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Tag: recensione

Vianney “N’Attendons Pas” (Tôt Ou Tard, 2020)

Il 5 Dicembre si scoprirà se sarà lui il cantante francofono dell’anno secondo i NRJ Music Award, i premi istituiti vent’anni fa dalla radio NRJ per celebrare il meglio della musica francofona e internazionale. Ma nel frattempo Vianney — al secolo Vianney Bureau, classe 1991 — ha appena pubblicato il suo nuovo album in studio dal titolo N’Attendons Pas. 

Arrivato a quattro anni di distanza dal suo ultimo acclamatissimo lavoro, che contava mezzo milione di copie vendute, questo è il terzo disco di uno degli artisti più apprezzati oltralpe, tanto da venire paragonato spesso e volentieri in patria ad Ed Sheeran. Un paragone che si regge in piedi senza troppi sforzi, soprattutto guardando i testi e le sonorità.

N’Attendons Pas infatti contiene undici tracce decisamente pop, fresche ed omogenee tra loro, ma mai banali, anche senza l’aiuto di qualche effetto speciale di troppo. Anzi, è proprio la genuinità a fare da padrona in questo disco, con un connubio di chitarra e voce che ogni tanto sfiora le esibizioni in acustico e a cui si aggiunge talvolta un pianoforte, talvolta degli archi. Niente esagerazioni, nessuna spettacolarizzazione non necessaria, ma solo la musica pura e semplice che va ad accompagnare dei testi altrettanto genuini.

Non a caso, l’ultimo lavoro di Vianney è un album pieno di buoni sentimenti e di un ottimismo forse un po’ estranei a buona parte del panorama musicale italiano di moda oggi (vedi l’indie, che con la tristezza ci va a nozze, oppure il rap, che ha molte qualità ma di sicuro pecca un po’ di dolcezza). 

C’è soprattutto l’amore, ma è un amore che presenta numerose sfaccettature: quello per chi non c’è più in Tout Nu Dans La Neige — delicata ballad simil-acustica dedicata al nonno — oppure quello per i figli, anche se non hanno il tuo stesso sangue, come in Beau-Papa, canzone decisamente più pop dedicata invece alla figlia acquisita. 

Un romanticismo quindi che continua a vivere e a spingere per tutto il disco, nonché delle storie che, nonostante siano ormai finite, non lasciano mai spazio al rancore o al risentimento, ma continuano ad essere ricordate con affetto e gratitudine, da Merci Pour Ça a La Fille du Sud.

Ma comunque non di solo romanticismo vive questo disco: brani come J’Ai Essayé, che diventa una sorta di apologia del “fallimento pur avendoci provato”, oppure N’Attendons Pas, un invito a non aspettare l’arrivo di chissà quale coincidenza per cominciare a vivere la vita che si desidera, fanno capire che il filo conduttore dell’album, più che l’amore, sia l’umanità vera e propria, nel senso di tutto ciò che ci rende umani.

E tra amare e fallire, non so quale delle due cose sia più umana. 

 

Vianney

N’attendons Pas

Tôt Ou Tard/Believe

 

Francesca Di Salvatore

Keaton Henson “Monument” (PIAS Recordings, 2020)

“Sono metà cantautore e metà uomo, e tuttavia la somma di queste due parti non fa un intero”. 

Riuscite ad immaginare un’immagine più forte di questa per descrivere la propria fragilità? Perché ho appena premuto play per ascoltare il nuovo disco di Keaton Henson, testè uscito per la PIAS Records e sono già steso sotto il consueto e sempre nuovo clima da soliloquio che lui, come pochi, pochissimi altri al mondo, sa creare.

Tra le prime pennellate di Ambulance e il dolce cadenzato arpeggio di Self Portrait ho poi ricevuto l’illuminazione: Keaton Henson è la trasposizione ai giorni nostri di ciò che era stata ed aveva rappresentato, nel diciannovesimo secolo, una delle più grandi poetesse di tutti i tempi, e per certo la mia preferita: Emily Dickinson.

Zia Emily, come era solito appellarla il mio professore di inglese al liceo, ha scritto “Ad un cuore in pezzi / Nessuno s’avvicini / Senza l’alto privilegio / Di aver sofferto altrettanto”. 

Se dovessimo oggi cercare una persona capace di aver mostrato, attraverso la propria arte, la sofferenza, interiore certo ma mai nascosta o taciuta, tanto da renderla quasi universale, nella sua compostezza, quella è Keaton Henson. Nessun dubbio a riguardo. Il quale, già di per sé incline al mettere in musica ogni minimo dettaglio ed emozione del proprio animo tormentato e della propria tumultuosa, quando non misera, infelice, vita sentimentale, ha dovuto passare attraverso un’ulteriore prova, ancor più dura da accettare e sopportare, ovvero la recente scomparsa del padre.

E questo nuovo disco, Monument, si svela come un lungo, sentito percorso attraverso il dolore, per esorcizzarlo di certo, ma anche e soprattutto per scolpirlo, scavarlo nella roccia o nel legno, affinché il ricordo non finisca, come sempre accade sotto l’azione dello scorrere del tempo, per affievolirsi o peggio,  svanire.

In mezzo a questo clima, al solito sempre molto composto, fanno anche capolino un paio di episodi, While I Can ed Husk, che rappresentano due anomalie all’interno del corpus del nostro, in quanto sembrano quasi, specialmente per la presenza di una sezione ritmica ed una chitarra sonante, in ambiente pseudo pop.

