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Tag: intervista

Tre Domande a: Michael Sorriso

Come stai vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?

Fortunatamente ho passioni trasversali e sfogo la mia verve creativa seguendo da vicino le evoluzioni e il percorso di un brand che ho fondato qualche anno fa, Italia90.
Mi è mancata particolarmente la dimensione live, seppur non avessi dei tour programmati, ma è sempre stata la parte che preferisco e in cui so di potermi esprimere al meglio.
È stato anche difficile e lo è tutt’ora, dover attendere più di un anno per l’uscita delle canzoni registrate precedentemente, ma ho sfruttato l’attesa per iniziare a lavorare a del nuovo materiale. A inizio novembre, per esempio, è uscito il mio nuovo singolo, Pianoforti.

 

Come e quando è nato questo progetto?

Michael Sorriso nasce artisticamente con lo pseudonimo di Lince nel lontano 2005, anno in cui, quindicenne, feci la mia prima battle di freestyle.
Dopo più di un decennio di concerti, diversi mixtape e un disco pubblicato con un’etichetta indipendente torinese, ho deciso di virare sul mio nome di battesimo e di far coincidere il mio primo disco in Major, da professionista, con l’adozione di questa nuova identità, che poi è la successione naturale di quella precedente.

 

Se dovessi riassumere la tua musica in tre parole, quali sceglieresti e perché?

Rap, anarchia, ricercatezza.
Rap perché è quello che faccio, lo strumento che utilizzo per esprimermi e con il quale mi approccio alla stesura dei testi.
Anarchia perché per me la musica è il luogo in cui potersi esprimere liberamente, senza preoccuparsi di pensieri e costumi imposti dalla società. È un posto in cui, chi ci vive, legifera; senza sovrastrutture e burocrazia.
Rap ed anarchia si alimentano a vicenda, nonostante il genere sia nato nella culla del capitalismo e nonostante prevalgano fenomeni che ne alimentano una visione stereotipata.
Ricercatezza perché odio le cose dozzinali e le cose fatte emulandone altre. Ogni canzone è stata composta con musicisti di grande spessore e con un certo gusto, con la speranza, assolutamente controtendenza rispetto alle necessità attuali e di mercato, che possa invecchiare al meglio e resistere ai segni del tempo, sia dal lato musicale che da quello autoriale.

Tre Domande a: Yosh Whale

Se doveste riassumere la vostra musica in tre parole, quali scegliereste e perché?

Spontanea: pensiamo che la nostra musica risulti essere spontanea o almeno speriamo arrivi questa sensazione. Abbiamo lavorato molto nel nostro ultimo singolo Ceneresole per cercare di far succedere la nostra musica, cercare di comporre senza filtri, far si che le nostre canzoni siano espressione diretta di ciò che siamo e viviamo.
Sensibile: la nostra è una musica che prende vita dai sensi; la vista, i suoni, gli odori che ci circondano prendono vita e si trasformano nell’immaginazione dando vita ai testi delle nostre canzoni.
Luminosa: è una musica che vive la luce in varie forme. C’è spesso, altre volte non si vede perché la si cerca ma alla fine da qualche parte viene fuori ed è sempre vita. In Ceneresole tutto questo è abbastanza chiaro.

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

Nulla in particolare. O forse la libertà. Ci piacerebbe che le persone ascoltando la nostra musica non si sentano ingabbiate nel testo ma che siano libere di pensare e immaginare cose diverse da quelle che abbiamo detto noi. Speriamo di donare alle persone la libertà di aggiungere significati nuovi alle nostre visioni, alla nostra musica.

 

C’è un artista in particolare con cui vi piacerebbe collaborare?

Ci piacerebbe molto collaborare con Venerus. È un artista che per i nostri ascolti è stato come un’illuminazione. Da sempre ci siamo ispirati a musica genericamente internazionale come James Blake, Bon Iver, ma ad un tratto Venerus ci ha fatto capire che alcune trame di quella musica si potevano fare e sopratutto bene e in maniera originale anche in Italia, ci ha suggerito delle nuove strade per un obiettivo che inseguivamo da tempo.

Tre Domande a: Sgrò

Come stai vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?

