilezza. Per quando serve una pausa dal frastuono quotidiano.

Traccia da non perdere: Love Is a Lonely Thing (feat. Feist)

 

Damien Jurado The Monster Who Hated Pennsylvania

Non ci si capacita di come ogni anno Damien Jurado riesca a pubblicare un album più bello del precedente. Ben fatto!

Traccia da non perdere: Johnny Caravella

 

Thrice Horizons / East

In attesa del prossimo album dei Deftones, la quota filo-nu-metal-un-pochino-emo-ma-comunque-sexy della classifica.

Traccia da non perdere: Northern Lights

 

Dark Mark & Skeleton Joe Dark Mark vs Skeleton Joe

Eccolo, il lato oscuro: atmosfere cupe ancora più cupe del più cupo album di Mark Lanegan, con una spruzzata di elettronica a tratti danzereccia che si ricongiunge alle sonorità di Blues Funeral e momenti di illuminazione NickCave-ani. Bello un sacco.

Traccia da non perdere: Living Dead

 

Honorable mentions 

The War On Drugs I Don’t Live Here Anymore – Album splendido, indubbiamente, ma che non spicca (a parte Living Proof) rispetto alle produzioni precedenti.

Damon Albarn The Nearer the Fountain, More Pure the Stream Flows –  Gli album solisti di Damon Albarn sono creazioni in bianco e nero: come in una foto, togliendo la distrazione del colore si può apprezzare la delicatezza delle composizioni.

AA. VV. Quando Tutto Diventò Blu – La colonna sonora all’omonima graphic novel di Alessandro Baronciani: un vortice blu da cui non si vorrebbe più uscire.

Efterklang Windflowers – La doverosa quota danese di questa retrospettiva.

IDLES CRAWLER – Il post-punk mi risulta sempre un po’ ostico, ma la varietà delle sonorità e una ritrovata melodia nella voce di Joe Talbot hanno reso quest’album digeribile anche per le mie orecchie. E poi sono dei patatoni.

 

Francesca Garattoni

Marlene Kuntz @ San Marino

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• Marlene Kuntz •

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Post-Pandemic Tour

Campo Bruno Reffi (San Marino) // 1 Agosto 2021

 

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Ludovico Einaudi @ Sogliano

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• Ludovico Einaudi •

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Notturni nel Bosco

Radura di Pietra dell’Uso (Sogliano) // 27 Luglio 2021

 

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Muzz “Muzz” (Matador Records, 2020)

Cosa succede quando un Paul Banks particolarmente ispirato si riunisce, con l’aiuto di Matt Barrick (batterista di The Walkmen e Fleet Foxes), con il suo amico di vecchia data Josh Kaufman? Nascono i Muzz.

Con questa premessa, abbiamo ascoltato l’omonimo album di esordio Muzz uscito per Matador Records e il primo pensiero è stato “questi tre suonano come Interpol e The National messi insieme”, ma senza le atmosfere cupe dei primi né la malinconia novembrina dei secondi. Coincidenze? Direi proprio di no, dato che degli Interpol c’è l’inconfondibile voce, Banks, e dei National c’è un compositore e arrangiatore, Kaufman. E poi c’è Barrick, che ci mette del suo con una battuta rarefatta qua e là in attacco a Bad Feeling o creando eleganti atmosfere da oscuro club jazz in How Many Days.

Nonostante sia particolarmente evidente individuare i gruppi di appartenenza o le affiliazioni precedenti dei nostri tre, quello che non è affatto prevedibile è il risultato di questa collaborazione: stili e retaggi ci sono, ma sono solo il trampolino di lancio per un disco che ha un’anima e un’identità tutta sua.

L’apertura è affidata a Bad Feeling, anche singolo, che entra in punta di piedi, quasi parlando, e sfoggia un finale in crescendo di ottoni molto National. Con questa premessa, si scivola in Evergreen, un gioco di echi e atmosfere languide dal sapore vagamente War on Drugs per poi tornare ai National con Red Western Sky.

Da qui l’album prende una direzione particolarmente cinematica e si stacca da riferimenti noti per definire l’identità propria del gruppo: un’infilata di brani che, chiudendo gli occhi, liberano l’immaginazione dell’ascoltatore portandolo da un film in bianco e nero (Patchouli) ad una danza avvolgente in una piazza di paese assolata (Everything Like It Used To Be).

Ascoltare questo album è come assaggiare lo sciroppo di Mary Poppins: ad ogni cucchiaio senti il sapore che ti piace più sentire in quel momento, ti lasci andare alle immagini che i brani evocano, senza un filo conduttore preciso ma tutti accomunati da un’elegante raffinatezza compositiva e stilistica.

