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Tag: intervista

Tre Domande a: Riccardo Morandini

Cosa vorresti fare arrivare a chi ti ascolta?

A prescindere dal contenuto, spero che qualcuno possa riconoscersi nelle tematiche che tratto. Penso che potersi rispecchiare in un brano musicale (o in una qualsiasi opera d’arte, se vogliamo utilizzare questo termine) accresca le gioie e lenisca i dolori legati al sentimento o al pensiero che viene descritto. Si esce dall’isolamento e ci si sente più vicini all’altro. Già ottenere questo è un immenso privilegio. A livello di contenuto posso riassumerti i temi dei tre brani contenuti in questo EP (Eden, NdR): ossessione per la fuga all’estero, eterno ciclo di produzione/consumo in rapporto alla pandemia, maturità, disillusione e atomizzazione familiare. Direi che le tematiche dipendono molto dalle mie riflessioni del momento e spero che per chi ascolta possano costituire un punto di vista interessante.

 

Come è quando è nato questo progetto?

Ho iniziato a scrivere brani cantautorali poco più di un anno fa. Come chitarrista ho una lunga esperienza e finora mi ero concentrato prettamente sull’aspetto strumentale della musica, coltivando l’interesse per la lettura e la scrittura in parallelo.
Con questo progetto mi è sembrato di integrare le mie due inclinazioni, facendo si che si sostengano e si completino a vicenda.

 

Se dovessi riassumere la tua musica in tre parole, quali sceglieresti e perché?

Dialettica: sia nei testi che nelle musiche c’è un dialogo continuo tra il “basso” e l’”alto”, tra parole di registro più elevato e più popolare, tra materiali musicali “colti” e pop.

Mistica: i testi pur partendo da fatti contingenti aspirano sempre all’universale e un tema che ricorre spesso è il peso dell’individualità. Il senso del misticismo è cercare di spezzare le catene dell’individualità nella continua ricerca dell’assoluto, che lo si chiami Dio, Uno o Nirvana. Forse vi si nasconde anche una sorta di aspirazione alla morte, al nulla.

Barocca: dal punto di vista musicale mi piacciono le melodie, le armonie e gli arrangiamenti ricchi e d’effetto. Per quanto lo apprezzi in altri contesti, non sento mio il minimalismo.

Tre Domande a: Le Zampe di Zoe

Come state vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?
La Pandemia ha tagliato le gambe a tutto il settore. Avremmo avuto veramente tanti concerti da Marzo scorso in avanti che sono saltati. Soprattutto uno, che sarebbe dovuto essere l’8 di Marzo 2020, ovvero il primo giorno di Lockdown. Avremmo dovuto suonare al Covo in apertura a La Municipal, che stimiamo e seguiamo sempre. Speriamo un giorno di poterla recuperare!
Non  ci siamo comunque persi d’animo e abbiamo impiegato il tempo in maniera alternativa: ci siamo messi a scrivere e, se non dovessimo selezionare, facendo bene i conti, oggi saremmo pronti per pubblicare altri 5 album! Scherzi a parte, abbiamo diversificato, quindi non abbiamo sprecato tempo. è un momento di pausa e come tale va trattato. Speriamo di poter tornare su un palco presto insieme ai nostri fidi destrieri Jay e Martino, ma, per ora, ci facciamo bastare il poco che i DPCM ci lasciano fare.

 

Come e quando è nato questo progetto?

Le Zampe di Zoe sono nate nel 2017 da due progetti solisti. Eravamo due ragazzi senza esperienza che si incontravano in una stanzina fiocamente illuminata e stavano ore e ore a suonare, registrare, cantare e ascoltare senza mai arrivare a un risultato. Ci siamo così decisi a farci aiutare. Siamo capitati al Turone Studio di Andrea Turone, che ci ha presi, ci ha spiegato tutti i passaggi da compiere, accompagnandoci fino al compimento della nostra demo Cinema Lumière, uscita il 3 Maggio 2019. Grazie a Cinema, siamo riusciti a farci ascoltare in più di 80 occasioni in due anni, esibendoci davanti ad un pubblico sempre diverso: dal bar di provincia allo Stupinigi Sonic Park. Ci siamo fatti un po’ di gavetta insomma: tanto busking e tanto studio. Casa è sicuramente un’opera più completa e matura, scritta da persone che sapevano quel che stavano facendo. L’unione delle forze con Trasporti Eccezionali, Antonello D’Urso, Franco Pezzoli, Daniela Galli, Cristiano Santini e tutti colo che hanno partecipato alla creazione dell’album è stata essenziale per il risultato stesso. Confidiamo molto nel nostro percorso e nell’esperienza che abbiamo accumulato. Oramai ci sentiamo pronti e speriamo che questo debutto venga considerato degno di essere ascoltato.

 

C’è un artista in particolare con cui vi piacerebbe collaborare?

In effetti si! Da tanto, troppo tempo stiamo seguendo la carriera e la poesia di Dario Brunori. Ne siamo affascinati per la semplicità, la chiarezza e la verità che riesce a trasmettere. Sarebbe un vero sogno poter scrivere una canzone a sei mani insieme a lui. Abbiamo avuto l’occasione di conoscere Matteo Zanobini, ma non c’è stata occasione di proporre niente, soprattutto perché siamo ancora ad una fase embrionale del progetto, perciò non troppo appetibili per un progetto come Brunori, però, chissà, un domani magari..

Tim Hart: essere felici con quello che si ha

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In occasione dell’imminente uscita del suo nuovo album Winning Hand (Nettwerk Records), abbiamo fatto due chiacchiere con Tim Hart riguardo a questo suo lavoro intimo e riflessivo registrato con Simon Berkelman nei Golden Retriever Studios a Sidney. 

 

Com’è nato Winning Hand e cosa significa questo titolo?

“Per me Winning hand rappresenta il concetto dell’essere felici con quello che si ha e non guardando sempre con invidia le persone attorno. Questo concetto per me è molto liberatorio.”

 

C’è un fil rouge in Winning Hand?

“L’album è quasi un diario che ho scritto durante un paio d’anni in giro in tournée. In certi passaggi parla di quello che mi passava per la testa e in altri momenti di quello che succedeva intorno a me. C’è un sacco d’amore e famiglia e perdita. Si può dire che Winning Hand racconta la scoperta di un senso di consapevolezza di sé.”

 

Nel tuo terzo singolo Steady as She Goes, parli di cos’è per te “casa”. Cosa vuol dire in questo periodo così difficile? Credi che il significato di “casa” sia cambiato?

“Quando ho scritto questa canzone non mi riferivo tanto a un posto quanto a un sentimento. Un senso di appartenenza. So che suona strano visto che cito Sydney ma si tratta più di come mi fa sentire lo stare insieme agli amici e alla famiglia. E in quel senso il significato (di casa, NdR) non è molto cambiato. Puoi sentirti a casa anche durante il periodo orribile che stiamo vivendo, credo.” 

 

Questa è la prima volta che registri un tuo album con una band. Puoi dirci qualcosa in più circa questa decisione?

“Registrare con una band al completo è stato un modo per me per mollare la presa. Negli album precedenti ho suonato la maggior parte degli strumenti. Questa volta volevo solamente concentrarmi sulle canzoni e lasciare altri grandi musicisti concentrarsi sulle loro cose!”

 

Com’è nata la collaborazione con Bianca Braithwaite e con i suoi lavori?

“Bianca è un’artista molto talentuosa su più fronti. Sono stato attratto dall’onestà e dai dettagli di ciò che fa. È stata fantastica nel trasformare in opere d’arte quello che era nella mia testa. È davvero molto talentuosa!”

 

Su Spotify hai creato un mixtape che aggiorni ogni mese. Come scegli le canzoni? 

“Amo creare queste playlist e la semplice risposta è che amo ascoltare molta musica. L’anno scorso, quando è iniziato il lockdown, mi sono reso conto di essere stato così immerso nel mondo della musica che avevo smesso di amare il semplice piacere di ascoltare musica. Ecco perché faccio queste playlist, per condividerle con altre persone e scoprire nuova musica.”

 

Cecilia Guerra

Tre Domande a: Lou Mornero

Come e quando è nato questo progetto?