Riorganizzando l’orizzonte di ogni mio desiderio. Non sono padrone del tempo, non posso controllarlo, e programmare ha perso di senso. Quello che cerco ormai di fare, è, appunto, fare, sapendo che ci sono altre mille variabili non direttamente controllabili. Non ne vale la pena rimandare, come ho fatto io per anni.

 

Come e quando è nato questo progetto?

Non so se ci sia o meno una data di nascita, perché Macedonia è un progetto che mi è salito su su dallo stomaco fin dall’adolescenza. Anche se il mio primo singolo (In Differita) è uscito a marzo 2020, pochi giorni prima del lockdown, io sento che quel filo di voce, se lo seguo, mi riporta dritto dritto alla mia prima stanza e alla mia adolescenza.

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Spero arrivi quella cosa che chiamano verità, cioè urgenza. Un’urgenza che non è urlata, ma sussurrata. La voce di questo mio primo disco, Macedonia, è una voce a tratti apatica, stanca, intima e ha il colore delle pareti verniciate l’ultima volta ormai decenni fa. Spero si senta che sono canzoni fatte con lo stomaco, con la testa e con il cuore. Non ho cercato una via d’uscita dal mondo, ma una via d’entrata.

Tre Domande a: Mått Mūn

Come e quando è nato questo progetto?

Il progetto Mått Mūn ha rappresentato per me un nuovo inizio, un nuovo focus musicale. Negli anni precedenti avevo spaziato tra molti generi e stili, sempre con delle band, e ad un certo punto, precisamente nel 2018, ho sentito che era arrivato il momento di trovare una nuova forma, un’incarnazione definitiva e totalmente personale, per poter fare un passo avanti, per venire completamente allo scoperto e poter crescere, mostrando tutto ció che avevo dentro in una dimensione più matura, al massimo della creatività.

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Profonde emozioni, caleidoscopiche sensazioni, idee e curiosità per il variegato mondo che ci circonda e per le meravigliose e sconfinate connessioni tra l’essere umano e il cosmo a cui appartiene.
Mi piacerebbe dare qualcosa di originale, di profondo, portando l’ascoltatore su altri mondi attraverso le melodie e le tematiche espresse, cercando di trasmettergli un po’ del mio animo sognante.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Sceglierei proprio il singolo in uscita in questi giorni, Iridescent, primo estratto dal nuovo album LUX. I motivi sono molteplici…Innanzitutto perchè credo che il brano abbia un perfetto mix e una giusta alchimia per quanto riguarda i generi che più amo e che più ho cercato di approfondire negli ultimi anni: l’elettronica, il rock, il synthpop. Inoltre Iridescent è una canzone energetica, positiva, colorata, luminosa, con un ritornello molto orecchiabile, con un tema di base che ritengo interessante e ricco di sfumature.

Tre Domande a: Aligi

Come e quando è nato questo progetto?

Il progetto di questo nuovo disco è nato circa due anni fa durante il primo lockdown. Ero a Milano e avevo da poco ricavato un piccolo studio di registrazione nel ripostiglio degli attrezzi che avevo sul terrazzo di casa. Quella è diventata la mia tana che poco tempo dopo ho soprannominato “la nave”: intere mattinate e nottate a suonare, a scrivere e a scartare materiale per poi affacciarmi dalla finestra e assistere a quei momenti dilatati e così inaspettati. Ho imparato ad avere fiducia nei primissimi momenti di scrittura, quando è tutto nella tua mente, ma tu già lo vedi e vorresti come per magia essere al punto in cui stai rifinendo le ultime cose. E invece ero soltanto all’inizio e stava tutto a me, così ho iniziato a tirare fuori suoni da un nuovo synth analogico che avevo comprato da poco, collegato a una drum machine e, sempre presente, la mia chitarra. Ricordo poi con precisione un momento successivo, un’intuizione, la visione sonora di come sarebbe stata effettivamente la strada del mio nuovo percorso creativo. Ho cominciato a unire un suono più acustico e dalle influenze indie-rock con l’elettronica, il sapore psichedelico e sognante delle armonizzazioni dei cori e delle slide guitars a un’atmosfera più clubbing, dove linee di synth bass e arpeggiator si incastrano perfettamente con drum kit caldi e potenti. Infine, la voce. La voce quasi come uno strumento, dove più linee vocali si sommano e armonizzano così da creare un impatto deciso e delineato. Volevo poi poter descrivere quelle sensazioni di incertezza e di mistero che si respiravano in quelle giornate di primavera così insolite e a volte tragiche. Direi che quel periodo è stato davvero decisivo per la realizzazione dell’EP che uscirà, sia nei contenuti dei testi che nelle sue sonorità.

