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Tag: recensione

Alice Merton “Mint” (Paper Planes, 2019)

Si intitola Mint il primo album dell’artista tedesca Alice Merton uscito il 18 Gennaio 2019 per Paper Planes, etichetta fondata dalla stessa artista e dal suo manager, nonché migliore amico, Paul Grauwinkel.

Alice dice di lui: “Trovare il giusto produttore è come trovare un pezzo mancante di un puzzle: sai che c’è da qualche parte, ma trovarlo richiede molto tempo.” È chiaro che questa scelta aiuterà l’artista nel dare massima espressione ed indipendenza al suo lavoro.

Mint si ispira al tè alla menta che la cantante afferma di bere in questo periodo per calmare le sue paure e gli attacchi di panico, quella stessa menta che compare nell’immagine di copertina. È inoltre curioso il luogo in cui trova ispirazione per scrivere i suoi testi: tra gli scaffali dei supermercati.

L’album è composto da undici brani intimamente autobiografici tra cui i singoli No Roots, che ha raggiunto il disco di platino in sette nazioni, e Lash Out.

In 2 kids Alice Merton ripercorre l’amicizia con il suo manager, raccontando il loro rapporto attraverso gli occhi di due ragazzini meravigliati da quello che li travolge e delle paure vinte.

Nel brano funk-rock Learn to live, l’artista esprime la voglia di liberarsi da tormenti e preoccupazioni, per amare la vita e goderne appieno.

In Trouble in Paradise o Why so serious, invece, forti ritornelli e batterie incessanti invitano a vivere senza rimpianti. Perché prendersi troppo sul serio?

Questi ritmi si placano in Honeymoon heartbreak e nel blues Speak your mind.

La voce di Alice, inebriante, arriva al cuore della gente, invita a riflettere e lo comunica con un tono ribelle, con la grinta e la tenacia di una ragazza di 25 anni. I groove inarrestabili di basso donano un fremito a chi si presta ad ascoltare Mint. Per i 35 minuti di ascolto i problemi che toccano le nostre vite vengono accantonati lasciando libera la mente, e come il tè alla menta terapeutico alla cantante, il disco riesce perfettamente nel suo intento.

La parola chiave che emerge nei testi è la speranza: bisogna saper ascoltare oltre che assecondare le nostre sensazioni e queste doti che Alice Merton le esprime nei suoi brani con eleganza regalandoci un piacevole ascolto.

 

Alice Merton

Mint

Paper Planes

 

Silvia Consiglio

Le stagioni degli American Authors

Il 1 febbraio è uscito Seasons, il terzo album degli American Authors.

Con questo nuovo lavoro la band, capitanata da Zac Barnett, si discosta notevolmente dalle sue opere precedenti: eravamo abituati a canzoni ritmate dalle sonorità rock-folk, con banjo e mandolini di accompagnamento, ma questa volta i newyorkesi ci hanno spiazzato.

Ci presentano dieci canzoni che non solo sono un mix di stili diversi, ma la cosa che più colpisce sono i toni. Gli American Authors erano sinonimo di sonorità allegre e spesso ballabili, invece in Seasons ci troviamo ad ascoltare brani più riflessivi, a tratti cupi.

Si tratta di un cambio di rotta che era già balzato all’orecchio con i singoli che avevano anticipato l’uscita dell’album, canzoni come Deep Water, Say Amen e Neighborhood.

È come se la band stesse cercando un ritorno alla spiritualità e alla religiosità, una ricerca di valori più profondi. In Neighborhood, ad esempio, si sono avvalsi dell’aiuto di Bear Rinehart, cantante dei Needtobreathe, band dalla forte impronta cristiana; in Deep Water abbiamo l’Harlem Gospel Choir che sostiene Zac nel ritornello. 