“Se devo pensare a un inizio bisogna tornare indietro negli anni, molto prima che Lou Mornero avesse un nome e una forma.
2006/2007, ero in Sicilia per una vacanza in camper con amici cari e tra questi Andrea, il mio partner musicale, fece apprezzamenti alla mia voce mentre cantavamo su una canzone per farci passare il tragitto, e aggiunse che avrei dovuto mettere in piedi un progetto dove cantassi. In quel periodo iniziava l’avventura dei Male di Grace nei quali suonavo chitarra e basso. Non avevo mai considerato l’idea, mi reputavo uomo da band ma in quel momento esatto la cosa mi stuzzicò parecchio.
Passò qualche anno e nel frattempo i Male di Grace diedero alla luce l’album Tutto è come sembra, entrai poi come bassista ne I Paradisi con cui producemmo l’album Dove andrai e ad un certo punto il pensiero di un progetto solista riaffiorò dal nulla.
Tornai quindi a riabbracciare la chitarra acustica, snobbata per anni a favore dell’elettrica, e da lì partì tutto; iniziai a comporre atmosfere più lievi del solito e mi ci ritrovai con molto agio.
Con naturalezza è poi giunta l’esigenza di dare forma a quella nuova veste e proposi ad Andrea, compagno di banda ne I Paradisi, di collaborare per arrangiare e produrre questa mia idea musicale ed eccoci qui: è nato un EP, uscito qualche anno fa, e oggi GRILLI.”

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

“Rallentamento, tregua, viaggio!
Mi piace pensare che chi ascolta GRILLI possa godere di una mezz’ora sospesa dalla frenesia che è la vita e non alludo solo alla parte tangibile ma soprattutto alla zona invisibile, quella fatta di pensieri e angosce, quella dei mondi interni, spesso i più subdoli e complicati da gestire.
Sarebbe un gran piacere sapere che questa musica favorisse simili sospensioni poiché penso che si presti particolarmente in quanto ad atmosfere sognanti e leggere, senza considerare che nasce da una personale esigenza di rincorrere quel tipo di oblio.
E aggiungerei che il lavoro di passione e genio che Andrea ha aggiunto alle canzoni, parlo di suoni che fluttuano e arrangiamenti che avvolgono, si sposa perfettamente con la filosofia dell’abbandono e del distanziamento, non sociale, ma da se stessi.
Sospensione quindi ma non solo; anche immersione nelle suggestioni della musica, nei suoi colori e nelle sue virtù.
Dai i testi è invece arduo aspettarsi qualcosa poiché è un campo di assoluta soggettività dal momento che scrivo di quello che vivo e di come lo vivo e non è detto che ciò corrisponda al comune sentire, ma se qualcuno si ritrovasse nelle mie parole allora significherebbe che c’è qualche essere simile a me là in giro e questo m’incuriosirebbe.”

 

Progetti futuri?

“Non mancano mai! Fanno parte del mio inconscio ottimismo. Tra questi sicuramente comporre altra musica che mi aggradi al punto da volerla condividere in un futuro.
Direzioni nuove e nuovi suoni piuttosto che qualcosa di più essenziale, nuove collaborazioni.
La parte godereccia del comporre è che potenzialmente non ci sono limiti alla creatività, gira tutto intorno al mood del momento, al coraggio, alla curiosità e in questa prospettiva progettare il futuro è assolutamente eccitante. Trattandosi più di idee che di progetti sono ancora in fase nebulosa e accennata ma ci sono e già per questo sono galvanizzanti, solo che al momento non riuscirei a dirne oltre.
Come si dice: stay tuned.”

Tre Domande a: Wabeesabee

Come state vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?

Saverio: “Come molti credo, abbiamo indubbiamente tanta voglia di suonare, ma sfruttiamo questo momento per continuare a scrivere e riflettere.”
Andrea: “Il virus purtroppo ha infettato anche il mondo della musica, soprattutto a livello di industria e ha avuto ripercussioni in modo particolare su quegli artisti che avevano visto il 2020 come un anno di svolta. Ovviamente un po’ di preoccupazione c’è, ma siamo fiduciosi per il prossimo anno. Avevamo bisogno di far partire il progetto e per ora siamo davvero soddisfatti di come sta andando. L’unica cosa che ci manca è l’aspetto live; è triste il fatto di non avere la possibilità di potersi esprimere dal vivo e di poter interagire con un pubblico.”

 

Ci sono degli artisti in particolare a cui vi ispirate per i vostri pezzi?

Saverio: “Ad oggi Jeff Buckley, Jordan Rakei, Tom Misch, Hiatus Kayiote, Nick Hakim e D’Angelo su tutti, mentre nel percorso che ci ha portato a questo disco ho saputo amare Joni Mitchell, Patrick Watson, Lucio Dalla, Niccolo Fabi e Igor Lorenzetti (alias di Dead Poets Society). Ultimamente Kendrick Lamar, August Greene, Anderson .Paak ed Eriykah Badu sono a ruota nelle cuffie.”

Andrea: “Nel nostro sound si possono trovare artisti che piacciono molto ad entrambi come ad esempio Jordan Rakei, Tom Misch, Hiatus Kayiote, D’Angelo, Anderson .Paak.”

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

Saverio: “La possibilità di andare altrove con la mente.”
Andrea: “Personalmente vorrei far arrivare ciò che provo io mentre ascolto la musica che mi piace, quindi: generare coinvolgimento durante l’ascolto, far entrare in sintonia l’ascoltatore con l’autore, far capire che i pezzi sono stati scritti con il cuore e non a tavolino, e suscitare interesse per la produzione musicale.”

“Vaffanculo”: una conversazione a cuore aperto con Giorgio Canali

In questo anno funesto, arido o quasi di occasioni conviviali e soprattutto privo di concerti, appena si è presentata l’occasione di incontrare Giorgio Canali non me la sono certo fatta sfuggire.
Non sono giornalista e quella che seguirà, più che un’intervista, sarà un’amichevole chiacchierata con Giorgio, che seguo con piacere fin dai suoi primi album.
L’occasione è l’uscita di Venti, il nuovo disco del ex C.S.I., C.C.C.P., P.G.R. insieme alla sua storica band, i Rossofuoco.
Necessitando di almeno un contatto visivo decido di andare fino a Correggio per poterlo incontrare. L’appuntamento è in un bar del paesino emiliano, che fa molto “amico che non vedi da un po’”: fanculo videochiamate, videochat, zoom e menate varie. Direi che ne abbiamo fatte abbastanza.
Sono sinceramente emozionato, mentre aspetto al tavolino con una pinta di birra. In fondo è come se Paola Maugeri stesse aspettando Mick Jagger. Passatemi il paragone dai!
Dopo pochi minuti arriva Giorgio che, vedendomi col bicchiere e la maglietta del Velvet addosso, non esita un attimo:”Il Velvet, grande! Prendo una merda da bere e arrivo!”
Torna con vodka e ghiaccio, qualche scambio di battute e partiamo con la nostra chiacchierata, di circa due ore. Provo a riassumere!

 

Ti devo confessare una cosa: è da Luglio che ascolto il nuovo disco, me lo ha fatto ascoltare Botte (amico in comune, NdR) dopo che tu glielo hai mandato in anteprima.

“Si si, ha fatto bene!”

 

Venti come sono venti i brani di questo disco, avevate tempo durante il lockdown o li avevate gia scritti?

“No, semplicemente sono venuti fuori! Io ero chiuso su a Bassano, nell’appartamento/studio di Steve, ho iniziato a buttare giù qualcosa poi li ho fatti girare agli altri; dopo dieci pezzi Steve ha proposto di andare avanti e fare un doppio e ci siamo detti, perché no, tanto di cose da dire ne ho! Anche se fino a quel momento avevo un certo riserbo nel parlare di questa situazione di merda, non volevo metterla dentro al disco.”

 

E come si fa? È difficile ignorare ciò che accade.

“Si, ogni tanto ho questi trip! Ad esempio ho un pezzo, che probabilmente sarà nel prossimo album, o chissà, si chiama 900. Ripercorrerà tutto il novecento storico, ignorando completamente l’Italia e quello che è successo qua, perché tanto è irrilevante…”

 

Inutile e irrilevante come un brano del disco.