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Con la mia musica cerco di portare chi ascolta (e me stesso in primis) verso una dimensione sonora capace di guidare in atmosfere spesso sognanti. Vorrei far ballare, perché anche io amo ballare, e vorrei che le persone potessero sentire quella stessa esigenza che sento io di scavare sempre più in profondità nella vita, di ricercare l’energia che spinge ad andare avanti, a stupirsi, a non demordere, a sfidarsi, a credere in se stessi e credere che ogni essere umano abbia appunto “una luce sua”, una luce interiore. A volte c’è una velata nostalgia nel mio processo creativo, sia per quanto riguarda le musiche che i testi; altre volte c’è un fuoco dirompente di estasi e di voglia di festa e leggerezza, senza fine. Come sempre luce e ombra coesistono, devono esserci, mi piace tantissimo quest’aspetto delle cose che si ripercuote in tutto, in natura così come nell’arte e nella musica. Esporre il lato più sensibile e autentico di quello che vedi e poi saper accoglierne le sue oscurità più improvvise. A questo proposito, cito Il Piccolo Principe perché penso sia un grande esempio artistico e letterario, una grande guida per molti di noi (e a volte, io mi rivedo un po’ in lui).
Dal punto di vista sonoro, mi piace invece pensare e comunicare che la mia musica sia un mix tra le armonizzazioni psichedeliche e taglienti dell’album Revolver dei Beatles e le incessanti e aggressive drum machines dei Chemical Brothers, dove il Cosmo dei giorni nostri è sicuramente un artista da cui prendere esempio per stile e inventiva.

 

C’è un artista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare?

Uno dei miei sogni sarebbe quello di poter conoscere e collaborare con Josh Homme, frontman e leader dei Queens of the Stone Age. Amo il suo sound e le cose che ha creato, anche nelle produzioni che ha fatto separatamente con altri artisti, c’è qualcosa di mistico e spirituale nella sua musica che sento molto vicino e mi incanta sempre. Mi piacerebbe poter andare insieme nello studio che ha nel Joshua Tree che si chiama Rancho de la Luna e registrare qualcosa, magari un nuovo EP o delle Desert Sessions. Spesso fantastico su quanto potrebbe essere stimolante e interessante lavorare al suo fianco, unendo il suo stile ipnotizzante e dal sapore californiano alle mie visioni più elettroniche e “danzerecce”(cantate, perché no, anche in italiano).

 

Tre Domande a: Davide Sammarchi

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Nel momento in cui decido di pubblicare un mio brano mi piace, che chi lo ascolta lo faccia nel modo più personale possibile, perciò tendenzialmente lascio una grande libertà all’ascoltatore di associare qualsiasi cosa alla mia musica, di viaggiare con la mente, andare lontano, dove più preferisce. Questo, per me, dà un senso profondo a ciò che faccio. Quel momento in cui una musica che ho composto raggiunge la sensibilità di chi ascolta e gli viene attribuita un’emozione, qualsiasi essa sia, lì trova la sua ‘conclusione’.

 

Progetti futuri?

Fare musica, naturalmente. Non potrei fare altro, sto già lavorando a dei nuovi brani.
Continuare a lavorare sul suono del pianoforte per renderlo sempre più personale e riconoscibile, come fosse un’estensione della propria voce.
Sto anche pensando a delle visuals da portare nei live, per creare uno spettacolo ancora più coinvolgente per lo spettatore.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Probabilmente sceglierei Ad occhi chiusi che è il brano che ho scelto come prima traccia, in apertura del disco ‘And in silence I found my voice’. È caratterizzato da una melo- dia particolarmente spontanea, che mi è uscita di getto e non ha avuto bisogno di parti- colari revisioni o scritture successive…è il mio ‘attestato’di sincerità, che rappresenta una componente fondamentale del perché faccio musica.
Semplicemente non potrei farne a meno. 