Il cuore dell’album lo troviamo in due pezzi ugualmente evocativi e contrapposti: Broken Tambourine, con la sua intro di piano tranquilla, dolce, il cinguettio degli uccellini, è una canzone che sa di cielo lilla del tramonto, un patio, probabilmente un dondolo che guarda al viale alberato che porta all’ingresso di una casa del Sud degli Stati Uniti e richiama atmosfere da film degli anni ’50.
Di tutt’altra pasta è invece la galoppata di Knucleduster: un tiro irresistibile, la voce di Banks, capace di una dolcezza che si può notare raramente con gli Interpol, si apre come uno squarcio di sole tra le nuvole dando all’ascoltatore un senso di speranza.

Se Chubby Checker è un pezzo rarefatto e senza fronzoli, How Many Days si distingue, oltre che per gli arrangiamenti tendenti all’improvvisazione jazz già menzionati, per il calore seducente del cantato, come cachemire che scivola sulla pelle.

La chiusura dell’album è una tripletta di brani ben costruita: si inizia con Summer Love eterea e stratificata, malinconicamente inesorabile come le ombre che a fine estate si allungano sempre di più e baciano fredde la pelle abbronzata.
Si prosegue con All Is Dead To Me che riscalda l’atmosfera con l’uso profuso degli ottoni e creando dissonanze melodiche. Si giunge infine a Trinidad: il corno, una canzone crepuscolare, una ninna nanna, un commiato gentile.

Alla fine dei 43 minuti di ascolto l’album di esordio dei Muzz ci ha presi per mano e portati in quel posto dell’immaginazione dove la musica proietta film sul retro delle nostre retine, un posto sicuro fatto di melodie che riecheggiano una bellezza assodata e al contempo ci hanno fatto scoprire nuove sonorità che solo l’incontro tra tre artisti così ben assortiti come Banks, Kaufman e Barrick poteva generare.

 

Muzz

Muzz

Matador Records

 

Francesca Garattoni

 

Dai film ai videogiochi, il percorso di Lindstrand

Henrik Lindstrand di recente ha pubblicato il suo nuovo album Builder’s Journey, che abbiamo recensito qui. Incuriositi da questo album particolare, gli abbiamo chiesto com’è stato comporre per la prima volta la colonna sonora di un videogioco e dei suoi progetti futuri.

 

Da musicista rock e compositore di colonne sonore (di film), qual è stata la tua prima reazione quando LEGO Games ti ha contattato per ideare l’ambiente sonoro di un videogioco?

“L’ho presa come una nuova opportunità per addentrarmi in un’area creativa che non avevo mai esplorato prima. Inoltre, è stato incoraggiante sapere che avevano ascoltato il mio primo album da solista e che quindi erano interessati a lavorare con me come compositore per questo gioco. Come compositore di colonne sonore per il cinema, ho lavorato a generi molto diversi. Questo l’ho sentito come un progetto più personale fin dall’inizio.

Anche se il processo creativo era molto aperto, eravamo d’accordo sull’estetica generale della musica. È un sogno per un compositore quando ti viene chiesto di creare per qualcosa che è già parte della tua espressione.”

 

Quali sono, secondo te, le principali differenze fra il comporre musica per il cinema e per i videogiochi?

“La differenza principale è che il tempo non è limitato come nei film. Ogni giocatore trascorrerà un diverso quantitativo di tempo in ogni livello, il che richiede delle composizioni musicali che possano essere dilatate e che varino nel tempo. Builder’s Journey non contiene dialoghi e ha degli effetti sonori molto casuali. Quindi, la musica ha un’importante ruolo narrativo per aiutare a raccontare la storia e creare l’atmosfera insieme alla progettazione del gioco.”

 

Guardando a Builder’s Journey, viene naturale compararlo con Monument Valley: quali riferimenti hai usato per la colonna sonora per questo gioco?

“Non avevo particolari riferimenti nella fase compositiva. Ho scritto i temi per i personaggi e per alcuni dei livelli come Fireplace e Gameshow. Un metodo abbastanza simile a quello che utilizzo quando scrivo per i film. Mi sono focalizzato sulle melodie e sui temi inizialmente più che sull’atmosfera di sottofondo. Più avanti abbiamo guardato ai giochi come Florence e Inside per vedere come la musica i suoni sono stati implementati nelle transizioni tra livelli.”

 

La tracklist dell’album sembra suggerire una narrazione. Mi fa pensare alla mia infanzia quando giocavo sia all’aperto che in casa. Hai immaginato l’album come una storia o come una raccolta di diversi momenti?