“Ahah, si, inutile e irrilevante, che è una provocazione bella grossa! Ignorando Mussolini, CianoBerlusconi, la P2 chi cazzo sono? Perché devo parlare di questa gente qua? Se viene fuori è una bella canzone, lunghissima.
Quindi, dicevo, l’intenzione era di lasciare del tutto fuori il problema che stiamo vivendo, come se non esistesse. Anche perché non ci credi che la gente possa arrivare a livelli simili, sul fatto di accettare per oro colato tutto quello che gli si racconta, senza neanche sollevare un obiezione e che qualsiasi precetto gli si ponga di seguire lo segue.
Mi venivano in mente i documentari propagandistici di istruzione alle precauzioni anti pericolo nucleare; dicevano ai bambini di accovacciarsi e coprirsi…”

 

Hai citato questa cosa in un brano in effetti.

“Si esatto, c’è. Accovacciati e copriti, accovacciati e copriti! Indottrinamento di base, inutilissimo, anche perché se ti esplode una bomba nucleare a 4 km puoi accovacciarti quanto ti pare.
Mi sembra un po’ questo, la mascherina, il distanziamento, che poi non mi sembrano cosi utili se ci pensiamo.”

 

Che vuoi dire?

“Al di la di quel che scrivono La Repubblica e Corriere della Sera, basta guardare la Svezia, la Norvegia, la Finlandia dove non hanno fatto niente. Non c’è bisogno di tenere controllata la gente. Qua invece è il sogno da sempre! Qualsiasi regime, cattivo o buono, quello che vuole di più è l’obbedienza, se cieca ancora meglio, facendo cagare addosso la gente. Mi ricordo la dichiarazione dello psichiatra prima di suicidarsi in carcere durante il processo di Norimberga: la paura fa 90, se fai cavalcare la paura vinci!”

 

Durante il primo periodo di lockdown la gente che ti guardava e insultava dai balconi se uscivi. Un esempio fu una farmacista presa a male parole, in realtà stava solo andando a lavorare.

“Poi il paragone diventa peso, ma è così che si crea il consenso che ti consente di andare a denunciare l’ebreo che sta nel piano di fianco. Per carità non voglio paragonare le cose, assolutamente, ma il meccanismo è il medesimo. Quelli che andavano a denunciare l’ebreo non gli sembrava cosi grave andare a denunciarlo.”

 

Su questo tema sei molto attivo sui social, su facebook hai postato diversi articoli, per esempio del collettivo Wu Ming.

“Ah sì, mi sono preso anche del negazionista!”

 

Al di là di come la si possa pensare è sempre giusto avere un atteggiamento critico, porsi domande.

“Certo! Se non capisci questo…a qualcuno fa comodo che sia cosi. Dall’altra parte dell’oceano fa comodo nascondere quello che sta per arrivare, ovvero un nuovo crack tipo ’29. Dar la colpa a un virus piuttosto che a quei figli di puttana che stanno a Wall Street è più comodo. Altrimenti la gente prende il piccone e va fargli il culo a questi qua, mentre se è colpa del virus…”

 

Alla fine l’argomento è entrato lo stesso in questo disco.

“Si però se ci fai caso in metà delle canzoni non ne parlo proprio. Il problema è che quando ne parlo ci vado pesante.”

 

Vero, e infatti sei sempre stato coerente nei tuoi testi, critico, a volteprofetico. Ricordo quel pezzo del 2004 che fa “Epidemie terrificanti, nuovi contagi e vecchi mondi da evitare e noi qui in fila a farci rivaccinare..”

“Sì si, siamo lì. Semplicemente sto attento a quello che succede intorno a me e soprattutto faccio tesoro delle lezioni di storia, anche della storia moderna o attualissima. Lo vedi come va il mondo. Poi per carità non voglio ergermi a Pasolini che diceva, testualmente: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace…”. Per carità, Pasolini è Pasolini e Canali è Canali, però se uno è attento a quel che succede attorno e ragiona poi fa 2+2. Poi magari ti sbagli a fare 2+2, però se non ci provi neanche sei un coglione!”

 

È importante farsi domande, essere critici. Nei tuoi testi è palese..

“Assolutamente! Ma scusa il coprifuoco? La gente accetta il coprifuoco senza alcuna obiezione!
E poi mi danno del fascista se ne parlo! Fascista a me! Se non sei filogovernativo allora la pensi come Salvini, che dice le cose solo per comodo! Se la Meloni domani se ne uscisse con “Dio non esiste” io dovrei diventare subito credente cattolico? Perché dovrei fare o dire per forza una cosa diversa da quel che dice lei? Col cazzo!
La gente purtroppo fa questi accostamenti. Poi quando tiri fuori il concetto di negazionismo applicato a qualcosa di diverso dal negazionismo vero, che è quello di dire “i lager non sono mai esistiti” stai già facendo della propaganda di merda. Terrificante!
E non mi trincero neanche dietro a una serie di privilegi che mi sono stati tolti, tipo campare con la musica. Si, non pago l’affitto in questo momento, ma non è per questo che sto qui a discuterne, non me ne frega niente!”

 

A proposito, ti volevo fare questa domanda, che tocca anche me e il mio lavoro di fotografo. Ora eventi e concerti sono bloccati a fronte di bonus e simili..

“Fanculo, io non voglio una lira da loro, voglio solo che mi lascino libero. Non mi frega di inps e bonus. Quando vivevo in Francia avrei avuto diritto agli assegni di disoccupazione del mondo dell’arte, con 70 cachet dichiarati in 1 anno hai l’equivalente dallo Stato pagato per altri 300 giorni. Potevo fare richiesta ma non mi interessa, non li voglio. Non voglio pensare, ragionare di essere anarcoide.”

 

Anarcoide?

“Si, in realtà non sono anarchico, sono anarcoide, è peggiorativo! Però almeno non sono organizzato in una anarchia coalizzata.
Adesso cos’è sto cashback? Diventi ancora di più schiavo di un sistema che è basato sul controllo. Poi ci sono quelli che “io l’app Immuni mai e poi mai” ma poi appena ti danno 20€ vai subito a dargli i tuoi dati, per cifre irrisorie!”

 

Una presa per il culo?

“Si chiama propaganda!
Dai Basta!”

 

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Si cambiamo argomento. Come mai a Correggio? Fan di Ligabue?

“Si, sono venuto a imparare il rock’n’roll da Ligabue!
In realtà avevo la speranza di riuscire a sostituire in tutte le pizzerie le foto del Liga con il pizzaiolo ed esserci io al suo posto. Ma non ci riuscirò mai.”

 

Però sei un fan di Jovanotti.

“Certo, ma non confondiamo la merda col purè! Sono fan di Lorenzo, lo conosco, è una persona molto onesta. Può essere populista, ma è quel tipo di populismo che non mi dispiace perché è quello dei sentimenti che vengono direttamente da lui, non è un voler forzare le cose. È un buono, un ottimista.”

 

Vorresti esserlo anche tu, ottimista?

“Mi piacerebbe un sacco! Vede sempre il bicchiere mezzo pieno, io invece lo vedo sempre rotto il bicchiere, neanche mezzo vuoto!”

 

Invidia? 

“Si un po’ di invidia ce l’ho! Poi mi piacerebbe scrivere un paio canzoni con quello spirito li. Per esempio Mi fido di Te è un pezzo che spacca, che quando l’ascolto mi vengono i brividi.”

 

Se non ricordo male ne avevi fatto anche una cover.

“Si era un festival vicino ad Arezzo, probabilmente gli abitanti da quella volta mi odieranno! Mi avevano chiesto di affrontare sei brani di altri artisti, cover che mi piacevano e che avrei voluto scrivere io. Quella di Jova l’ho mescolata a Precipito, ci stava.”

 

Ma veniamo ai tuoi pezzi. Canzone Sdrucciola,  com’è nata?

“Sdrucciolamente! È partita da una batteria in 6/8 di Luca Martelli. Abbiamo fatto esattamente come fossimo dal vivo, in cui uno parte e gli altri gli van dietro.”