 

Lorenzo Kruger, “Singolarità” come manifesto artistico

Prodotto da Taketo Gohara e preceduto dai singoli Con me Low-Fi e Il Calabrone, il disco dell’esordio solista di Lorenzo Kruger – ex frontman dei Nobraino – racchiude un itinerario di cambiamento e ricerca, tra live e sperimentazioni sul suono, durato quattro anni. In Singolarità emerge la spiccata identità del cantautore romagnolo, raffinato nel tracciare una propria linea stilistica, pur non rinunciando alla spiccata ironia. Emozione e coinvolgimento, lo stesso messo in campo per la realizzazione della cover, attraverso la campagna Spazi Miei. È stata indirizzata ai fan la call to action per l’acquisto di una porzione dell’artwork, diventato un collage di foto di appassionati di musica ed una “missione” solidale: il ricavato dell’intera operazione è stato donato alla scuola di teatro Casa di gesso di Cesena, che ha potuto così erogare nove borse di studio destinate ai bambini dell’associazione. Su questa scia, abbiamo chiesto a Lorenzo un po’ di “spazio” per scoprire ed approfondire temi e visioni riguardo il nuovo lavoro in studio. E non solo.  

 

Ciao Lorenzo e benvenuto su VEZ Magazine! Per questa intervista volevamo utilizzare – ampliandolo con qualche curiosità in più – il format collaudato delle “Tre Domande a…”. In questo caso volevamo approfondire il concetto di Singolarità, titolo del tuo nuovo album, pubblicato il 10 settembre. Quanto c’è di singolarità intesa come inedito percorso solista?

“Beh, involontariamente parecchio. Il brano che dà il titolo al disco doveva chiamarsi in un altro modo (Stereotipazione dell’amore). Ed il disco doveva chiamarsi in un altro modo anche quando il brano si chiamava Singolarità (il disco doveva chiamarsi Spazi Miei, come conseguenza della campagna). Poi alla fine la parola singolarità si è presa sempre più spazio, è cresciuta: da dettaglio in un ritornello è diventata il simbolo di questo disco. Credo che, inconsciamente, il mio percorso solitario di questi anni ed il passo solista che mi accingo a fare stavano cercando una definizione e l’hanno trovata in questa parola.”

 

Quanto c’è di singolarità come sostantivo che indica la particolarità, la stravaganza e l’unicità?

“Stranamente poco anche se l’aggettivo singolare per indicare qualcosa di particolare mi è sempre piaciuto tanto. Benché abbia sempre giocato con la mia originalità ed eccentricità non è il primo significato che mi viene in mente quando penso a quella parola.”

 

E come singolarità di brani, c’è una canzone a cui sei particolarmente legato?

Copernico è l’unico brano del disco che suonavo regolarmente in tutti i miei concerti negli anni precedenti a questa uscita, è stato con me in questo percorso di solitudine fin da subito.”

 

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Chi ti ha seguito nel corso del tour della scorsa estate ha ascoltato alcuni brani non contenuti nella tracklist. Hai detto di avere tantissimo materiale. A che cosa è ispirata la scelta delle canzoni ufficiali?

“Con il produttore abbiamo cercato un insieme di brani che avessero una tensione simile, una vocazione classica. Quelli scartati sono generalmente più pop o più ironici o in qualche modo meno raffinati. Volevamo fare un disco che fosse il più possibile monotonale ed elegante. In altri contesti capirò se e quando usare le tracce che mi sono rimaste.”

 

A proposito di live, essendo quello dei concerti e della relativa capienza delle location uno dei temi oggi più dibattuti, che cosa immagini possa avvenire in Italia? E che cosa auspichi?

“Credo di essere preoccupantemente ottimista e che il tempo riporti sempre le cose al suo posto. Probabilmente questo posto subirà degli aggiornamenti e spero si adatti in positivo alle future esigenze. Nello specifico spero che si riattivino con più vigore i circuiti dei concerti più piccoli che prima della pandemia erano un po’ agonizzanti; è un peccato perché quei circuiti sono preziosi per la salute della musica e dello spettacolo in genere. Gli eventi a piccole capienze hanno dimostrato di essere i più sostenibili durante questa emergenza e speriamo che quando tutto tornerà alla normalità non ci si dimentichi di loro.”

 

Laura Faccenda

Foto di copertina: Luca Ortolani
Foto nel testo: Isabella Monti

Tre Domande a: 99paranoie

Come e quando è nato questo progetto?