Non mancano tuttavia le canzoni che ricordano la produzione precedente e che strizzano l’occhio ai brani che li hanno resi famosi: Can’t Stop Me Now, Bring It On Home, e soprattutto I Wanna Go Out sono quelli che più ricordano gli American Authors che ci hanno fatto cantare con brani come I’m Born To Run e Best Day of My Life. E’ qui che troviamo l’esplosione di energia e le melodie che ti catturano fin dalla prima nota, gli elementi che ci hanno fatto amare i primi due cd della band.

Ma la sperimentazione musicale dell’album non si ferma qui: abbiamo un brano quasi hip hop, Calm me down, che nonostante si discosti dal loro genere tradizionale, in Seasons trova il suo spazio ideale senza stonare o risultare fuori luogo.

Anche se personalmente non amo i brani eccessivamente cupi, credo che gli American Authors siano riusciti a trovare un equilibrio perfetto sperimentando nuovi generi e cambiando l’impronta delle loro canzoni, seppur rimanendo fedeli a se stessi: non si sono snaturati e questo è decisamente un punto a favore dell’album.

Le ultime due canzoni, Before I Go e soprattutto Real Place, sono forse due tra le più belle ballate che la band abbia mai scritto, soprattutto dal punto di vista dei testi.

Al primo ascolto forse Seasons potrebbe sembrare un po’ sotto tono rispetto ai lavori che lo hanno preceduto, ma credo che non ci si debba fermare qui. L’album è variegato, è vero, e di difficile catalogazione, ma la sperimentazione e i cambi di genere funzionano. Magari non ce ne si innamora al primo ascolto, come era successo con What We Live For, però queste canzoni riescono a catturarti e ad entrarti nel cuore.

 

American Authors

Seasons

Universal Island Records

 

Laura Losi

La musica non conosce confini: I Hate My Village, 2019

Quando il ricercatore tedesco Thomas Fritz, nel 2009, arrivò in cima alle montagne del Mandara, a nord del Camerun, aveva con sé un computer portatile, batterie solari (niente elettricità da quelle parti) e alcuni brani degli U2. Il tutto per una missione ambiziosa: dimostrare l’universalità della musica.

I Mafa, uno dei 250 gruppi etnici della zona, non avevano mai ascoltato canzoni “occidentali”, prima di allora. I ritmi, i canti erano riconducibili esclusivamente alle cerimonie rituali e alle espressioni comunicative tradizionali.

Che effetto avrebbero suscitato i grandi successi provenienti dal nostro emisfero? Risultato: reazioni identiche agli ascoltatori “occidentali” e caratterizzate dalle tre sensazioni base di felicità, paura e tristezza. A determinarle, a livello di universale, sono il ritmo e la chiave maggiore o minore dei passaggi.

Dieci anni dopo, in Italia, una band, anzi una superband tenta qualcosa di simile, a ruoli invertiti. Dall’incontro tra Fabio Rondanini, batterista di Calibro 35 e Afterhours, e Adriano Viterbini, chitarrista dei Bud Spencer Blues Explosion nascono gli I Hate My Village.

Un nome che deriva da un cannibal movie ghanese degli anni settanta. Un omonimo disco d’esordio, pubblicato lo scorso 18 gennaio per La Tempesta International, che si snoda tra atmosfere oniriche e percussioni di realtà. Naturali inclinazioni al groove e impalcature blues accompagnano le melodie protagoniste, provenienti dalla musica sahariana e subsahariana.

Se l’artwork del disco, in cui si intrecciano coccodrilli, teschi, ossa e figure demoniache, ricorda scene di violento tribalismo, durante l’ascolto delle nove tracce ci si accorge che il cannibalismo è soltanto di matrice artistica e musicale.

È chiara la volontà di nutrirsi di idee, influenze e contaminazioni di origine anche lontana (Fela Kuti, Ali Farka Tourè, Bombino, Rokia Traoré) per studiarle, attraversarle, smembrarle e ricostruirle fino a renderle proprie.