“Penso che la musica abbia un aspetto narrativo nel gioco. Era anche importante che la musica potesse essere autonoma e piacevole da ascoltare al di fuori del gioco. Ogni titolo può essere visto come una parte di questo piccolo viaggio. Inoltre, crescendo io stesso con i LEGO, c’era un elemento nostalgico mentre componevo per i mattoncini.”

 

Il design del suono dell’album è denso ed intenso e dà un’atmosfera completa e notevole. Come hai prodotto i suoni dell’ambiente?

“Ho seguito lo stesso schema di regole come per i miei album da solista. Questo significa che ho utilizzato solo un pianoforte e un pianoforte a coda come fonti sonore.”

 

Quali suoni hai usato maggiormente per creare l’atmosfera di Builder’s Journey?

“Tutti gli strati della musica di sottofondo sono vengono da pianoforte e pianoforte a coda e sono poi stati processati e manipolati lungo il percorso. Credo che questo dia un suono organico in generale. Ho usato tape delays, granular synthesis e vari riverberi, delays ecc. per creare quegli ambienti sonori.”

 

Builder’s Journey sarà materiale per delle performance live?

“Ho già eseguito la title track in due concerti in Danimarca quest’anno e spero di utilizzare altro della colonna sonora per i miei concerti live in futuro.”

 

Cosa vedi nel tuo futuro dopo la pubblicazione di Builder’s Journey? Continuerai a focalizzarti sulla tua carriera da solista o dobbiamo aspettarci nuova musica dai Kashmir?

“Attualmente sto lavorando con LEGO a dei nuovi progetti. Sto anche per finire il mio terzo album da solista e sono in contrattazione per nuovo film più avanti quest’anno. È altamente improbabile che pubblicheremo nuova musica con i Kashmir a breve termine ma vedremo cosa ci porterà il futuro. Non vedo davvero l’ora di riunirmi questa primavera per la prima volta dopo sei anni sul palco con i ragazzi.”

 

Grazie mille e ci vediamo in giugno a NorthSide e Tinderbox!

“Prego, grazie per il vostro interesse – a presto!”

 

Giulia Illari Francesca Garattoni

Foto di copertina: Robin Skjoldborg

 

Grazie a Ja.La Media Activities

Big Thief @ Locomotiv Club

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• Big Thief •

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+
Pays P

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Locomotiv Club (Bologna) // 22 Febbraio 2020

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Foto: Francesca Garattoni

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Pays P

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Grazie a Locomotiv Club

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Glen Hansard @ Anfiteatro del Vittoriale

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• Glen Hansard •

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This Wild Willing Tour

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Tener-A-Mente @ Anfiteatro del Vittoriale (Gardone Riviera) // 26 Luglio 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto Francesca Garattoni

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Erlend Øye & La Comitiva @ Ribalta Marea

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• Erlend Øye & La Comitiva •

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Italy Summer 2019

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Ribalta Marea (Cesenatico) // 12 Luglio 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto Francesca Garattoni

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The Smashing Pumpkins: una storia d’amore

Il primo amore non si scorda mai e il mio primo amore, musicalmente parlando, sono The Smashing Pumpkins.

Il primo vero momento significativo della nostra storia è nel 1998 con la pubblicazione di Adore. Ad essere sincera, non ricordo esattamente il momento del colpo di fulmine che ha iniziato il tutto, forse non c’è nemmeno stato, forse è stato un lento convergere verso questo gruppo che in un momento storico in cui il grunge era allo sbaraglio per la morte di Kurt Cobain e il brit pop non era nelle mie corde, The Smashing Pumpkins erano coloro che avevano qualcosa da dirmi, in cui riuscivo a riconoscermi.

Che cosa, di preciso, mi affascinasse così tanto della loro musica, non riesco ancora a razionalizzarlo dopo più di vent’anni di ascolto: in primis furono le atmosfere gotiche, graffianti e rabbiose del singolo Ava Adore, ma poi fu la dolcezza e la malinconia delle storie raccontate in punta di dita sul pianoforte che mi fecero innamorare.

Adore nel 1998 fu un album innovativo, coraggioso nella scelta di sopperire con synths e drum machines al temporaneo allontanamento del batterista Jimmy Chamberlin – tranne che per un brano, la toccante For Martha, in cui la batteria viene affidata a quel Matt Cameron di Soundgarden e Pearl Jam come a sottolineare che dopotutto l’animo grunge che aveva avviato il gruppo non è stato del tutto archiviato come “passato”.