Amnistia è nato a fine 2019, poco prima della pandemia, e l’ho chiuso a Maggio 2020. È una raccolta di brani che descrive il periodo antecendete: avevo lasciato l’università, chiuso My Name is Rose (il mio primo EP), avevo cominciato a lavorare e nel frattempo ero uscito da due relazioni.
È stato un periodo per me di profondo cambiamento. Questo cambiamento si sente sia confrontando Amnistia con My Name is Rose, ma ancor di più confrontando gli stessi brani di Amnistia. Il progetto spazia da brani RandB , a brani old-school, al soul acido e distorto più moderno. Ero ancora alla ricerca della mia identità. 

 

Come ti immagini il tuo primo concerto live post-pandemia?

Grazie a Dio non lo devo immaginare. Dopo la pandemia sono riuscito a suonare parecchio per gli standard a cui ero abituato. Sono riuscito a suonare all’Edonè di Bergamo, al Dumbo, al Covo di Bologna, al Bitter di Asola. È stato splendido, mi sono divertito un sacco e ho imparato tanto, ho vinto qualche insicurezza, ho suonato e conosciuto parecchie persone. Ma soprattutto ho imparato ad amare il palco. L’ultima data al Bitter in particolare, nella mia zona, mi ha veramente acceso e spronato a fare di meglio. Quando giochi in casa la barriera artista/pubblico non esiste, la gente non è li solo a vederti. La gente è li con te. Sono due cose molto diverse.

 

Quanto punti sui social per far conoscere il tuo lavoro?

Ora punto tanto. Attualmente sono in una fase di creazione del materiale per social, ovviamente legato a progetti futuri. Oggi come oggi sono la base di partenza, soprattutto per chi è nella mia stessa situazione. Per chi parte da zero sono imprescindibili. È importante però capire che contenuto portare e come connetterlo alla propria musica, perché troppo spesso si cade nel tentare di cavalcare l’onda. Non ha senso però cavalcare l’onda se non è la nostra. I social devono diventare un’estensione della nostra musica, e della nostra figura; sono risorse, e vanno sfruttate, in maniera consona all’artista.

Tre Domande a: Kaufman

Come state vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?

In questi tempi è complicato fare musica e lo sappiamo. La cosa peggiore è probabilmente l’incertezza e il senso di precarietà che impedisce di ragionare su progetti con un orizzonte temporale più ampio: dischi, uscite, programmazione live. Però, forse proprio da questo nasce l’idea di Parkour, un doppio a qualche tempo di distanza uno dall’altro. Una visione di insieme che questa precarietà la raccontasse davvero, fatta di collaborazioni, coscritture, lavori insieme a diversi produttori, ma anche, nei testi, di racconti di rapporti messi a dura prova, sentimenti vissuti al doppio della velocità oppure con estrema lentezza.

 

Se doveste riassumere la vostra musica in tre parole, quali scegliereste e perché?

Pioggia, cuore e amore? Per parafrasare una vecchia canzone. Probabilmente potremmo dire che facciamo un pop malinconico, orecchiabile ed emotivo. Però autodefinirsi lo trovo sempre un po’ presuntuoso, in fondo le ragioni di chi scrive sono spesso molto diverse dalle ragioni di chi ascolta. Ed è molto bello che sia così, tra l’altro. Però “pioggia, cuore e amore” mi piace molto in realtà.

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

Vorremmo fare arrivare delle immagini, a prescindere dal soggetto, che ovviamente varia da canzone a canzone. Delle polaroid, delle fotografie che riescano a fissare nel tempo un momento emotivo. La poesia c’è già in ogni angolo delle nostre vite, basta catturarla quando la si scorge. Un po’ come fare un quadro impressionista, prestando più attenzione alla scena e meno al dettaglio.

Tre Domande a: Lamo

Come e quando è nato questo progetto? 

I brani per come sono oggi ho iniziato a scriverli nel settembre del 2019, anche se già da anni mi esercitavo nella scrittura, alla ricerca del mio modo espressivo. Dopo un’infanzia a nutrirmi voracemente dei dischi che c’erano in casa (Beatles, Dalla, Battiato e tanti altri) crescendo ho sentito il forte richiamo alla scrittura, quasi un’esigenza viscerale, che però all’inizio si manifestava in maniera disordinata e scomposta, con molta autocritica e anche un po’ di vergogna. L’esperienza da musicista per altri artisti che amo, mi ha formata e mi ha aiutata a mettere insieme le parti di me che andavo cercando. Raffaele “Rabbo” Scogna è stata una figura fondamentale per riordinare e mettere a fuoco le idee, grazie al suo talento di polistrumentista e alla sua sensibilità umana e Federico Carillo una guida importantissima per portarle a termine, grazie al suo gusto e alla sua curiosità. 