Nessun intento di fedele ripresa della tradizione africana o di pura citazione delle varie band di provenienza. Sì, perché ai piedi dell’unico totem di I Hate My Village, chiamato “esperimento”, troviamo anche Alberto Ferrari dei Verdena alla voce (qui in inglese) e Marco Fasolo, eclettico produttore e bassista per tutta la durata del tour.

L’album sembra, dunque, l’esito di una ispirata jam session, spontanea, leggera ma non fortuita. Una prova riuscita di tecnica e stile presente già in apertura con Tony Hawk of Ghana. Riff intrecciati, psichedelici, venature prog a cui la voce di Ferrari dona un effetto di scomposta tridimensionalità.

Un contributo vocale che impreziosisce anche la coinvolgente Acquaragia e i ritmi ancestrali, frenetici e affannosamente funky di Fare un fuoco: parole quasi incomprensibili, a metà tra versi di animali e segnali in codice, rievocano le scene di danze tribali e riti sciamanici.

Presentiment, del tutto strumentale, trasla di nuovo le coordinate del lontano continente nelle nostre terre. Si ha come l’impressione di trovarsi al centro di un flash mob che imperversa in un cantiere italiano tra lavoratori di origine africana. Si crea l’intersezione di suoni inconsueti, asciutti, decisi, come generati non tanto da strumenti musicali quanto da attrezzi, fusti, martelli, sirene.

Nei 24 minuti di andatura impellente, l’occasione per fermarsi e respirare è concessa da Bahum. Armonie essenziali e vibrazioni primitive si accendono su una luce chiara, sui raggi del sole incandescente che spunta all’orizzonte, nella Savana.

Il valore aggiunto dell’internazionalità gioca, inoltre, sull’arguzia, sugli errori di pronuncia e sui giochi di parole evidenti nella ballabilissima Tramp, nel lamento reiterato, malinconico, inesorabile di Fame e nel brano di chiusura I ate my village. L’equivoco che aleggia tra i verbi HATE e EAT. Odiare e mangiare.

L’incontro, l’abbraccio, il disappunto, lo scontro. Uno scontro aperto con la musica italiana, rintanata nel suo microscopico villaggio, nelle sue regole, consuetudini e polemiche. Uno scontro aperto con chi rifiuta di espandere i propri confini, artistici ed umani. Il tentativo di scongiurare, attraverso la musica, questa minaccia di chiusura, oggi più presente e preoccupante che mai.

 

TRACKLIST:

1.Tony Hawk Of Ghana
2.Presentiment
3.Acquaragia
4.Location 8
5.Tramp
6.Fare un fuoco
7.Fame
8.Bahum
9.I Ate My Village

 

La Tempesta International

 

Laura Faccenda

Kaos India “Wave” (Universal Records, 2019)

Vi sentite nostalgici?

Percepite quell’abbraccio freddo della malinconia che vi attanaglia il cuore?

Il miglior rimedio è ascoltare musica triste.

Viene in nostro aiuto Wave dei Kaos India, band modenese attiva dal 2011, etichettata come alternative rock. 

Musicalmente precisi, ci regalano un album studiato, impeccabile sotto il punto di vista musicale, con molta cura nei particolari. Le melodie trascinano in universi paralleli bloccati agli anni ‘80, chitarre determinate e cori ripetitivi la cui unica ambizione è quella di rimanere in testa.

Sembra di essere vivere in Footloose, capelli cotonati, sneakers e maglioni improbabili.

Hanno avuto a disposizione cinque anni per portare a termine il loro ultimo lavoro, dando il massimo, ed è evidente, complice anche la voce perfetta di Mattia Camurri, riescono nel loro intento di dimostrare la loro bravura come musicisti e la loro voglia di mescolare generi per creare qualcosa di personale.

In generale, i brani partono tutti benissimo nell’intro: chitarre e batterie rock, come in A Second e Burn Away, ma proseguono infarcite di questo sound anni ‘80, cori retrò e orecchiabili.