Già l’anno prima i Radiohead avevano fatto da apripista ad una svolta elettronica nella produzione di un gruppo rock e critici ed ascoltatori avevano accolto Ok Computer osannandolo, mentre Adore provocò frattura tra la band e i fan e tra i fan e la critica. Il coraggio, il genio visionario ed imprevedibile di Billy Corgan non fu capito da chi si aspettava un altro Mellon Collie and the Infinite Sadness, ma per chi come me in quegli anni viveva l’inquietudine della fine dell’adolescenza e l’ansia dell’ingresso nell’età adulta, fu un posto sicuro dove andarsi a rifugiare.

Innamorarsi di un gruppo nel momento più controverso della sua produzione mi ha permesso di approcciarmi a tutto quello che venne prima in modo più critico, forse con meno aspettative, anche se dopotutto, di che aspettative stiamo parlando? Prima di Adore The Smashing Pumpkins erano un gruppo grunge rock, diamante grezzo, dopo Adore una gemma scintillante dalle molteplici sfaccettature, un diamante però, purtroppo, classificabile VS1: inclusioni molto piccole ma pur sempre difetti, che alla lunga si sarebbero tramutati nel disastro e dissoluzione della band come l’abbiamo conosciuta fino al 2000.

Ma torniamo alla nostra storia d’amore: Adore è stato l’innamoramento, Machina l’attesa del ritrovarsi di quando si vive una relazione a distanza ed il primo sentore dell’aspettativa delusa.

Non sono passati neanche due anni da Adore e siamo di fronte ad un nuovo cambio di stile, una ricerca di un’identità difficile da trovare: “Amore mio, sei cambiato, non ti riconosco più”. Da una parte l’hard rock graffiante del primo singolo The Everlasting Gaze strizzava l’occhio a chi amava The Smashing Pumpkins di Tales of a Scorched Earth, il secondo singolo Stand Inside Your Love cercava (e ci riusciva) di abbracciare gli animi decadenti che avevano amato Adore, mentre con Try Try Try si cercava una svolta pop che non è mai per fortuna veramente arrivata. Il risultato? Un guazzabuglio non del tutto convincente. Lo disse la critica, lo sapevano i fan, lo sentiva anche il gruppo che nel frattempo aveva ritrovato Jimmy Chamberlin ma aveva sostituito la bassista fondatrice D’Arcy con Melissa Auf Der Maur delle Hole.

Cosa succede quando uno dei due nella coppia è confuso e non sa più cosa vuole? Amaramente, ci si lascia. In questo caso, l’occasione fu il tour di addio alle scene.

 

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Era il 27 Settembre 2000, al palazzetto di Casalecchio di Reno a Bologna. Era il primo vero concerto che andavo a vedere in macchina da sola. Il biglietto, comprato in un torrido pomeriggio estivo post maturità con la mia migliore amica del liceo, era la materializzazione di un’impetuosa presa di coscienza della nostra nuova condizione di adulti, persone che possono prendere decisioni seguendo le loro passioni per fare esperienze. Quella sera per me fu un’esperienza musicale e di vita: il concerto prima, il fatto di dovermi arrangiare a compilare un modulo di constatazione amichevole per essere rimasta coinvolta in un tamponamento a catena in tangenziale poi.

Di quel concerto porto nel cuore immagini sfocate, ancora non avevo l’abitudine di portarmi una qualche sorta di macchina fotografica con me per aiutarmi a ricordare, ma sul palco The Smashing Pumpkins erano come nelle foto dei booklet degli album: i lunghi abiti neri, la presenza magnetica di Billy Corgan, giovane pelato e schivo, le canzoni che amavo e che speravo di ascoltare, dai singoli mainstream fino ad un paio di oscuri pezzi tratti da Machina II… ma uno su tutti è il ricordo di quella notte, l’ultimo bacio tra due amanti, una memoria così intensa da essere quasi tangibile: un pianoforte a coda sul palco, un fascio di luce che illumina Billy Corgan, Blank Page con i suoi rimpianti, fantasmi, un addio struggente, la speranza di un futuro comunque ancora tutto da scrivere.

Da lì a poco il gruppo si sciolse, ci perdemmo di vista per non trascinare una storia finita, ma non era facile riempire il vuoto lasciato dalla consapevolezza che non ci sarebbero più stati nuovi album e nuovi tour de The Smashing Pumpkins. Certo, nuovi gruppi stavano attirando la mia attenzione e stuzzicando il mio gusto musicale, ma come ogni volta che una storia d’amore si chiude, ci si riduce a guardare indietro ai ricordi, in questo caso ai dischi passati, finché al dispiacere di un futuro che non ci sarà si sostituisce il conforto di quello che c’è stato.