Tuttavia questo Monument è un gran disco, come grande è il suo autore, che ancora una volta si mette a nudo, senza pudore e senza imbarazzi, e lungo queste undici tracce riporta i sentimenti più puri e sinceri al centro della scena, come lui e pochi altri sanno fare. Probabilmente mancano i picchi, più musicali che emotivi, che costellavano il precedente Kindly Now, ma quello che scatena interiormente l’ascolto di un brano come Self Portrait oppure The Grand Old Reason è cosa per pochi. E in questo lui è probabilmente l’unico.

 

Keaton Henson

Monument

PIAS Recordings

 

Alberto Adustini

Bruce Springsteen “Letter to You” (Columbia Records, 2020)

Il ventesimo disco in studio di Bruce Springsteen è un lavoro di rara bellezza. Non ci sono molti giri di parole da poter utilizzare.
Anzi, a essere onesti lascia spiazzati un disco come questo, per onestà, per intento e perché arriva dopo una lunga parentesi intimista.
Bisogna però che io compia un paio di passi all’indietro, per giustificare sentenza e conclusione, e perché questo disco ha un peso specifico notevole.

Come nasce un disco come Letter to You? Dato per ovvio e assodato che sia utile essere Bruce Springsteen, credo che servano almeno tre elementi: avere una band da una cinquantina d’anni, una capacità di autoanalisi fuori scala e un immaginario che diventa un mondo, ormai autonomo, da raccontare. Aggiungete un paio di storie divertenti, una misteriosa chitarra italiana e tre pezzi rimasti senza una casa e forse, dico forse, abbiamo la ricetta.

Bruce è reduce da quel capolavoro di Western Stars, dopo un paio di anni di lavoro solista a Broadway. Si è rivelato ai fan nella sua versione più umana, raccontando una storia di successo e depressione, di musica e dolore, un lessico famigliare finito in musica, in una catena di album che hanno sempre lasciato trasparire il gesto genuino della mano che li ha creati: Springsteen non si è mai tirato indietro, ha narrato una vita usando il rock and roll, usando tutti i colori possibili, dai più cupi ai più chiari.
In Western Stars qualcuno ha visto il lascito amaro di un cantante ormai anziano. Ma non era altro che l’ennesima tappa di una carriera: c’è chi prende i settant’anni come un punto di arrivo e c’è chi, come lui, ne soffia settantuno e decide che non si tratta di vecchiaia, ma di responsabilità. Perché arrivare a questa tappa del cammino non dà diritto al ritiro, ma esattamente a qualcosa di opposto.

Diceva il saggio: da grandi dischi derivano grandi responsabilità.

E così imbraccia una chitarra regalatagli da un fan italiano fuori dal teatro dove andava in scena Springsteen on Broadway, lasciata in salotto per qualche mese, quasi dimenticata. La magia a volte esiste: in pochi giorni compone gran parte dei pezzi del disco, raduna la band e in cinque giorni di sala incide il disco.

Io riesco perfettamente a immaginarli: lui e la E Street Band funzionano un po’ come il primo giorno di vacanza, quando torni al mare e rivedi gli amici dopo un anno di lontananza. C’è un po’ di imbarazzo, un po’ di ruggine, ma dura poco. Del resto, cosa può andar male? Siamo nel 2020, nel bel mezzo di una pandemia globale, al potere sono saliti i nazisti dell’Illinois, il loro capo è un suprematista bianco negazionista, torneremo in tour nel duemilamai, e quindi and one two three four…

Vorrei sapere se fuori degli studi di casa Springsteen, dove è nato questo disco, è incisa a fuoco la frase di Pete Townshend “il rock non eliminerà i tuoi problemi, ma ti permetterà di ballarci sopra”. Il mood è quello. 

In una recente intervista Springsteen ha dichiarato che il disco fondamentalmente racconta ciò che ha imparato tra i diciassette e i settant’anni. Alla faccia del dono della sintesi.
E Letter To You in effetti è denso e maturo. Quasi saggio, mi si passi.
È una mappa che Springsteen ci lascia, disseminata di indizi e topoi della sua storia. Il vocabolario è un faro, con parole che sono orme della sua carriera: ci sono treni, sangue, cicatrici, prigioni, chitarre, eroi e antieroi. Veniamo riportati ai confini della città, dove scorre un fiume. È un gioco di citazioni continue, è un immaginario che viene rievocato in una lunga lettera scritta da un uomo a milioni di fans. 

Ma è anche una lunga riflessione sul passato e su ciò che abbiamo lasciato per strada, soprattutto sulle persone che non ci sono più, a partire da George Theiss, fondatore dei The Castiles, qui evocato più volte e vero ispiratore del pezzo Ghosts, dove la parola “alive” diventa la chiave per chiudere un cerchio: in Radio Nowhere si chiedeva se ci fosse qualcuno di vivo là fuori (“Is there anybody alive out there?”), in We Are Alive, pezzo di Wrecking Ball, si ballava solo per il fatto di essere vivi e lo si faceva tra spiriti e lapidi, tra fantasmi e desiderio di rinascere. Qui l’essere vivi è testimonianza, è la felicità di poter fare musica insieme, è la sola possibilità di dimenticarsi i problemi e di andare laddove la musica non finisce mai, come recita House Of A Thousand Guitars, canzone-manifesto del disco.

Come dicevo, è questione di responsabilità. Gli è rimasto in mano il testimone, è l’ultimo dei sopravvissuti del suo primo gruppo, sente il bisogno di portare avanti il sacro messaggio del rock and roll. In fondo, ci ricorda, è The Last Man Standing.