Il tema fondamentale di questo album è la perdita. In Half ci parlano di una rottura amorosa, di quella particolare situazione in cui ci sentiamo a metà, e lo specchio rimanda un’immagine distorta, opalescente, quando tutto intorno a noi si dissolve e anche i colori vengono spazzati via, lasciandoci  circondati da un alone giallastro.

Close esordisce con un’intro in crescendo, per poi spegnersi in questa ambientazione anni ‘80 che perdura in tutto l’album, ed è sulla stessa scia di demoralizzazione per un amore finito, “Change is never easy/If you can get out of the rain”, non si può guarire dalla desolazione se prima non riusciamo a rialzare la testa e gettare il passato alle spalle.

A metà album troviamo Don’t Stop, un brano che ci incita a non mollare mai, ad affrontare la vita come una scala a pioli, dove per arrivare al prossimo gradino si deve avere la forza di superare quello antecedente senza spegnersi mai, senza smettere di essere ciò che si è. “Don’t stop feeling/ Don’t stop breathing/ don’t stop thinking and wondering

Il loro lavoro è un viaggio nella tristezza. Si parte dalla disperazione per arrivare poi ad una rinascita.

Come le fenici bruciano divenendo cenere, per poi risorgere proprio da lì, l’ultimo brano Burn Away è la tappa finale di questa epopea nello sconforto. Ci vogliono comunicare che tutto nella vita è un processo di perdita/rinascita, e l’unico modo per rialzarci a testa alta è bruciare tra le fiamme di una rinnovata passione.

Nel complesso un buon album, soprattutto per la ricerca metodica e la costanza di questi ragazzi italiani. Da apprezzare sicuramente l’impegno, la precisione e la voglia di provare sonorità differenti, ma da un gruppo etichettato come “alternative” mi aspettavo più bassi distorti, assoli graffianti e batterie più incazzate. Poca innovazione, melodie già sentite, nonostante la bravura del gruppo nel riproporle. Possiamo dire che gli anni ‘80 sono finiti (e per fortuna!!), è tempo di sperimentare più duramente, uscendo anche dalla propria comfort zone, piuttosto che star a ripescare suoni da un passato che non ci rappresenta più. Meno Duran Duran, please. 

 

Kaos India

Wave

Universal Music, 2019

 

Marta Annesi

 

Quelle Undici Canzoni di Merda con la Pioggia Dentro di Giorgio Canali

Partendo dal presupposto che preferisco raccontare la musica attraverso le immagini piuttosto che a parole, ho voluto scrivere queste righe più per uno sfogo personale che per un mero esercizio di stile.

Prendete quindi ciò che segue come fosse un amico che vi racconta di quella tipa rivista da poco, che gli fa  brillare gli occhi.

Pronti? Via.

La tipa in questione è Giorgio Canali (ex CCCP, ex CSI, ex PGR per chi non fosse sul pezzo, ndr) accompagnato dalla sua band, i Rossofuoco (Luca Martelli, Marco Greco, Stewie Dal Col).

Gli ex li ho nominati per dovere di cronaca, ma ce ne possiamo tranquillamente dimenticare perché Giorgio Canali si racconta benissimo per quello che fa ora, per il presente.

Il passato è appunto passato. Se qualcuno è a corto di informazioni ed affamato le cerchi sull’internet.

Erano ben 7 anni che non usciva con un album di inediti, l’ultima uscita (Perle ai Porci, 2016) è una raccolta di cover riarrangiate.

Già il titolo del disco è un sunto di quello che verrà: Undici canzoni di merda con la pioggia dentro.

Spumeggiante!

Attenzione, non sto dicendo che ci aspettano undici brani inascoltabili, tutto l’opposto, si tratta di autoironia.

Le prime sei parole del primo brano, Radioattività recitano così: “Che ti aspetti se non nuvole”.

Praticamente la carta d’identità di Giorgio Canali, le impronte digitali, il suo DNA fatto di pessimismo autoironico, nichilismo e fastidio, consapevolezza e critica, romanticismo e saggezza.