 

Ci sono degli artisti in particolare a cui ti ispiri per i tuoi pezzi? 

Più che “ispirarci” a degli artisti, per me ascoltare musica che mi gasa è un vero e proprio motore di adrenalina, che alimenta il desiderio di creare. Quando ascolto musica, ciò che mi soddisfa e mi da gioia è sentire un’autenticità che si manifesta. Dei progetti contemporanei amo la spontaneità dei ComaCose, la visceralità e l’umiltà di Blanco, l’umanità è la profondità di Brunori sas, la poeticità di Lucio Corsi, la classe di Ditonellapiaga, la delicatezza di Tricarico. Dall’estero in questi ultimi due anni sono stata folgorata dallo stile e il sound di Noga Erez, l’originalità di Rosalía. Poi ci sono mille altri artisti che adoro, dai più classici e storici ai più sperimentali e psichedelici ma sarebbe impossibile elencarli tutti. 

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta? 

Il punto di arrivo per me è appunto essere in grado di esprimere me stessa senza fronzoli, far arrivare la mia autenticità che possa piacere o meno, ma che sia qualcosa che mi appartenga davvero. Mi rendo conto che è un percorso di ricerca continua, ma vedo che man mano continuo a scrivere, man mano si aggiunge un tassello, quindi spero che il mio primo disco che uscirà nel 2022 per Sound to be, possa essere un quadro ben rappresentativo del mio modo di osservare il mondo. In una società che tende ad omologarci, credo che l’atto più rivoluzionario sia riuscire ad esprimere tutti le nostre diverse sensibilità per arricchirci a vicenda.

Tre Domande a: Boccanegra

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Gli argomenti che affronto nelle mie canzoni dipendono dal periodo e dallo stato d’animo associato ad esso. Non mi è mai successo da quando ho iniziato a scrivere di pensare: “Ah, come vorrei che un potenziale ascoltatore o ascoltatrice provi questo mentre ascolta questa parte del pezzo!”. Le canzoni, così come le poesie e le opere d’arte visive, sono spesso frutto di un tentativo non ragionato di cogliere un qualcosa di inatteso e temporaneo che ci passa davanti agli occhi: nel mio caso in particolare, quello che faccio è semplicemente cercare di riportare in maniera fedele sulla carta, sulla chitarra o su Ableton la mia visione di quel particolare momento, che essa sia densa di sentimento o si tratti di una semplice descrizione. Certo, la fantasia va allenata e può capitare che una creazione richieda del ragionamento per arrivare a maturità (in fase di produzione in studio per esempio); ma senza un margine di libertà e irrazionalità iniziale è difficile che un’idea originale prenda forma.
C’è poi un altro punto che è sempre importante ricordare, cioè che la musica si fa sempre in due, autore e ascoltatore. Ascoltando il testo di una canzone cerchiamo spesso di forzare sentimenti o pensieri al suo interno, è una maniera per sentirci compresi. Non è da escludere però che magari l’autore in testa aveva un’idea completamente diversa! Quando ero pischello e scrivevo per il gruppo (i Boccanegra) avevo il mito del brit-rock e i testi, per come li avevo io nella mia testa di adolescente, mi facevano sentire il più cool dei bad boys di Sheffield che faceva pogare tutto alle feste del liceo: se oggi risento Zucchero Candito e i vecchi pezzi, invece, ritrovo aspetti sensibili che al tempo non ero in grado di cogliere perché pensavo che altre cose saltassero di più all’orecchio.
Tuttavia, se volete, un elemento accomuna tutto quello che ho prodotto finora: il tentativo di parlare direttamente all’ascoltatore e di fare in modo che la mia musica sia per lui o per lei un amica fedele capace di mostrare una verità liberatoria e ordinata.

 

C’è un artista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare?