Il ricordo diventa citazione per Clarence Clemons nella prima traccia, One Minute You’re Here, dove si evoca il bridge di Tenth Avenue Freeze Out. E poi Dylan, tanto Bob Dylan, che come un’ombra aleggia in tutto il disco: in If I Was The Priest, canzone che convinse un certo John Hammond a scritturare Springsteen, dopo aver lanciato Dylan. E il menestrello di Duluth è sempre stato il suo doppio e la sua croce, fin dagli esordi, in cui Springsteen dovette liberarsi della sua ombra e dimostrare di non essere il nuovo Dylan. Qui però lo si stuzzica, ad esempio in Janey Needs A Shooter, dove l’intro di organo ricorda Like A Rolling Stones o nella traccia che chiude il disco, I’ll See You In My Dreams, dove si cita testualmente Dylan nel ritornello: “Death is not the end”. 

Letter To You è un album sincero. Registrato al ritmo di tre canzoni al giorno, praticamente live in sala di incisione, senza demo, con pochissime sovraincisioni. È la E Street Band al cubo, sempre più perfetta nei suoi meccanismi e nelle sue dinamiche. 

Insomma, lettera recapitata, Bruce.
Per ora possiamo solo rileggerla e impararla a memoria. Possiamo solo vederci nei sogni, così come da chiusa del disco, in attesa di poter cantare tutto questo, cantare DI tutto questo, spalla a spalla, ancora una volta. 

Stay hard, stay hungry, stay alive. 

 

Bruce Springsteen

Letter to You

Columbia Records

 

Andrea Riscossa

Lucio Leoni “Dove Sei Pt.2” (Blackcandy Produzioni, 2020)

Dove Sei è qui e adesso. 

Il 15 ottobre 2020 è uscito Dove Sei Pt.2 di Lucio Leoni per Lapidarie Incisioni e Blackcandy Produzioni. Con questo album l’artista romano conclude il suo terzo progetto discografico presentato in due parti, la prima uscita lo scorso maggio. Il lavoro abbraccia temi intimi ed emozioni globali e questa recensione si rifà alle immagini che appaiono nella mia mente durante l’ascolto. 

L’album si apre con L’archivio segreto di Galileo, un inno all’amore universale, quello del “non pensare troppo” ma ama e basta. “Facciamo un gioco e chi ride per primo ci giochiamo un bacio”, un bacio che prende la rincorsa spalancando il ritornello a una danza libera e scatenata. Il passaggio musicale dalla quiete ai ritmi ska è un’esplosione. I fiati finali sono inaspettati e ricordano qualcosa di magico, come quando sei a teatro in trepida attesa e gli strumentisti stanno accordando. 

Casa ti riporta alla realtà, è come uno schiaffo e ti avverte di quanto dimentichi in fretta l’energia dei sentimenti passati; di quanto, con il tempo, svanisca la profondità delle sensazioni. Casa è un posto in cui vuoi creare quelle emozioni, casa è dove vuoi. Ma “Dov’è dove vuoi? Dov’è casa?”. E se non riesci a rispondere, che sia a una persona o che sia al mare, tu dì solamente: “portami dove vuoi, portami a casa”.

A volte però a casa non ti senti sicuro, Francesca ce lo dimostra. Questo brano è una lettera di una moglie angosciata, spaventata: “Partiamo che ci sono gli avvoltoi e che qui c’è una congiura, partiamo che se non lo facciamo poi ci viene paura.” Nel pezzo, i fiati sembrano urla strazianti che ti squarciano l’anima e ti costringono a sentire.

Questa canzone è la lettera mai scritta da Francesca Morvillo al marito Giovanni Falcone.

Proprio delle partenze parla Autodifesa, quelle che ti fanno dire “basta, mollo tutto”. Ma quanto è vera questa affermazione? “Quanto cambia il contesto quando tu resti uguale”? Autodifesa ti induce a riflettere sulla necessità di provare qualcosa.

Questo viaggio nei sentimenti prosegue e Quasi Mi Spaventa l’intimità di questo brano che ti permette di concentrarti sul testo e sulle sensazioni trasmesse dal canto a volte sussurrato di Lucio Leoni. In risposta alla sua voce, si intervallano suoni che ricordano tuoni lontani e “se si apre il cielo ci viene voglia di ballare un tango”. Una canzone che parla dei rapporti con confidenza e per immagini.

La familiarità delle emozioni descritte dall’artista viene rafforzata in Per Sempre, una dedica al tempo, allo spazio e alle persone. Durante la pandemia, questa canzone sembra rappresentare un pensiero universale. La mancanza delle giornate passate con gli amici ci angoscia e ci addolora ma il ricordo di quei momenti felici sovrasta la tristezza, ci abbraccia e ci rassicura “come in macchina quando freno però ti metto un braccio davanti”.

E infine, un susseguirsi di immagini difficili da rincorrere. Nastro Magnetico in collaborazione con i Mokadelic è una sceneggiatura che Lucio Leoni racconta, recita. Ti spiega tutto ma non ti spiega niente. Ti ritrovi più confuso del momento in cui pensavi di non aver capito nulla. Il brano però ti ha ipnotizzano già dal principio, quando ti è sembrato di sentire il canto di una sirena. Ed è questa la forza del pezzo: ti incuriosisce e ti porta ad ascoltarlo più volte. 

In questo periodo storico complesso, Dove Sei è un progetto che ti fa riflettere. I suoni, le parole, le immagini e le doppie voci che ricorrono per tutto l’album, ti stringono e ti fanno capire che non sei solo, sei Dove Sei.

 

Lucio Leoni

Dove Sei Pt.2

Lapidarie Incisioni / Blackcandy Produzioni

 

Cecilia Guerra

An Early Bird “Echoes of Unspoken Words” (Artist First, 2020)

In punta di piedi

 

Un titolo che è un paradosso e undici tracce che, guidate da un’onnipresente chitarra e una voce calda, esplorano una terra di mezzo tra il folk, il pop e l’indie: così si presenta Echoes of Unspoken Words, il secondo album di An Early Bird, al secolo Stefano De Stefano. 