Il ritmo a marcia e il cantato, che è in realtà quasi un parlato, introducono perfettamente il mood del disco, fatto appunto di autoconsapevolezza e autoironia, sarcasmo e cinismo.

Messaggi a Nessuno è una ballad meravigliosa , dal ritmo cullante, arpeggi di chitarra e voce tenue ma decisa, che raccontano l’ineluttabilità, il parlare al vento.

Piove, finalmente Piove alza il ritmo e il tiro, inizia a liberare il Canali cinico che auspica un altro diluvio universale, per sommergere, tutto quasi come fosse una liberazione, un sacrificarsi con dignità.

Con Estate torna per un attimo la calma e la tranquillità ma spezzate immediatamente da Emilia Parallela, il pezzo forse più duro dell’album.

Evidente richiamo a quella vena paranoica dei CCCP, il brano è uno sfogo lampante su ciò che ci circonda, in particolare sulla regione in cui vive lo stesso Canali, che poi continua a raccontarla in qualche modo nel pezzo successivo, Aria Fredda del Nord.

Fuochi supplementari è un inno autoironico agli sbagli, ai rimorsi, alle occasioni mancate, ma che immancabilmente si ripetono in loop.

Successivamente si balla con Danza della Pioggia e del Fuoco per poi ritornare aggressivi e sputa-fuoco con l’energica Mille non più di mille, una fotografia spietata della nostra società, quella italiana,

Bostik termina l’album con suoni dilatati e noise di chiusura.

 

Mi sono bastati pochi ascolti per capire che Giorgio Canali ha fatto uscire un gran bell’album in cui mischia sapientemente e senza giri di parole, politica e amore, sociale e sentimenti.

L’attitudine punk-rock spinge le chitarre distorte a mischiarsi con i ritmi serrati e poi lenti che fanno da sfondo ad una voce inconfondibile, che sa essere sia dura, ruvida e urlata, sia morbida, tenue e quasi sussurrata.

Canali vomita un sarcasmo cinico, a volte spietato, che mi ricorda quello di Giorgio Gaber in Io Se Fossi Dio.

Uno sguardo lucido e critico su ciò che ci circonda, su come siamo fatti, un accettarsi e accettare le conseguenze, una foto di questa Italia di oggi, che non cambia mai.

Perché siamo proprio noi a non voler cambiare.

 

Siddharta Mancini

 

Il mare di emozioni dei SEAWARD.

Float è il nuovo album dei Seaward, che segna il loro debutto con Platonica.

Il duo, composto da Francesco e Giulia, con questo album ci aiuta a immergerci in una serie di atmosfere che spaziano dal pop, al soul, all’r’n’b per arrivare fino all’elettronica.

La parola immergere non è stata usata a caso perché sia Float ( che letteralmente vorrebbe dire galleggiare) che il nome stesso della band richiamano alla mente il mare.

Non penso che si tratti di una scelta casuale perché le sensazioni che si provano ascoltando questo cd potrebbero essere paragonate a quelle che si hanno perdendosi a guardare il mare al tramonto.

Spaziando e contaminando tra loro generi diversi, il gruppo riesce a suscitare un mix di sensazioni differenti nell’ascoltatore, che ha il suo faro nella voce dolce di Giulia, che non lo abbandona mai.

Si passa da canzoni più ritmate, come Ending Fire, a brani più lenti, come Waves, che ci cullano nel mondo suoni dei Seaward.

Un album intenso, profondo che ricorda appunto i suoni del mare. Come quando da piccoli appoggiavamo una conchiglia all’orecchio per farci dondolare dal rumore delle onde.

 

Laura Losi

 

 

FLOAT

TRACKLIST & CREDITS
1. Fools / 2. Driving / 3. Second Part / 4. Walls / 5. 17 Beauty / 6. Feel / 7. Waves / 8. Hometown / 9. Ending Fire / 10.Not Afraid To Die Alone

Prodotto da Zibba.