È nei primi anni 2000 quindi che riscopro e creo un legame fortissimo con Siamese Dream facendone la colonna sonora della preparazione all’esame di Analisi I, uno di quei rari album che sono perfetti così come sono, nella loro interezza e allo stesso tempo a livello di singolo brano.

La stessa cosa non mi sento di poter dire invece di quello che per l’opinione pubblica è il loro capolavoro, Mellon Collie and the Infinite Sadness: un’opera magna di due ore di musica ma a cui a distanza di tanti anni e tanti ascolti fatico a trovare un senso, una coerenza stilistica o un percorso concettuale che mi porti dall’intro al pianoforte del primo disco attraverso il picco compositivo di Tonight Tonight alla rabbia di Bullet with Butterfly Wings, dal divertissement di We Only Come Out at Night alle nuances hardcore della già menzionata Tales of a Scorched Earth. Se The Smashing Pumpkins ed io ci fossimo conosciuti nel 1995 invece che nel 1998 e Mellon Collie fosse stato il nostro primo appuntamento, sarebbe stata una di quelle serate in cui parli tanto ma superficialmente di tutto, scattano delle scintille, ci sono baci appassionati, ma poi ci si perde, ci si distrae e qualcosa non porta al secondo appuntamento.

Ad ogni modo, come dicevamo all’inizio, il primo amore non si dimentica mai e nel tempo capita di incontrarsi di nuovo, una visione sfuggente dall’altro lato della strada, un passante con il suo profumo che ti risucchia nel passato. Questi momenti sono stati i tentativi non troppo brillanti di Billy Corgan di riaccendere l’interesse per il suo gruppo con Zeitgeist e Teargarden by Kaleidyscope, passaggi sfuggenti di un’ombra che accarezza la pelle. Mancava qualcosa, mancava qualcuno, mancava il tocco di James Iha, silenzioso quanto incisivo ingranaggio per rendere il meccanismo di nuovo perfetto come una volta.

E poi succede un giorno, il 18 Ottobre 2018 alla vigilia del mio compleanno, che i pianeti si riallineano e il destino riporta me e The Smashing Pumpkins nel luogo in cui ci siamo salutati per l’ultima volta. Sono passati 18 anni, io sono cambiata, loro sono cambiati. Ci ritroviamo per tre ore di concerto in cui mi è passata davanti agli occhi la mia vita da adulta fino ad ora: mi sono rivista diciottenne davanti allo stesso palco, sicura della mia scelta per i cinque anni a venire di studi universitari. Un ricordo flash del 2007, io che esco dal mio primo appartamento in cui ho vissuto da sola, nel cuore di Capitol Hill a Seattle, e vado al negozio di dischi proprio attraversata la strada a comprare una copia di Zeitgeist a scatola chiusa, spaventata e allo stesso emozionata come quando si riceve un messaggio dal tuo ex che non senti da anni, solo per renderti conto che aveva sbagliato numero o che l’edizione speciale dell’album che avevi preso dallo scaffale era, per errore, senza cd. E poi gli anni di ricerca, scientifica, musicale e di vita, attraverso lavori, concerti e persone, accompagnata da nuovi amori, alcuni passeggeri altri più duraturi, fino a convergere di nuovo nello stesso tempo e luogo, a Bologna.

Tre ore catartiche, che sono state un pugno nello stomaco e una carezza, che mi hanno fatto svegliare e capire perché, incrociando lo sguardo limpido degli occhi senza età di Billy Corgan, in questi anni i tanti concerti dei Pearl Jam, gruppo su cui ho trasferito il mio amore più per la loro città di provenienza che per la loro musica, non sono mai riusciti ad emozionarmi fino in fondo come invece riescono The Smashing Pumpkins su un palco: perché il mio cuore non era con loro, perché la mia identità musicale non è rappresentata dai buoni senza macchia e senza paura, ma da un ribelle spavaldo che non ha paura di urlare al mondo, di farsi amare ed odiare in egual misura ed intensità, che oggi sa chi è e si vuole bene per la persona che è diventata, lui a 52 anni, io a quasi 38.

Da quella sera The Smashing Pumpkins ed io abbiamo ricominciato a frequentarci e a vederci più spesso per festival e concerti, come amici ora, che hanno condiviso una profonda passione in gioventù ma che sono cresciuti e che possono guardare al presente, al passato e al futuro con l’affettuosa serenità di chi sa che il primo amore ti accompagnerà sempre.

 

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Testo e Foto di Francesca Garattoni