Le protagoniste sono quindi le parole non dette, quelle più intime e silenziose, ma che spesso e volentieri pesano più di tutte. Ad ogni modo, in questo disco trovano finalmente la forza di emergere grazie all’incontro armonioso e ben congegnato tra chitarre e sintetizzatori, tra acustico e non. 

Echoes of Unspoken Words è un susseguirsi di immagini e toni malinconici, nostalgici ma anche “cinematografici” — se così vogliamo dire — perché ogni canzone potrebbe tranquillamente essere inserita nei titoli di testa o di coda di un film di Greta Gerwig. Non a caso, anche i video che accompagnano i cinque singoli pubblicati dal cantautore in questi mesi, da State Of Play a One Kiss Broke The Promise, raccontano una storia ben studiata e sanno davvero tanto di cinema indie.

Ma, come già è stato detto, è proprio il paradosso, quello già anticipato dal titolo e declinato con varie sfaccettature, ad essere il filo conduttore tra i vari pezzi. 

Abbiamo il guardarsi un po’ masochisticamente da lontano ma senza cercarsi fisicamente in From Afar, la necessità unita alla difficoltà di stabilire una connessione con l’altro in Racing Hearts, il desiderio destinato a rimanere irrealizzato di poter cambiare il passato in Talk To Strangers, in collaborazione con Old Fashioned Lover Boy, o ancora un “heaven in hell”, un paradiso all’inferno in Stay, simbolo che anche nel male c’è qualcosa di buono. Tutte queste piccole, umane e spesso dolorose contraddizioni si dipanano sulle corde di una chitarra e colpiscono chi ascolta nel modo più delicato e dolce possibile. 

Echoes Of Unspoken Words è quindi sì un album onesto, ma che arriva in punta di piedi e ti rimane accanto. 

Ed è una fortuna che sia uscito proprio in questo periodo dell’anno: un’ottima colonna sonora per prendersi del tempo per riflettere su se stessi, magari in una giornata di pioggia autunnale.

Oppure, se preferite, per immaginarsi come i protagonisti di un indie movie di Greta Gerwig.

 

An Early Bird

Echoes Of Unspoken Words

Artist First

 

Francesca Di Salvatore

 

IDLES “Ultra Mono” (Partisan Records, 2020)

Quale è l’atto più rivoluzionario per contrastare l’odio?

La risposta più ovvia è l’amore. 

Odio genera odio, una spirale autodistruttiva per l’animo umano.

Nelle menti neanderthaliane il romanticismo è noioso, scontato; sentimenti come l’amore, la gentilezza e la delicatezza sono fuori moda. Chi vince è sempre chi ama di meno, e la scelta più punk che possiamo fare è provare e dimostrare amore. 

Distruggendo gli stereotipi più comuni attraverso la loro personalissima visione ed interpretazione del punk, gli Idles, controverso gruppo proveniente da Bristol, ci presentano il loro nuovo album Ultra Mono, anticipato da vari potentissimi singoli, che girano sul web da vari mesi.

La band rifiuta l’idea di essere etichettata in un genere unico, tanto che si definiscono heavy post punk. Esordiscono nel 2009 e dopo un lungo processo di auto-definizione e ricerca del proprio sé ci regalano questo album. Un lavoro complesso, dove la rabbia di Joe Talbot  verso le problematiche del mondo moderno esplode in testi poetici incazzosi, accompagnato da strumenti indemoniati. L’accento tipico inglese conferisce ai brani quell’aura di eleganza, distrutta da chitarre pesantissime, batterie pestate a sangue e bassi profondi. La loro unicità stilistica ed emotiva è un diamante grezzo nel panorama musicale moderno.

Gli Idles sono come grassi lottatori di sumo che atterrano sulle tematiche più scottanti della nostra società, frantumando ogni pregiudizio, ogni forma di odio razziale o di genere, portando un messaggio di amore e pace in una maniera assolutamente non banale.

“Black is Beautiful” urla Talbot in Grounds, spezzando le reni al razzismo, tema ripreso anche in Model Village, brano iconico, dove si scagliano contro la mascolinità tossica, questo senso errato di ricerca di una vita perfetta in linea con i canoni della società. Qui ci esortano a prendere il volo, inteso non tanto in senso fisico ma come distaccamento mentale verso questi obsoleti stereotipi sociali.

Ci inducono a lottare, non come scelta ma come necessità contro le avversità della vita in War, utilizzando ritmiche spartane e chitarre distorte, tentando di riportare la musica a quello che è, ossia un mezzo comunicativo reale, sincero, dove non conta l’intonazione e la perfetta esecuzione dei brani, quanto il messaggio contenuto nei testi. 

Il suono intenso della chitarra nell’introduzione di A Hymm, alla quale si aggiunge la voce profonda di Joe che sussurra “I want to be loved, everybody does” trasforma il pezzo in qualcosa di introspettivo, di quel bisogno di essere amati che risiede in ognuno di noi, che molto spesso viene rinnegato per la vergogna o per la paura di essere rifiutati. Un brano che porta in alto la libertà dei sentimenti.

La loro poetica romantica dai toni bruschi è dimostrata anche in The Lover, manifesto del loro heavy post punk (“Fuck You, I Am A Lover”), dove distruggono questa moderna ondata di disfunzione emotiva, rigenerando il concetto di amore.

L’armonia caotica è destabilizzata dai 30 secondi di pianoforte dell’intro di Kill Them With Kindness, dove l’intento di Joe è proprio rompere ogni regola, utilizzando la gentilezza per portare scompiglio. 