 

Però in questo caso eravate separati.

“Si, si. Luca le batterie le ha registrate in Sardegna, qualcuna nell’orto della sua compagna. Steve era Miami, io a casa di Steve a Bassano, Marco Greco a Bologna. Poi ci giravamo i file. Uno partiva e gli altri dietro poi io ci mettevo il testo.”

 

Quindi i testi vengono per ultimi?

“Si il testo arriva sempre dopo. Anche in sala prove, quando improvvisiamo insieme, suoniamo poi io mi porto a casa tutto, taglio edito, faccio quello che c’è da fare e poi viene fuori il testo. Raramente una canzone nasce chitarra e voce già strutturata. Poi ogni tanto qualche pezzo che nasce così, alla cantautore, c’è.”

 

Per esempio?

Rotolacampo, oppure andando indietro, Lezioni di Poesia. Ma sono davvero pochi i pezzi fatti in questa maniera. Prima nasce l’atmosfera, l’ambiente, poi ci scrivo sopra.
Canzone sdrucciola è nata cosi. In realtà stavo lavorando anche a un altro testo su quel pezzo, poi mi è venuta fuori la frase “..chissa perché la radio passa solo canzoni inutili”, bella, ed è venuto fuori tutto cosi, un testo sdrucciolo, con l’accento sulla terzultima sillaba.”

 

Questo nuovo disco mi sembra il perfetto continuo del precedente Undici canzoni di merda con la pioggia dentro.

“Si infatti è sott’inteso, non mi andava di palesarlo, ma è automatico! Venti sono le canzoni di merda.”

 

Un album pregno di citazioni.

“Si, l’ho fatto apposta questo disco. È uno dei motivi portanti dell’album. Andando a giocare, citando in ogni canzone almeno un pezzo di qualche cantautore italiano; ce ne sono almeno 26 o 27. A parte quelli internazionali che ci sono sempre stati.”

 

Io non li ho beccati tutti. Sicuramente il più facile è De Andrè

“Quella è facile, si!
Ad esempio c’è quella in Cartoline Nere, per citare I Matti di De Gregori. È stata quella che mi ha dato il là per citare. L’ho stravolta e mi son detto, “Bella cosi, andiamo avanti e citiamo tutto quello posso”, sia travisandolo, storpiandolo, ma anche copiandolo papale papale. In Morire Perché c’è “catene, bastonate, chirurgia sperimentale” di Com’è Profondo il Mare di Dalla e prima, forse più nascosto, “morire di Maggio”” (La guerra di Piero, De Andrè NdR).

 

Ti vidi in concerto le prime volte tra il 2004 e il 2005. Prima con i TARM e poi a Forlì con degli sconosciuti Zen Circus.

“Uh si! Lì era una delle prime volte che incrociavo gli Zen Circus Poi ho fatto delle cose con loro, nel primo disco, dove Andrea Appino cominciava a cantare in italiano: sono andato in studio con lui a fare le voci, mi faceva cagare come cantava in italiano, dieci volte meglio in inglese! Bisognava che fosse convinto di cantare bene anche in italiano, così l’ho stressato un po’. E poi era l’album prodotto da Brian Ritchie (Violent Femmes, NdR), ci sono andato per lui! Abbiamo anche suonato insieme, per me era un sogno!”

 

Poi con chi altro hai lavorato?

“Con Vasco (Le Luci Della Centrale Elettrica) ho fatto tutto il primo album e una novantina di date; tant’è che Nostra Signora della Dinamite è uscito un anno dopo proprio perché io ero in tournée con lui e ci tenevo vedere come andava, è stata una bella cosa! Siamo tutt’ora in contatto, credo di essere una delle dieci persone che sente i provini dei suoi dischi per primo.”

 

Poi?

“Poi Bugo, un altro di quelli che apriva i miei concerti e poi ora, ciao! Come anche i Verdena del primo album, che a fine ’90 mi portai in tour per qualche data ad aprirmi i concerti, era appena uscito Che fine ha fatto Lazlotoz, era il 98/99.”

 

Anni stupendi, c’era un bollore incredibile.

“Si ma c’è anche adesso il bollore, forse si è un po’ spento perché stanno cercando di imitare da una parte la trap inutile, e dall’altra Venditti. Sai i vari episodi di pop romano che da indie diventa mainstream. Ma poi chi se ne frega, non son qui a sparare sulla croce rossa, ognuno fa le scelte che vuole, tanto fra due anni sono tutti sepolti questi qua.”

 

C’è speranza.

“Ma sì, c’è ancora un movimento. Credo che ci sia anche un ritorno, paragonabile a quello che han tirato fuori Vasco Brondi e Dente, a un certo tipo di cantautorato, con dello spessore.
Ci sono anche delle cose che ho prodotto io; i Radiofiera, che sono dei vecchi di merda come me, esistono dal ’90. Poi c’è Prevosti che spacca, l’ho portato in giro con me in qualche data.
Poi qualcosa di nuovo, un tipo di Genova, che scrive bene, mi piace, è disimpegnato ma non va a cercare il pop facile con le canzoni d’amore e gli accendini accesi. Uscirà con la mia etichetta PsicoLabel.”

 

La tua etichetta?

“Si, è la mia etichetta storica, proprio mia. Ora vogliamo farla diventare una vera etichetta; per un po’ di tempo è stata come un tatuaggio che ognuno si metteva: “Posso uscire con PsicoLabel?” Fai il cazzo che vuoi, basta che non mi chiedi dei soldi! Era roba che facevo con gli amici. Ora invece stiamo cercando di strutturarla, insieme a Steve, farla diventare una piccola factory.”

 

Da quant’è che suoni con Steve?

“Da Rojo in poi, li eravamo tre chitarre con Fanelli al basso. Fanelli (ex Quinto Stato) tra l’altro sarà probabilmente una prossima uscita con un progetto bellissimo, Fanelli Demolizioni.”

 

Parlando di basso, mi è sempre piaciuto come esce dai tuoi dischi, anche in quest’ultimo. Mi ricorda quello di Gianni Maroccolo.

“Il basso di Marco mi piace molto, lui imita me che imito Gianni appunto, e ci piace!”

 

Lui però nasce chitarrista.

“Si, tutti i migliori bassisti nascono chitarristi, quelli col plettro in mano. Altrimenti finisci che ti menano come Pastorius!”

 

In questo momento di pausa dei concerti? Ti dai anche tu allo streaming?

“No no, non esiste proprio, è un surrogato di vita che non posso accettare. Andare sul balcone a fare gli imbecilli con la chitarrina, a parte quelli che ci andavano per controllare gli altri, o quelli che si mettevano a fare le robe in streaming? Ma vaffanculo. Ho anche litigato con degli organizzatori di festival per questo motivo. Ma perché invece non organizziamo delle cose? Forziamo un po il blocco, poi ci arrestano tutti!”

 

In realtà concerti ed eventi sono assai più controllati e regolamentati rispetto ad altri contesti come i centri commerciali ad esempio.

“Ma si, ma noi le abbiamo sempre rispettate le regole, ma poi non è bastato! Alla fine han chiuso tutto, cinema e teatri.”

 

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Da Predappio, alla musica e al tuo lavoro, come è andata?

“Facevo il chitarrista in una band di amici, che suonava molte canzoni dei Beatles, e anche molti pezzi propri. Sembra preistoria ma all’epoca era roba uscita quindici anni prima, come chi adesso suona il grunge. Poi pian piano mi sono trovato a mettere su una cosa che si chiamava Potemkin, che nei primi anni 80 in Romagna funzionava abbastanza. Insomma io trombavo, in quanto frontman!
Poi mi sono reso conto che questa cosa non mi andava bene, nel senso; perché se sono su un palco mi trombi mentre se fossi fuori non mi cagheresti? Allora ho cominciato a fare della musica completamente deficiente e inascoltabile insieme al Politrio e a Bob Zoli, morto un paio di anni fa, lui è stato uno dei pilastri e della musica indipendente a Forlì. Per sei-sette anni facevamo concerti per 100 persone di cui 90 se ne andavano e dicevano “cos’è sta merda?” Era bello, il rifiuto del piccolo star system di periferia.
Da lì abbiamo iniziato a conoscere gente che lavorava in quell’ambito, per esempio i Litfiba. Prima Bob come fonico e poi io come suo sostituto dopo un incidente. Intanto in quel periodo facevamo musica difficile, poco fruibile. Mi ricorderò sempre quando Libero Cola del Vidia ci prese dicendo, “dai vabbè, ci saranno 10 persone” e poi gli riempimmo il locale con la nostra musica di merda.”