Durante il lockdown sono diventato un grande seguace di Tutti Fenomeni. Ha delle super trovate dal punto di vista lirico e contenutistico: in un panorama di sonorità synth già logore dopo pochi anni di musica indie e di testi copincollati sulla depressione della vita post universitaria, ho trovato i suoi pezzi una boccata di aria fresca. L’ambiente musicale di provenienza è completamente diverso dal mio, ma lo sento molto vicino per una serie di cose: dalla critica diretta priva di retorica ad alcuni aspetti della contemporaneità alla capacità di dipingere in poche parole situazioni ed atmosfere. Entrambi concordiamo sul fatto che “mediocri governano la nostra estetica”: Giorgio reagisce con un flusso di coscienza fatto di battute limpide e dritte nei denti, io ci provo con la narrazione e con la trama. Per questi motivi mi ci sono avvicinato: molti sostengono che ci assomigliamo pure, chi lo sa magari è mio fratello.

 

Quanto punti sui social per far conoscere il tuo lavoro?

Non particolarmente, anche se mi diverte molto. In verità, postare e fare storie sui social è anche un bel passatempo, me ne sono reso conto standoci in maniera più strutturata in corrispondenza dell’uscita del Gorilla. Tuttavia, aderisco più alla “vecchia scuola” per cui un artista forma se stesso e il pubblico principalmente in live. È sul palco, al parco, alle feste e nei contesti sociali in cui si creano le connessioni e si cresce con la propria musica. Il social è una bella vetrina per fomentare l’hype, ricordare chi sei a chi ti ha visto dal vivo e per mostrare a tutti la propria attività: richiede tanto tempo oltre che una certa inclinazione caratteriale perché ci possa essere piena integrazione tra avatar sulla rete e vita reale. Ormai è qualcosa da cui non si può prescindere, per cui è diventata una necessità, a meno di scelte radicali (comprensibili), trovare una posizione non invasiva dei social nel nostro quotidiano. 

 

Tre Domande a: MileSound Bass

Come e quando è nato questo progetto?

Il progetto MileSound Bass è nato timidamente nel 2004 quando con gli amici ci siamo appassionati spasmodicamente al mondo dell’hip hop. In quegli anni i concerti erano nei centri sociali o simili, li frequentavamo praticamente sempre. Poco dopo abbiamo cominciato a produrre beat e a scrivere rime.
Col passare degli anni mi sono avvicinato alla drum and bass che mi ha anche travolto quando sono stato un paio di mesi a Londra nel 2009. Era letteralmente ovunque.
Ho cominciato a produrla e con il mio socio SoulSwitch On e per qualche anno abbiamo cominciato a fare dei live mischiando la dnb con il rap e in seguito unendo anche la dubstep. Il nostro nome era UFO prjct.
Nello stesso periodo suonavamo anche con Charly e Gome Zeta (Gomez) mischiando diverse sonorità, elettroniche e rap, chiamandoci Fahrenheit 451 crew. Portavamo dei libri da regalare, anziché da bruciare.
Ho sempre fatto tutto da autodidatta ma nel 2011, approfittando della pausa forzata tra la laurea triennale e l’attesa per l’inizio dei corsi per la laurea magistrale, ho frequentato per qualche mese un corso sulla produzione della musica elettronica in SAE Milano. Pian piano ho fatto uscire un primo disco che racchiudeva elettronica, drum and bass, dubstep e rap. In quel periodo ero matto per questa musica e Milano suonavano dnb spessissimo.
L’anno dopo, nel 2012, è seguito Gates To The Unknown EP, principalmente dubstep unita all’IDM e glitch avevo nel frattempo cominciato ad ascoltare massicciamente. Da questo momento ogni mia produzione futura è stata caratterizzata da questo mondo. È stato amore a primo ascolto.
L’anno successivo ho pubblicato un disco ancora legato alla drum and bass e per l’ultima volta dubstep ma – appunto – totalmente in chiave IDM/glitch: ALL BORN MAD, some remain so. Ho suonato il disco in giro per l’Italia ma purtroppo dopo un live a Genova mi sono stati rubati tutti gli strumenti e hardisk con molte tracce inedite. Per qualche anno non ho più potuto suonare in giro.
Ho colto la forzatissima situazione per finire gli studi della laurea magistrale in psicologia che, nel frattempo, si erano rallentati parecchio. Ho cominciato a lavorare e pian piano anche e a comprare svariati synth e drum machine che ancora oggi popolano il mio studio. Ho cominciato ad abbandonare la produzione al computer per usare solo synth e drum machine. Attualmente uso il computer solo per editare ciò che registro dagli strumenti esterni.
Negli anni di pausa (2013-2016) ho pubblicato 3 EP con il nome Post Mortem ATTO I/II/III che racchiudevano alcune tracce salvate dal furto. I primi due erano jungle anni ’90, il terzo era prettamente IDM/glitch, non in 4/4.
Ho provato a continuare a far uscire almeno una pubblicazione – che sia almeno un singolo o un EP – all’anno ma non è stato facile dopo il 2016 quando ho cominciato a lavorare costantemente nel mondo della scuola, prima come educatore, poi come insegnante. Ruolo che ricopro tutt’ora e che mi permette anche di sperimentare la musica con gli allievi.
Negli ultimi anni, ma prima del Covid, ho suonato tantissimo e ho prodotto molte tracce per i live. Durante questi due anni di quarantena ho colto l’occasione per concludere un album cominciato poco prima del furto degli strumenti e mai pubblicato. Everything’s Normal è un lavoro durato 10 anni. Da un parte ho dovuto ricreare tutto quello che era stato perso, dall’altra ho voluto ricreare ogni suono utilizzando i sintetizzatori e drum machine e infine ho potuto approfondire il tema dei sogni, dei sogni lucidi, i falsi risvegli e le paralisi notturne che sono alla base del disco.