L’intenzione è di abbattere tutti i tipi di cliché, in Mr. Motivator, donandoci quella carica positiva di cui abbiamo tutti fortemente bisogno.

Adrenalina, Libertà e Contenuti Profondi.

Una band controversa, reale, viscerale, romantica. 

Gli antieroi di cui avevamo fortemente bisogno. Tutto l’album sembra dire chi se ne frega della perfezione musicale, l’importante è il messaggio che vogliamo mandare.

Prendetevi ‘sto casino e fatene quel che volete.

 

IDLES

Ultra Mono

Partisan Records

 

Marta Annesi

Nirvana ”Nevermind”: Riflessioni da Anniversario

24.01.1991

Esce Nevermind, secondo album dei Nirvana.

Però, questa volta, andiamo sul personale.
Il 1991 è stato l’anno di Gish, di Ten, di Spiderland, di Nevermind.
È stato l’anno in cui sono entrato in un liceo, e per la prima volta in vita mia mi sono sentito sperso. Di colpo condividevo spazi con ragazzi che mi sembravano adulti, avevo accesso all’improvviso a un mondo a me ancora sconosciuto, fatto di tribù, di riti iniziatici, di codici, di divise.
Fedele alla (mia) linea “fatti i cazzi tuoi”, in un basso profilo esplorativo figlio della mia devozione per Jacques Cousteau, mi lanciai nell’esplorazione della fauna locale, alla ricerca di un’appartenenza che mi concedesse l’accesso a riti magici e conoscenze superiori.
MTV e un walkman Sony con cuffie a spugnetta erano le mie chiavi, un primo argomento con cui cercare i miei simili in quel mare di giacche e scarpe tutte uguali.
La cassetta di Nevermind fu l’inizio. Mi venne regalata copia artigianale con titoli scritti a caso, ma fu il contenuto a folgorarmi, un nuovo e aggiornato San Paolo, folgorato su corso Damasco. Mi ritrovai davanti all’inizio, al primo capitolo di una storia fatta di gruppi, di musicisti, di ragazzi che cantavano il lato debole della loro vita, una consapevole esposizione del loro lato oscuro, del loro essere fuori tempo e luogo. Era un’adolescenza protratta nel tempo, forse un pelo elaborata, ma finalmente raccontata per quello che spesso sembrava: una merda.
Fu la magia degli anni novanta: una generazione di artisti che non ebbe alcuna paura a raccontare in musica le ansie e le paure dei propri coetanei, che delle hair bands di fine anni ottanta presero davvero poco (anzi, a volte se le diedero proprio), che ostentarono con fierezza il loro essere deboli, sfigati, sensibili, feriti, umani. Ci siamo riappropriati il diritto di non essere cotonati e felici, rompendo lo specchio dei narcisissimi anni ottanta in cui ci siamo specchiati privandoci della visione periferica.
Per un quattordicenne fu totale e indefessa identificazione. Era un S-I-P-U-O’-F-A-R-E urlato al cielo da una generazione che, non era più la caricatura di se stessa.

Nevermind puzzava di palestra ogni volta che MTV passava il video di Smell Like Teen Spirit.
Nevermind era subacqueo come certe serate in cui affogavi in parole e risate e vino. 

Nevermind era lo stato d’animo giusto al momento giusto perché dentro di sé aveva lo spettro completo delle tue emozioni, era un prontuario per l’adolescenza, era testo sacro da sapere a memoria.
Nevermind era argomento utile a dividere il mondo tra chi ascoltava – ancora – i Guns e chi li avrebbe sepolti l’anno successivo, allo stadio, con l’aiuto di Cornell e Patton.
E il 1991 diventò l’anno degli Smashing  Pumpkins, dei Pearl Jam, dei Temple of The Dog, dei Nirvana, dei Red Hot Chili Peppers, dei R.E.M, e chissà cos’altro che ora non ricordo.

Quel disco è perfetto. Ha scorci incredibili. Quando le cuffiette del walkman salivano, regalando al mondo 49 minuti di mia assenza, i Nirvana sembravano essere in sei. C’era la batteria che suonava, non accompagnava, suonava proprio, la chitarra faceva anche i cori, dissonava, dissentiva. E sotto Novoselic ciondolava rimbalzando.
Nevermind appartiene alla categoria “unskippable”, saltare un brano sarebbe uno sgarbo agli dei, una ὕβϱις, degna di prometeiche punizioni, come essere incatenati per l’eternità a una roccia, accompagnati fino alla fine del tempo da una playlist di B-side dei Nickelback.

Ah, dimenticavo.
Un segreto: per me Nevermind si rivela, scopre le sue carte, insomma ti lancia quello sguardo che non puoi non capire in un punto preciso: sta tra la fine di Territorial Pissings e l’inizio di Drain You. La prima finisce in tragedia: Cobain perde la voce, Grohl è stato denunciato dalla batteria per maltrattamenti, insomma, dopo due minuti e ventidue di disperata e paranoide ricerca siamo alle urla, allo sguardo annebbiato, si sentono solo più un paio di calli sulle corde della chitarra. Un secondo di silenzio per sentire meglio lo schiaffone appena preso e inizia Drain You. Lì, in quella pausa, in quell’attimo alberga lo spirito del disco. Ci trovo il suo gusto, ci ritrovo i miei anni novanta.

 

Andrea Riscossa

Quiet Is the New Loud “Hidden Code” (Self Released, 2020)

Dieci tracce, sessanta minuti e un’unica storia che si srotola nell’arco di 46 anni, dal 1945 al 1991, ma è la parte centrale, ambientata nella San Francisco degli anni ’60 ad esserne il cuore pulsante. Così si presenta Hidden Code, il primo album della band triestina post-rock Quiet Is the New Loud. 