 

Poi come sei arrivato ai CSI?

“Dopo aver cominciato come fonico per i Litfiba, abbiamo girato l’Europa, subito dopo Tre, erano la mia famiglia, poi ho conosciuto i Noir Desire e sono diventato francese, era il mio mondo.”

 

Quanto tempo sei rimasto in Francia?

“Una decina d’anni, dal ’89 al ’98, mi dividevo tra Francia e Italia. Infatti i C.S.I. sono nati che io vivevo in Francia! Tornavo qua a registrare, era il tempo di Epica Etica Etnica Pathos di C.C.C.P., registrato proprio a 2 km da qui. La mia vita è cambiata in quegli anni, dopodichè sono nati i CSI ed io ero in giro con i Noir Desire tutto il tempo. Quando i CSI han cominciato a decollare ho preso tanti di quei voli!”

 

Invece com’è andata l’esperienza con i PGR?

“Secondo me con i P.G.R. abbiamo fatto il più bel disco che abbiamo mai fatto tutti insieme, io, Gianni e Giovanni, compresi tutti i precedenti; è Ultime Notizie di Cronaca, ultimo album, del 2009! È il migliore che ci sia mai venuto fuori! Fatto tra l’altro un po’ a distanza, come questo Venti. Io e Gianni, che ci occupavamo della musica ci saremo visti un giorno e mezzo, in tre mesi di lavorazione, per il resto tutto via internet.”

 

Non sono mai riuscito a vedervi in concerto, peccato.

“Purtroppo abbiamo mollato perché nel 2006 Giovanni ha avuto un problema di salute che lo ha portato via dalle scene per parecchio tempo. Poi non si è fatto più nulla. Ma avevamo in contratto un altro disco con la Universal e cosi lo abbiamo fatto, ed è appunto Ultime Notizie di Cronaca, ed è uscito davvero bene. Se lo ascolti capisci perché! Al di fuori delle parole di Giovanni, che possono piacere o non piacere, non me ne frega un cazzo di quel che pensa la gente, però musicalmente è la cosa più riuscita e matura che abbiamo mai fatto, perché c’è tutta la mia sensibilità e quella di Gianni che si mescolano in maniera perfetta, una figata! È musica diversa, trasversale.”

 

Tornando al disco nuovo invece, ho sentito, tra le altre cose, tante tastiere in più e il violino.

“Sì sì, ma il violino c’è da sempre! C’è stato anche il violino di Rodrigo D’Erasmo, era in Tutti Contro Tutti, mentre il violino di Andrea Ruggiero c’era già in Nostra Signora della Dinamite, e in Venti c’è almeno in cinque/sei pezzi.”

 

Domanda secca. Se ti chiedessero di fare il giudice di un talent?

“Se mi pagano un tot di soldi ci vado! Massimo rispetto per Manuel Agnelli che riesce sempre a far molto bene quello che fa, poco rispetto per chi lo critica, perché sono solo invidiosi di merda. Stesso vale per Alberto che va a suonare a X-Factor i pezzi dei Verdena. Ma che vuoi? Questo lo so fare, e lo vado a fare, mi pagano, lo faccio. E se anche non mi pagavano ci andavo lo stesso probabilmente perché mi andava di farlo.”

 

Non ti sei scandalizzato.

“Ma siam matti? Mi devo scandalizzare per cosa? Se gli Zen Circus vanno a Sanremo? Poi ci sono andati in maniera super dignitosa!”

 

Così pure gli Afterhours.

“Sono stati fighissimi, hanno portato avanti un progetto bellissimo e un ‘idea unica con quell’album.
Tra l’altro devo molto a Manuel e al suo ToraTora Festival! Quando mi voleva in prime time coi Rossofuoco nonostante all’epoca vendessimo pochi dischi. Mi diceva “Tu te lo meriti, e alla gente gli faccio vedere una cosa figa!””

 

In conclusione, avete fatto davvero un bel disco, pensi sia il migliore?

“Per forza! Ma per quantità più che qualità! Tra Undici e Venti cosa scegli? E poi hai ragione tu, ha filo conduttore che va avanti; non a caso la copertina è sempre della Martina, una mia amica di Bergamo. Nella mia testa vedevo una trilogia, Undici, Venti e poi il prossimo magari sarà Giallo.”

 

Quindi hai già altri pezzi?

“Si, in realtà siamo andati oltre i venti pezzi, ce ne sono almeno tre o quattro che non sono andati dentro a Venti. Un brano è in una compilation che dovrà uscire (Her Dem Amade Me, pubblicato su supporto fisico il 4 Dicembre, NdR), un lavoro dedicato a Orso, quel ragazzo di Firenze, ucciso mentre combatteva l’Isis.”

 

Si, ricordo bene.

“Adesso sembra una roba da matti! Ma nel ’37 era normale prendere e andare a combattere; quanta gente da Francia, Italia, Germania ha deciso di andare a combattere un’idea di merda, che era il franchismo.
Il problema è che le resistenze sono celebrabili solo se sono roba vecchia, se è nuova sei uno sfigato che si batte contro un sistema che tanto ha già vinto. Vaffanculo!”

 

Quindi festeggiare oggi la resistenza ha senso?

“Certo, come aveva senso negli anni ’70. Non sono assolutamente un fan della lotta armata, ma anche quella era resistenza.”

 

Giorgio abbiamo parlato un sacco e sono quasi le 18, ci chiude il bar!

“Ah basta basta, poi qui ci arrestano!”

 

Ciao Giorgio, a presto spero!

“Speriamo, Ciao!”

 

 

Siddharta Mancini

La ricetta degli Zen Circus tra ispirazione e coincidenza

Ad un mese dall’uscita del loro ultimo album, abbiamo avuto l’occasione di fare due chiacchiere con Ufo – al secolo Massimiliano Schiavelli – bassista degli Zen Circus, che ci ha parlato de L’Ultima Casa Accogliente, ma anche di carriera e di Ritorno al Futuro.

 

Ciao e grazie per averci concesso quest’intervista! Iniziamo parlando del vostro ultimo lavoro, L’Ultima Casa Accogliente. Avete detto che è un album a cui siete molto affezionati, ma anche che è il vostro disco “meno pensato”. Cosa intendete?

“Siamo senza dubbio molto legati a questo nostro ultimo lavoro, anche per il processo di creazione che c’è dietro. Nasce da un nucleo di brani che avevamo arrangiato a un certo livello già a febbraio scorso e che fortunatamente avevamo avuto modo di “testare” in sala prove, buttando giù dei provini in piena libertà, senza scadenze o preconcetti. Questa occasione è stata fortunatissima, perché a lockdown iniziato avevamo già delle cartelle, dei progetti su cui rimuginare aspettando di poterci riunire nuovamente. Ne è risultato un lavoro a due facce: da un lato è più “ponderato” proprio perché ci siamo presi tutto il tempo necessario per digerire gli spunti e arrangiare ogni cosa, dall’altro è meno pensato nella misura in cui abbiamo seguito l’istinto nel produrlo senza pensare mai al fatto (per dire) che il tal brano fosse troppo acustico, troppo poco acustico, troppo “stile Zen” o troppo poco, o avesse una durata non adatta ai passaggi radio, eccetera.

L’attenzione è stata sulla produzione e l’arrangiamento, suonando i brani come una band e non come un insieme di musicisti chiusi in studio a fare parti predeterminate, se intendi cosa voglio dire. Ci siamo detti in certi momenti “e se la gente non riconoscesse il sound o lo stile di questo brano?” E la risposta era invariabilmente: “che importa?” 