 

Ci sono degli artisti in particolare a cui ti ispiri per i tuoi pezzi?

Ascolto tanta musica diversa e tanti generi diversi ma ho alcuni artisti che non possono assolutamente mancare in cuffia. Gli artisti evergreen delle mie cuffie hanno alcune caratteristiche: mi fanno emozionare, hanno un suono specifico che mi ispira, appartengono più o meno agli anni ’90/inizio 2000.
L’elenco non sarà per forza di cose completo ma cerca di essere il più esaustivo possibile. I Telefon Tel Aviv, quando erano ancora un duo, per tutte quelle melodie e chitarre che si uniscono alla perfezione sulle drums glitchate. I Boards of Canada per tutte quelle chitarre e quei tappeti ambientali giostrati magicamente su ritmi downtempo. Aphex Twin per il suo saper mischiare sapientemente tante sonorità, oltre alla pazzia. Gli Autechre per il glitch estremo. Amon Tobin  e DJShadow per il campionamento, sopratutto nei primi dischi. Burial per i ritmi e per la presa male intrinseca. U-ziq e Squarepusher per i ritmi spezzati. Carbon Based Lifeforms per i tappeti infiniti. Gli Stunned Guys e la prima scena italiana per l’arroganza del kick saturato. I Massive Attack e i Portishead per l’ovvio collegamento con il mio primo amore, l’hip hop. La prima house, ma non quella commerciale, per i pianoforti e i campionamenti funk/soul. La dance prevalentemente italiana per quel cassa-basso alternato super ignorante. La jungle spezzatissima dei primi periodi per il ritmo delirante. Ma non solo.

 

Progetti futuri?

Ho diversi progetti sottomano. Negli ultimi anni, ma prima del Covid, ho suonato molto in giro per l’Italia. Per non ripetermi troppo durante i live ho prodotto decine di tracce di svariati sound. Non sono interessato a fare una compilation senza senso delle mie tracce migliori. Voglio ovviamente  raccogliere le migliori – all’interno di EP o dischi – ma che allo stesso tempo abbiamo un forte filo conduttore tra di loro, proprop come le 7 tracce di questo disco appena uscito e che parla dei sogni.
Il tempo nella giornata non è infinito e non è sicuro che potrò portare a termine ogni progetto per fare uscire almeno un EP o un disco di ogni mondo sonoro affrontato ma sicuramente continuerò a portare questi suoni durante i live.
Nel concreto ho un progetto di musica elettronica d’ascolto, proprio come questo disco.
Un altro progetto è più sul versante techno. Da quella più lenta a 100bpm passando da quella più classica a 120bpm e arrivando a quella più spinta da 140bpm in su, a tratti gabber, ma sempre downtempo.
Infine ho un progetto di strumentali rap con campionamenti dagli anni ’70. Questi sono i progetti più sostanziosi con diverse tracce (semi) complete.
Ho altri progetti ma meno ricchi di materiale già esistente. Uno è ambient e uno è jungle.