Un progetto rock strumentale decisamente interessante e fuori dagli schemi della discografia contemporanea, dove il singolo rapido tende a vincere sul disco e i concept album, che richiedono una certa attenzione e lentezza, sono sempre più rari. Al contrario, qui non c’è solo una storia da seguire – un vero e proprio noir che ruota attorno a quei cardini della vita che sono amore e morte – ma si potrebbe dire addirittura da ricostruire. L’ascoltatore deve così rimettere insieme i pezzi, prestando soprattutto attenzione ai numerosi salti temporali, e in questo modo diventa una parte attiva dell’album. Certo, nulla vieta di ascoltare Hidden Code come un semplice disco di rock strumentale, per rilassarsi o per caricarsi a seconda dei vostri gusti, ma così si rimarrebbe solo sulla superficie di questo lavoro. 

Ogni canzone infatti è collegata ad un pezzo del noir e queste didascalie sono leggibili sia sul sito Bandcamp sia presenti fisicamente nel packaging dell’album, che diventa quindi fondamentale per comprendere appieno la narrazione dietro a questo lavoro. O forse dietro non è la parola più esatta, dato che storia e musica si compenetrano, sono indissolubili e inscindibili l’una dall’altra: una vera e propria soundtrack che scandisce i vari avvenimenti nella vita dei due protagonisti. 

Ed è una soundtrack decisamente rock, che alterna momenti di quiete come l’inizio di Mistakes, Lights and Breaths ad altri che sono vere e proprie esplosioni di suoni, come il finale di Like A Daydream or a Fever, o ancora quel climax musicale che è Nemesys, che rappresenta un po’ un punto di svolta per il che questa band triestina ha voluto raccontare. 

Tensione, angoscia, amore, desiderio di vendetta: tutte queste sensazioni viaggiano, senza quasi mai proferire parola, tra chitarra, basso e batteria. Però, ad un ascolto più attento, prendono forma e diventano visibili come una fotografia, seppur mentale. Hidden Code si potrebbe così definire un album sinestetico, dove la musica non si esprime mai attraverso le parole, ma solo tramite i suoni e anche – o forse soprattutto – per immagini. 

Un lavoro difficile da realizzare, ma decisamente ben riuscito. 

 

Quiet is the new Loud

Hidden Code

Self released, 2020

 

Francesca Di Salvatore

Movements “No Good Left to Give” (Fearless Records, 2020)

Il buio in mezzo al tunnel

 

Partiamo subito con una confessione: non appena questo gruppo californiano aveva annunciato l’uscita del loro secondo album, a distanza di tre anni dal loro primo LP Feel Something, la prima cosa a cui avevo pensato era stata che forse quest’anno sempre più simile al remake di Una Serie di Sfortunati Eventi avrebbe avuto una colonna sonora quanto meno appropriata.

Ovviamente in senso buono.

Già, perché se c’è una cosa che i Movements sanno fare bene – e lo avevano già dimostrato con il loro album di debutto – è parlare di tutti quegli argomenti decisamente poco piacevoli ma contro cui, volenti o nolenti, questo 2020 ha contribuito a farci scontrare e non sempre nel modo in cui eravamo abituati: la malattia, la perdita, la salute mentale, le difficoltà nelle relazioni. 

Lo fanno con un sound ruvido e dei ritmi quasi ossessivi, di matrice primi anni duemila e che ricordano band come i Mayday Parade o i Good Charlotte. 

No Good Left To Give inizia con In My Blood, canzone dai toni che sulle prime sembrano quasi sommessi, per poi esplodere verso la fine e lasciar intendere che anche questo album sarà crudo, graffiante e forse ancora più intenso del primo. In generale, il mood del disco può essere sintetizzato bene dalla quarta traccia, Tunnel Vision, una metafora visiva della depressione dove il cantante ammette di essere “angry and tired”, arrabbiato e stanco. 

Sono proprio loro le due sensazioni predominanti, rabbia e stanchezza. Sono loro che accompagnano l’ascoltatore lungo tutte le 12 canzoni, in un tentativo di mettere su traccia audio cosa significa e cosa si prova quando si ha a che fare direttamente o indirettamente con problemi di salute mentale. 

Non a caso, il singolo Don’t Give Up Your Ghost capovolge il punto di vista: chi canta è già passato attraverso il tunnel delle tendenze suicida e cerca di mostrare supporto e comprensione a chi invece ci sta passando in quel momento. “But there’s a beauty I believe you can find/Under the grief, under the compromise”, canta Patrick Miranda in una strofa. È forse uno dei pochi momenti di luce in un album che invece non ha paura di attraversare posti parecchio bui, ma forse questo si poteva capire già dal titolo. 

No Good Left To Give. Non è rimasto niente di buono da dare. 

Però forse non del tutto vero. 

È rimasta la musica e quella, per fortuna per noi che ascoltiamo, è ancora decisamente qualcosa di buono. 

 

Movements

No Good Left To Give

Fearless Records

 

Francesca Di Salvatore

Tricky “Fall to Pieces” (False Idols/!K7, 2020)

Come reagire al dolore

 

Dentro ognuno di noi c’è un’energia vitale che ci spinge verso la realizzazione dei nostri sogni.

Ma che succede quando questa fonte inesauribile di idee e concetti è messa a dura prova? Il dolore sembra spegnerci, risucchiando in un vortice oscuro tutto ciò che era luce.

In tale stato di cose è difficile pensare, creare, tutto è piatto e grigio, monotono. Non siamo in grado di rialzarci e ci crogioliamo nell’apatia.