Al momento di ripartire con la registrazione definitiva, Karim è andato al Fonoprint Studio di Bologna (tra regioni non ci si poteva ancora muovere) e ha suonato i brani come se li era immaginati lui, andando avanti o dietro al beat come si sentiva che fosse giusto. Noi da Livorno seguivamo in tempo reale tutto e ci suonavamo sopra. Paradossale, ma ne è risultato appunto un lavoro ragionato ma allo stesso tempo spontaneo. Miracoli dell’era Covid, chissà…”

 

C’è una canzone dell’album che mi ha colpito in particolare, 2050, che sembra quasi la versione futura e post-apocalittica di Viva. Com’è nata l’idea dietro?

“La storia di 2050 è, se si può dire, in tre parti. Avevamo questa traccia strumentale che pareva promettente, ma che aveva qualcosa di irrisolto a livello di giro di accordi e ci ha costretto a riflettere un pochetto. Poi non abbiamo riflettuto più, perché c’è stato un mio casuale intervento in sala prove (è molto probabile che avessi capito fischi per fiaschi e abbia messo una nota a caso) che ci ha fatto ripartire per dare al brano la forma musicale che ha adesso. A seguire Appino ha vomitato il testo tutt’un fiato, non si sa come, e l’abbiamo trovato subito interessantissimo, sembrava un condensato di tante paranoie e riflessioni che avevamo in comune.

Nella terza fase ci siamo accorti che la canzone non aveva un titolo, nemmeno provvisorio. A quel punto ho sparato una data a caso, che gli altri hanno subito approvato. In buona sostanza, un ennesimo prodotto Zen, metà ispirazione metà coincidenza.”

 

Se doveste scegliere una sola canzone della vostra discografia per descrivervi, presentarvi a qualcuno che non ha mai sentito parlare degli Zen Circus, quale sarebbe e perché?

“Questa è una domanda sleale per una band all’undicesimo disco! Scherzi a parte, ma mantenendo per vero che queste canzoni sono un po’ tutte figlie amatissime, e dar loro una priorità è un esercizio difficilissimo, opterei per L’Anima Non Conta, scelta invero paraculissima perché è oggettivamente uno di quei brani che è capitato in un modo o nell’altro fra gli ascolti di persone che non sapevano chi fossimo. Cosa del resto capitata anche a Viva, ma forse in minor misura.”

 

Con vent’anni di carriera alle spalle, la vostra musica è diventata decisamente intergenerazionale: come vi fa sentire sapere di arrivare ad un pubblico così ampio e soprattutto così diversificato?

“Ci fa sentire vecchi in prima battuta. Poi a ripensarci ci fa sentire fortunati. E una cosa compensa l’altra.”

 

L’anno scorso è stato parecchio importante per gli Zen Circus: i vent’anni di carriera, i dieci di Andate Tutti Affanculo, il libro e il festival di Sanremo. C’è qualcosa che vorreste dire oggi ai ragazzi del romanzo?

“Se incontrassi il “me” del romanzo ancora ragazzo, ho la netta sensazione (anche perché ci avevo riflettuto su questa eventualità) che non gli direi proprio nulla. Gli farei fare e dire tutto quello che ha fatto e detto, e gli lascerei tranquillamente l’opzione di darsi tutte quelle zappate nei piedi, perché è giusto che sia così. Sembra scontato, ma, soprattutto nel caso nostro, gli errori, gli svarioni, le esaltazioni insensate e le severe lezioni della vita hanno un loro senso fondante che ha reso unica e peculiare la nostra picaresca scalata al successo (!). E poi bisogna tenere a mente che già Marty McFly ha dimostrato ampiamente che col passato non si scherza…”

 

Francesca Di Salvatore

Tre Domande a: Youngest

Come state vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?

“Il primo lockdown non è stato facile. All’uscita di Slow Fade, uno dei nostri nuovi singoli, a fine febbraio avremmo dovuto iniziare un mini tour in giro per l’Italia, come opener per Hundredth e Slow Crush. Ovviamente si è dovuto annullare tutto e per noi è stato un grande dispiacere, soprattutto perché avremmo potuto suonare con band che adoriamo e che ci hanno ispirato per la scrittura dei nuovi pezzi.
In ogni caso, nei mesi successivi, abbiamo continuato a comporre nuovi brani, quando possibile vedendoci, ogni tanto a distanza. È stato un nuovo modo per noi di approcciarci alla scrittura, sicuramente ci ha dato la possibilità di ragionare in modo diverso sui nuovi pezzi. Ma la verità è che non vediamo l’ora di tornare a suonare su un palco.”

 

Come e quando è nato questo progetto?

“Siamo nati a inizio 2016 come trio. In quel periodo io (Ivan), Luca e Federico ascoltavamo le stesse band ed è stato naturale iniziare a suonare insieme. Abbiamo subito iniziato a scrivere dei pezzi, che sono usciti nel nostro primo EP We’re Made of Memories, pochissimi mesi dopo. Nel 2017 Noah è entrato come batterista sostituendo Federico e qualche mese dopo Stefano si è aggiunto alla band come chitarra principale e seconde voci. A maggio 2018 è uscito Could Never Be You, il primo disco che abbiamo scritto in quattro, e nei mesi successivi abbiamo diversi mini tour in giro per l’Italia. Da allora sono usciti Ghosting, Slow Fade e Lotus, tre nuovi singoli.”

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

“Nei nostri pezzi parliamo di noi stessi, delle nostre esperienze personali. Quindi speriamo che qualcuno di chi ci ascolta possa ritrovarsi anche solo un momento nei nostri testi.”

dile. Delusioni, notti in bianco e vodka: nasce così Rewind

Notti in bianco e bicchiere sempre pieno: la vita dopo una delusione d’amore ce la racconta dile nel suo album d’esordio. 

Anno 1989, Francesco Di Lello in arte dile, è un cantautore abruzzese, che nel 2019 decide di consacrare il suo percorso discografico, lanciando il primo singolo Perdersi. In poco tempo, dopo un ottimo riscontro da parte del pubblico, si conquista un posto nella classifica di Spotify Viral 50. Nel corso dell’anno 2019, dile, pubblica altri tre singoli: Rewind, Giganti e finoallesette. Apre il 2020 con l’uscita del singolo La verità e successivamente, durante la quarantena, in occasione dell’uscta del brano America, crea il suo primo videoclip. Decide di farci attendere ancora qualche mese l’uscita del disco, pubblicando altri due singoli, Tangenziale e Vodka. 

Ormai guadagnatosi uno spazio tutto suo nel mondo del cantautorato, accompagnato da chitarra e pianoforte, il 20 novembre, pubblica il primo album: Rewind, pubblicato per OSA e Artist First. Il disco è figlio di una collaborazione con produttori e autori di tutto rispetto, tra cui Federico Nardelli, Marta Venturini, Francesco Rigon, Michael Tenisci e Federico Galli. 

Con molta voglia di scoprire a fondo l’artista e il disco, abbiamo posto qualche domanda a dile. Ecco cosa ci ha raccontato.

Ciao dile, benvenuto. Dopo aver ascoltato il tuo album d’esordio salta subito all’orecchio un mix di sofferenza e voglia di gridare al mondo i propri sentimenti. Quando è nata questa voglia di mettere nero su bianco il dolore di una delusione d’amore?
“Penso che non si possa calcolare quando sia nata di preciso, d’istinto risponderei trent’anni fa. Ho scritto le mie prime cose quando ero solo un bambino quando non sentivo ancora il bisogno di capire il motivo per cui stessi scrivendo.
Nella vita in genere sono molto riservato, parlo poco dei cazzi miei, forse proprio per questo mi viene più facile buttare giù nei testi tutto quello che forse non ho il coraggio di dire guardando negli occhi qualcuno.”

dile è all’anagrafe Francesco di Lello, parlaci un po’ di Francesco nella vita prima di essere dile.
“La cosa simpatica del mio “nome d’arte” è che io sono dile da sempre, i miei amici infatti mi chiamano così da tutta la vita come diminuzione del mio cognome.
Non saprei proprio scindere le due figure, non esiste nessuna entrata in scena del personaggio. Sono molto molto paranoico e ansioso, autocritico e forse un pelo narcisista, per il resto provo semplicemente ad essere molto sincero, riportando le cose che vivo e che provo all’interno dei miei brani.” 