In questi casi abbiamo bisogno di un mentore, qualcuno che ci indichi la via giusta per risalire dal dirupo. Qualcuno che ci insegni come incanalare questa energia distruttiva verso qualcosa di costruttivo.

Ed ecco il significato che si nasconde dietro Fall To Pieces, il nuovo album di Tricky, che da trent’anni ci delizia con il suo stile stratificato, complesso, che racchiude trip hop, elettronica, indie e rock, caratterizzato da una cupa malinconia.

Ha impiegato tutta la forza, la sua energia in questo disco, dopo la tragica perdita di sua figlia. La vita per il cantante e produttore di Bristol, non è mai stata una passeggiata. Cresciuto nei quartieri disastrati, ha subito la perdita della madre a soli 4 anni, è stato salvato proprio dalla musica. E il suo ringraziamento alla Dea è tutto in questo disco.

In un momento così catartico, dove stava pensando di lasciar perdere ogni cosa ha tirato fuori gli attributi ed è riuscito a realizzare un’album spaziale, complicato ed elaborato, grazie alla partecipazione di Marta Złakowska, cantante polacca scoperta nel suo ultimo tour, quando, essendo rimasto senza voce femminile, ha colto il talento di questa ragazza.

L’album è composto di pezzi dalla durata varia, con cambi repentini sia a livello stilistico che emotivo. Rappresenta un viaggio a tappe verso l’accettazione del lutto, dove il dolore è palpabile, ma c’è anche tanta voglia di lottare per rialzarsi.

L’album è annunciato da Fall Please, risultato di un mix stilistico in cui la voce di Marta si muove sinuosa su una base ritmata composta da percussioni unite all’elettronica, un pezzo che ti fa alzare il culo e scatenare, e fa respirare l’aria dei club londinesi, riuscendo a spegnere la rete neurale.

La vera anima trip hop di Tricky prende il sopravvento in Take Me Shopping, brano più lento, cupo e mentale: ci obbliga a riaccendere il cervello con un testo straziante, disperato reportage di un’apatia lancinante, dove lo stile di canto profondo e riflessivo si fonde con la voce di Marta, morbida e aggraziata.

Hate This Pain sono 3 minuti e 24 secondi di inconsolabile sconforto: questo pezzo ci conduce in lande desolate sferzate da venti gelidi che, straziando l’anima dell’ascoltatore grazie all’accompagnamento di un pianoforte malinconico e alla ripetizione cadenzata della frase “I hate this fucking pain”, racchiude tutto il dolore provato dal lutto.

Con uno stacco pauroso veniamo gettati in Chills to the Bones (che già solo il titolo “freddo fino alle ossa” ci fa intendere la profondità del brano) che presenta un’intro molto stile Prodigy, proseguendo con un flow R&B.

Per sottolineare quanto questo disco sia frutto di un’elaborazione del dolore e una conseguente voglia di rinascere, troviamo Like a Stone, uno dei pezzi più introspettivi dove Tricky spalanca la porta della sua parte più intima, attraverso una base coinvolgente drum’n’bass, molto stile Massive Attack. Quando la canzone si arresta violentemente, possiamo entrare in punta di piedi in Throws Me Around, la cui base riproduce, attraverso il suono del tamburo di una batteria, i battiti cardiaci, quasi a ricordarci che nonostante ogni avversità il cuore è ancora lì, ed è vivo.

La camaleontica personalità di Tricky che gli permette di produrre strutture musicali diversificate emerge indubbiamente in Vietnam, pezzo caratterizzato da schitarrate lunghe e riecheggianti, contestualizzate dalla perfetta simbiosi delle voci: due minuti e mezzo di pura malinconia.

Questo album racchiude tutta la forza, la disperazione, la caparbietà di un artista che dopo trent’anni continua a spaccare i culi, nonostante la perdita subita. Come Tricky stesso asserisce “You’ve gotta fucking get up and fight. Right now I’m in fight mode. And I feel really good. I do.”

 

Tricky

Fall to Pieces

False Idols/!K7

 

Marta Annesi

Sarah Walk “Another Me” (One Little Independent Records, 2020)

Nothing’s hurt me more than men that grew up with no consequences.
La padrona di casa ci accoglie con queste parole, dopo poche note, nella prima traccia di questo album.
Il primo ascolto avviene in preda a un lieve senso di colpa per genere, orientamento, storia personale e situazione endocrina.
Poi un’immagine, di mia figlia nella vasca, cinque anni, capelli raccolti, luce da tramonto, mi riappacifica col mondo e con questo album. Perché, alla fine, noi maschietti viviamo un enorme conflitto interno, fatto di sensibilità soffocate vs. celodurismo istituzionale, di poetica interna vs. gara di rutti. A volte neanche noi ci sopportiamo, solo non siamo capaci di cantarlo così bene.

Sarah Walk aveva piacevolmente stupito la critica con il suo primo album, Little Black Book, nel 2017. Un disco fatto di pianoforte, testi profondi e una voce notevole.
Questo Another Me è frutto di una nuova produzione, affidata a Leo Abrahams, musicista, autore e produttore britannico, che vanta collaborazioni con Regina Spektor ed Editors, Paolo Nutini e Brian Eno.
Ma delle piano ballads del primo lavoro qui rimane poco. I brani sono sorretti da sezioni ritmiche più sytnh pop, arricchendo il ritmo interno dell’album, e i movimenti all’interno delle singole canzoni giocano con le saturazioni, di strumenti, di voce.
E proprio voce di Sarah merita una menzione a parte. Così come la sua estensione vocale, che soprattutto nei bassi lascia piacevolmente sorpresi gli ascoltatori. Ecco, avete presente quelle presunte cantanti, con trucco da Casa nella Prateria e ukulele in mano, sguardo verso l’alto a destra e sequenza di sussurri e ultrasuoni con distruzione programmatica di un qualsivoglia pezzo intimista? Bene, la nostra Walk è la loro nemesi, per uso del diaframma, per aria tra le corde vocali, per vocabolario, intenzione e obbiettivo finale. È un album che viene cantato, non sussurrato, e a gran voce si trattano temi come la misoginia, vulnerabilità, l’autodeterminazione, la definizione di se stessi.
È un album crepuscolare, per ritmi ma soprattutto per la sospensione in cui galleggia: è una continua riflessione sulle azioni, quindi sull’essere, in attesa di una risposta o di una conseguenza. È un album sulla terza legge della dinamica femminile, che analizza il personalissimo segmento che unisce azione e reazione, causa ed effetto. 
La cantante stessa spiega:

Con questo album, vorrei sottolineare che ci sono molte cose che le donne sentono e sperimentano al di fuori delle relazioni romantiche. Ci sentiamo in colpa quando diciamo no, ci assumiamo responsabilità anche quando non dovremmo, ci scusiamo anche se non abbiamo fatto nulla di male. Queste sono tutte situazioni che sto cercando di disimparare. Questo è un album sull’emarginazione, sull’essere donna, sull’imparare a stabilire i confini senza scuse, e senza sentirsi in colpa per questo. Imparare ad amare del tutto senza aspettative.

Another Me è un bellissimo flusso di coscienza, un monologo interiore a voce alta, personale ma universale, lirico a volte, mai barocco.
Ci sono dubbi e interrogativi in questo album, che riescono ad arrivare anche a noi maschiacci, senza sforzi eccessivi, anche se spesso abbiamo evitato le conseguenze.
E alla fine dell’album avrete quella stessa sensazione di quando, a fine serata, dopo qualche pinta, vi accorgerete di aver ascoltato una persona di valore, che non è mai cosa scontata.

 

Sarah Walk

Another Me

One Little Independent Records/Audioglobe

 

Andrea Riscossa

Fontaines D.C. “A Hero’s Death” (Partisan Records, 2020)

Post Punk, Poesia e Spontaneità

 

Un tizio con una camicia british.

Un viso pulito da ragazzo della porta accanto.

Un paesaggio marittimo, molto malinconico.

Poi l’attacco.

“Life ain’t always empty”, ripetuta per svariate volte.

Questo l’inizio del video (registrato a distanza poi assemblato) di A Hero’s Death, brano che dà il nome al nuovo lavoro dei Fontaines D.C..

Un mantra vitale, con la voce chiara e malinconica (e la poesia) di Grian Chatten che ci spinge a buttarci nella vita, senza rimandare a domani. Disintossicarci da un passato per riuscire a vivere nella sincerità ci porterà alla vera felicità.

Questo il manifesto del gruppo. 

La sincerità e la vitalità. Il loro intento di non piegarsi al rock moderno commerciale, ma di appagare il loro bisogno di esprimere emozioni e sentimenti in linea con l’ideologia post-punk e retro nostalgica.

Nel 2017 esplode il fenomeno Fointanes D.C., dall’Irlanda esportano la loro visione musicale incentrando il loro primo lavoro sulla realtà di downtown Dublino.

In questo nuovo album troviamo una ricerca più attenta alla comunicazione, un’urgenza comunicativa. Paura del futuro, speranza e disillusione si confondono tra i vari brani dell’album, portando dell’ascoltatore un tumulto di emozioni.

I Don’t Belong, si apre con riff di chitarra molto reali, accompagnati dall’entrata a scaglioni del basso e della batteria, per testimoniare la paura del futuro, la voglia di autonomia e la speranza (o il desiderio) di non essere catalogati, inglobati in una società che non li rispecchia.

Musicalmente influenzati da vari generi e da vari artisti, riescono a creare la loro visione di musica generando brani molto diversi tra loro, sia in sonorità che nei testi.

Il poeta-cantante si focalizza su temi moderni come in Televised Mind, dall’intro post punk con un potente giro di basso, dove mette in guardia l’ascoltatore dal pericolo della TV e della commercializzazione della vita degli artisti. Non ha bisogno di urlare per esprimere la sua contrarietà verso i social media moderni, il suo modo di esprimersi è disilluso, quasi nostalgico, come in Love Is The Main Thing, dove sembra stia ripetendo solo un vecchio slogan in cui nessuno crede più. Più che un’affermazione si tramuta in domanda, graffiante e dolorosa grazie al talento dei musicisti, dal basso alla batteria passando per le chitarre così finemente distorte. 

Il disagio esistenziale contagia Oh Such A Spring, che racconta una giovinezza scivolata via troppo presto. You Said, quinto pezzo dell’album richiama le sonorità dei Sonic Youth, cantati da Liam Gallagher.

La vera natura di questo gruppo la troviamo in Living in America, chitarre su di giri, e un cantato profondo, basso, tonalità che strisciano sotto pelle fino a far vibrare l’anima.

L’emotività profonda in Sunny e No, ultimi due brani dell’album, pezzi capaci di strappare quel che resta della nostra benamata anima.

Il loro lavoro è davvero ottimo, ogni brano ha vita propria, sonorità che richiamano svariati stili ed artisti (dai Sonic Youth, al malessere dei Joy Division, alla drammaticità de The Smiths, alla leggerezza de The Strokes) creando un loro personalissimo stile.

Un album utile per tante cose: pensare, piangere, scopare.

CONSIGLIATISSIMO.

 

Fontaines D.C.

A Hero’s Death

Partisan Records

 

Marta Annesi