Parliamo del disco. Perdersi è il primo singolo uscito. Trasmette la sofferenza di una relazione finita, ma con la voglia di ritrovarsi e comunicare i propri sentimenti. Ma si parla anche di destino. Quanto ha influito la scelta di affidarsi ad esso nella nascita del brano? E più in generale, nella tua vita privata?
“Io non ho mai capito in realtà se sono uno di quelli che crede nel destino. C’è una parte di me, quella più cinica, che non crede assolutamente che le cose accadano per una ragione ben precisa. Ma per fortuna per riequilibrare il tutto c’è anche quella paranoica e da sempre innamorata della magia degli eventi, cioè in qualche modo le cose devono essere incastrate tra di loro, per forza. Diciamo che tra le due forse preferisco la seconda, tutti i miei brani sono molto legati tra di loro, come del resto anche le cose e le persone che hanno fatto parte della mia vita, come se fosse uno schema libero disegnato a tavolino da un ubriacone.”

C’è un brano che mi ha colpito in modo particolare, America. E’ la descrizione perfetta di una relazione che non sa che direzione prendere. E’ “Complicato fingere”, ma spesso accettare di sbagliare può essere la soluzione per tenersi ancora un po’ vicini. Ti è mai capitato di arrivare al compromesso di accogliere i tuoi errori per poter amare ancora, solo per poco?
“Si mi è capitato diverse volte in realtà e credo che questo elemento sia presente in ogni mio singolo brano. In America ad esempio c’è tanta confusione e contraddizione, c’è la voglia di tenersi stretti ma anche la paura di sbagliare ancora, la determinazione di persistere ed il terrore di cascarci nuovamente. In questo brano, come del resto anche negli altri, c’è l’essenza del mio carattere, un’infinita battaglia emotiva tra giusto e sbagliato, un continuo auto sabotarsi per poi tornare sempre sui propri passi.”

Durante la quarantena è uscito anche il videoclip di America. Come è nata l’idea di creare e girare un video in un periodo così complicato? Sei soddisfatto?
“E’ stata più che altro una scommessa. Le mura di casa non potevano distruggerci anche la fantasia e la creatività. Dopo diverse ore a telefono con il regista Efrem Lamesta ecco l’idea: fare un video usando solo materiali domestici. Faccio ancora i miei complimenti al regista per aver colto il significato del brano ed averlo poi riportato in una storia girata completamente dentro le quattro mura.” 

Dalle tue canzoni emerge una buona capacità di scrittura. Nel corso degli anni quali sono gli artisti che ti hanno ispirato maggiormente nel tuo percorso musicale?
“Ho sempre avuto una grande passione per i cantautori, uno dei principali è Kurt Cobain che ha letteralmente caratterizzato tutta la mia crescita. Contemporaneamente mi sono innamorato della musica italiana a 360 gradi, da Lucio Battisti a Lucio Dalla, da Bersani a Brunori, e ovviamente tanti altri. Di base mi piace ascoltare tanta musica senza distinzioni di genere musicale, non ci sono regole per determinare se una canzone mi piace oppure no, se mi arriva in petto è fatta, l’ascolto in loop fino a farla diventare parte delle mie giornate e di conseguenza della mia vita.”

Il disco è stato prodotto in collaborazione con vari produttori, tra cui Federico Nardelli e Marta Venturini, produttori affermarti nel mondo musicale. Come mai la scelta è ricaduta su di loro?
“Avevo già diversi brani scritti e registrati piano e voce, dovevo trovare la persona giusta che potesse vestirli senza distaccarsi troppo dall’anima del brano. Loro fortunatamente avevano un bagaglio di lavori alle spalle che già parlava per loro, anche in quel caso è stata una scommessa. Con entrambi mi sono trovato benissimo, prima di essere dei bravi produttori sono due persone fantastiche. Poi io vivo un rapporto quasi maniacale nei confronti dei miei pezzi, divento una sorta di padre iperprotettivo che non vuole accettare che la figlia stia per iniziare a camminare con le proprie gambe.
E i produttori, devo ammettere, sono stati molto bravi a controllare le mie continue paranoie.”

Le basi di ogni brano sono composte da sonorità molto semplici, sempre in linea con i testi. E’ proprio questo il risultato che ti eri immaginato durante la stesura dei testi?
“Beh si, per me le parole all’interno di un brano giocano un ruolo fondamentale ed il vestito che mi immaginavo intorno ad esse doveva essere semplice e capace di rafforzare il significato dei testi. Mi piace pensare di riuscire a mettere l’ascoltatore nel mood adatto per comprendere al meglio il significato delle mie parole.”

Tutti i brani hanno riscontrato un discreto successo. Avresti mai pensato di poter avere un riscontro simile quando hai deciso di voler lanciare il disco?
“Assolutamente no, cioè non mi sono mai posto obiettivi da rispettare. L’album è qualcosa che forse ho fatto più per me che per chi mi segue, avevo bisogno di dare una casa a tutti questi brani che giravano da un po’. Vedere che ci sono persone che nelle loro cuffiette si sparano i miei brani è già una grande soddisfazione e sono molto grato per questo.
Per il resto sono ancora all’inizio e ho ancora tantissimo da dimostrare.”

Guardando al futuro, quali sono le tue aspirazioni? Hai già pensato a qualche nuovo progetto?
“Spero davvero che questa situazione finisca per tutti al più presto e che si possa tornare a quella normalità a cui forse non davamo il giusto peso.
Per quanto riguarda i miei progetti non vedo davvero l’ora di tornare sui palchi a portare un po’ in giro il mio disco, per il momento sto scrivendo tanto quindi nel mio futuro immagino sicuramente tanta nuova musica.
Auguro a tutti noi di poterne uscire più forti di prima, grazie di cuore per la chiacchierata.
Vi abbraccio forte.”

 

Elvira Cerri

Vianney e il suo invito a non aspettare

Classe 1991, tre dischi all’attivo e numerosi premi che l’hanno reso uno degli artisti più apprezzati d’Oltralpe: abbiamo fatto due chiacchiere con Vianney, fenomeno francese del pop, dove abbiamo parlato del suo ultimo album, di semplicità e dell’importanza del fallimento.

 

Ciao! Grazie per averci concesso quest’intervista!
“Ciao! Grazie a voi!”

Parlaci del tuo nuovo album, N’attendons pas. Com’è nato questo progetto e come mai hai deciso di pubblicarlo in questo periodo così difficile per il mondo della musica in generale?
“Ho registrato l’album tra febbraio e settembre, da solo, nel mio piccolo studio casalingo. Più registravo le canzoni e più la situazione sanitaria ed economica diventava complicata. Una canzone del disco si chiamava N’attendons pas e ho pensato che fosse davvero la cosa migliore che potessi dire in questo periodo difficile. Allora è diventato il nome dell’album. “N’attendons pas” significa “non aspettiamo”. A vivere, ad amare, ad abbracciare le nostre passioni e i nostri progetti. Se non avessi fatto uscire l’album a causa della situazione così difficile, mi sarei tradito.”

C’è una canzone dell’album che mi ha colpito in modo particolare, J’ai essayé. È raro sentire una simile “apologia del fallimento”. Perché hai scelto questo tema?
“Credo che il fallimento sia molto prezioso. È allo stesso tempo ciò che ci permette di fare meglio la volta successiva o di farci rendere conto di non essere sulla strada giusta. Mi piace l’idea che i progetti più ambiziosi si costruiscano sui fallimenti.”

C’è una canzone di N’attendons pas a cui sei particolarmente legato?
“È la canzone che chiude il disco, Tout nu dans la neige, a cui sono molto legato perché parla del mio defunto nonno. Mi manca, ma è sempre presente, soprattutto per ciò che mi ha trasmesso: i suoi valori così semplici ma allo stesso tempo così belli.”

Sarai uno dei coach nella nuova edizione di The Voice France. Sei emozionato per questa esperienza?
“Sì, è un’esperienza incredibile! Abbiamo cominciato le riprese e concluso la parte delle audizioni al buio. Qui ho ritrovato il ruolo di produttore, il che mi rende estremamente felice. Dare consigli, guidare, ascoltare, parlare con persone appassionate… È la mia parte preferita di questo lavoro.”

In Francia sei uno degli artisti più acclamati. Con lo scorso album, Vianney, hai ottenuto un disco di diamante e sei in gara per vincere il premio di Artista Francofono dell’Anno agli NRJ Music Awards. Ti aspettavi questi risultati?
“Non mi aspetto mai niente. Per quanto mi riguarda, il mio scopo è mettere tutto il mio cuore e la mia passione quando scrivo o registro le canzoni. Sono le persone poi che scrivono il seguito e finora gli devo molto.”

Il mondo della musica è piuttosto complicato e complesso. C’è qualcosa che vorresti dire al Vianney che sta iniziando la sua carriera?
“Il piccolo Vianney ha fatto di sicuro molti errori, ma credeva fermamente nell’idea che l’impegno e la passione fossero le chiavi per raggiungere la felicità in questo lavoro! Allora lo incoraggerei a continuare su questa strada e gli augurerei di conservare il suo sguardo da bambino, di amare ogni giorno e ogni scoperta che fa e non smettere di stupirsi.”

 

Francesca Di Salvatore

Blank, colei che inculca le emozioni nella mente e le lascia in loop

Sulla carta d’identità si parla di Elena De Salvo, ma nella musica si parla di Blank. Nasce a Messina nel 1995, ma la sua vita si svolge a Cosenza, dove alla Jul Academy studia produzione musicale e pianoforte. È Milano la città che sceglie per finire gli studi e riprendere in mano la penna per la scrittura musicale, che trova libero sfogo durante il lockdown con l’uscita settimanale dei brani di Lockdown Freestyle. 

I pezzi 137, NVQ, Via hanno formato l’identità musicale di Blank tra urban, trap e pop e in grado di definire la propria personalità grazie al contributo del producer Ali3n. Nelle sue canzoni lascia sempre pensieri, emozioni ma soprattutto esperienze e testimonianze, in cui l’ascoltatore fa presto a identificarsi. Non c’è la superiorità della trap, ma c’è il ritmo che permette ad una voce quasi sussurrata di mettersi al fianco di chi la ascolta, di chi cerca un confronto, come quello del suo nuovo singolo Armi Pari, uscito il 6 novembre. 

In occasione di questa pubblicazione abbiamo fatto quattro chiacchiere con lei, ecco cosa ci ha raccontato. 

 

Partiamo dall’inizio, dal tuo nome d’arte, il contenitore vacante in cui mettere tutte le tue idee musicali: quali sono quei pensieri che hanno fatto la differenza in questo Blank?

“Mi piace pensare che ogni piccola cosa che abbia fatto ha portato a quello che Blank è adesso. Non mi piace vedere il mio percorso come una serie di scelte sbagliate o giuste, Blank è quello che è per merito di tutta la strada che ho fatto in quest’anno. Credo di aver raggiunto un buon livello di consapevolezza di me stessa e del progetto, ma c’è ancora molto da fare. Blank cambierà e crescerà di pari passo con me.”

 

Parliamo di Armi Pari. Cosa porti al tuo pubblico con questo nuovo singolo?

Armi pari mostra la mia parte più arrabbiata, è uno sfogo contro una persona che ha una posizione di potere in una relazione. È un brano scritto di getto, che richiama il contrasto tra il volere che una relazione finisca ed il non poter fare a meno dell’altra persona.”

 

Che rapporto avete tu ed Ali3n?

“Ci conosciamo da dieci anni, pazzesco no? Lavoriamo bene insieme perché ci capiamo al volo e non abbiamo paura di dire la verità sulle cose. Senza di lui non so che forma avrebbe ora il progetto, avere una persona di fiducia con cui condividere gioie e dolori è fondamentale in questo ambito.”

 

Come lavorate solitamente? Come si sviluppa il vostro flusso creativo?

“Spesso iniziamo dalla scelta dei sample. Quando c’è qualcosa che colpisce entrambi, Ali3n butta giù una base veloce ed io una melodia con qualche parola che mi viene in mente sul momento. In un secondo momento passo al testo ed Ali3n finisce la base e il brano è pronto. Dopo aver registrato la demo solitamente ci diamo una settimana per capire se ci piace davvero o no, poi passiamo alla cura dei dettagli, tutto nel nostro home studio.”

 

Cosa ti ha fatto avvicinare inizialmente al mondo urban-pop?

“Più che altro ho ascoltato per anni il rap e l’r&b, farlo mi è sembrato spontaneo. Adesso non mi definirei più una artista urban-pop, ma pop e basta. È una categoria più ampia dove mi sento a mio agio. Ho capito molto di me in quest’anno e fare melodie tendenzialmente tristi, soffermarmi su testi introspettivi è quello che mi riesce meglio e che mi emoziona maggiormente.”

 

Dopo il tuo ultimo singolo, cosa freme di scrivere la tua penna? Hai qualche idea che aspetta il momento giusto per essere lanciata?

“Assolutamente si, più di una. Ho un bel progetto in cantiere che non vedo l’ora di condividere con tutti. Con Ali3n lo stiamo studiando nei minimi dettagli.”

 

Nei tuoi brani, alla base c’è un amore a cui ti rivolgi o c’è anche un sentimento di amicizia che ti smuove?
“In realtà no, almeno al momento i temi dei miei testi sono più incentrati su amore, delusioni, paure ma anche esistenzialismo. Ho avuto varie crisi esistenziali nella mia vita, l’ultima scatenata dal lockdown (ovviamente), e sfogarle nella musica aiuta.”

 

È stata la mancanza dei tuoi amici/famiglia a darti l’ispirazione durante il lockdown?

“No, il lockdown l’ho passato in famiglia, sono stata bloccata a casa per un po’ di mesi. È stata più la mancanza di stimoli e le routine che si ripetevano all’infinito. Scrivere aiuta a rompere gli schemi e sentirsi un filo più liberi.”

 

Cosa non deve mai mancare in una base? Quale sensazione deve essere scaturita secondo te?

“Non saprei, ogni sensazione diversa può dar vita ad una diversa canzone, dipende più dal mood del momento. Se sono presa male non voglio accordi felici, se sono arrabbiata non voglio un piano lento.”

 

Descriviti in poche parole, essenziali, ma potenti.

“Sognatrice, determinata, felice a metà. Quest’ultima ve la spiego nella prossima intervista.”

 

Giulia Garulli

Tre Domande a: Floridi

Come stai vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?
“Alti e bassi, sto trovando conforto nello scrivere nuove idee, produrre qualche provino, ma se ripenso a quante date sono saltate e a tutto quello che potevamo fare con l’uscita dell’album prende male… In ogni caso cerco di rimanere positivo. Sono un curioso di natura, adoro viaggiare e spesso sono proprio i viaggi a fornirmi la linfa necessaria, la giusta ispirazione per scrivere canzoni. I miei testi sono spesso l’insieme di tante immagini e dato che adesso siamo impossibilitati a viaggiare, affido alla letteratura e al cinema il compito di fornirmi la giusta dose d’ispirazione. Spero che questo incubo finisca presto e si possa ritornare a suonare dal vivo.”
Se dovessi riassumere la tua musica in tre parole, quali sceglieresti e perché?
“Vera, Malinconica e Visiva.
Vera perché quando scrivo non utilizzo filtri, il mio approccio è sempre molto istintivo al foglio di carta o alle note vocali (che ultimamente stanno prendendo il sopravvento per praticità), approfitto di quei momenti di estrema concentrazione per ultimare le canzoni che poi revisiono nei giorni seguenti.
Malinconica perché le canzoni rispecchiano il mio carattere e spesso come mi definiscono i miei amici sono un “Malinconico Ottimista”.
Visiva perché attraverso le parole proietto immagini che raccontano le mie esperienze, le mie emozioni.”
C’è un artista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare?
“Mi piacerebbe scrivere un album con Cesare Cremonini, analizzare il suo approccio alla scrittura, alla composizione. È un artista che stimo e seguo da sempre, ho apprezzato tantissimo la sua evoluzione artistica e sarebbe davvero un sogno poter fare un feat con lui. Voi taggatelo, magari mi risponde!”