Registrato al Bombastic Recording Studio di Imperia. Mixato da Simone Sproccati al Crono Sound Factory di Vimodrone (MI). Masterizzato da Andrea “Bernie” De Bernardi (Eleven Mastering Studio)

Testi di Giulia Benvenuto, Francesco Proglio e Zibba. Musica di Giulia Benvenuto, Francesco Proglio e Zibba.

Label: Platonica
Edizioni: Warner Chappell Music Italiana / Platonica
Distribuito da Believe Digital

Produttore esecutivo: Materiali Musicali, con il sostegno di MiBACT e di SIAE, nell’ambito dell’iniziativa SIllumina.

I LOREN e l’esordio con l’album omonimo. E con il cuore.

Il 14 dicembre è una data importante per i Loren dal momento che uscirà il loro album omonimo.

La giovane band è composta da cinque ragazzi tutti fiorentini e il legame con la loro città d’origine è forte in molti dei loro testi.

Un nuovo gruppo che arricchisce la famiglia indie-rock di Garrincha dischi.

Melodie orecchiabili che di primo acchito ti fanno venire voglia di ballare ma che ad un secondo ascolto, più profondo e più attento, ti portano a concentrarti sui testi.

Perché le loro melodie fanno quasi passare le parole in secondo piano ma, credetemi, perdersi il senso di questi testi
sarebbe un vero peccato.

Suoni ottimisti e allegri che vanno di pari passo con parole ricche di speranza che strizzano l’occhio ad un futuro radioso.

Ottimismo, secondo me, è la parola chiave per decodificare tutto il disco.

Ci salveremo tutti è la traccia numero uno. Già dal titolo capiamo qual è la visione della vita dei Loren: non c’è spazio per la sconfitta o la tristezza.

Le cose del passato si incontrano con quello che il futuro ha in serbo per noi. L’unione tra il passato e il futuro è la chiave verso la salvezza; è così che una cicatrice si trasforma in un tatuaggio.

Un album eclettico ricco di riferimenti ad artisti italiani e internazionali: i Loren hanno un background di tutto rispetto che va da Cremonini ad artisti internazionali come i The killers.

Dieci tracce che ci accompagnano in un viaggio musicale: passiamo da ballate, come Blister, a canzoni dal piglio più rock, Psicosi e Tutti fermi, o ancora a brani che se chiudi gli occhi ti fanno venire in mente l’estate, Roland Garros.

Menzione d’onore, a Giganti, la canzone che mi ha toccato di più di tutto l’album. Una celebrazione del passato e della fiorentinità. Ma sopratutto una celebrazione dei momenti di vita vissuta; perché oggi, abituati come siamo a passare il nostro tempo al telefono rischiamo di perderci i momenti importanti.

Questi cinque fiorentini sono da tenere d’occhio perché hanno tanto da regalare. E non escludo che riusciranno a fare come il loro idolo Batistuta: a zittire uno stadio, ma con il suono della loro musica.

E’ quello che gli auguro.

 

Laura Losi

J Mascis e il nuovo album Elastic Days

Nonostante siano già passate settimane dalla pubblicazione del terzo album in studio di J Mascis Elastic days (9 Novembre via Sub Pop), è solo da un paio di giorni che ho il tempo e la calma per potermelo godere come si deve e ascolto dopo ascolto è cresciuto in me il bisogno, anzi il dovere, di scriverne.

J Mascis, il terrore dei timpani quando è sul palco con i suoi Dinosaur Jr, chitarra elettrica in mano e muro di Marshall alle spalle, in versione solista si trasforma appropriandosi di una dimensione intima, calda e per nulla pericolosa per le orecchie.

 

 

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J. Mascis with Dinosaur Jr. live at Voxhall, Aarhus, Denmark, November 10th, 2016

 

Dopo il meravigliosamente struggente Several shades of why del 2011 e il leggermente meno brillante Tied to a star del 2014, con Elastic days Mascis torna ad avvolgerci con il calore della chitarra acustica e della sua voce malinconica ma rassicurante in 12 tracce che fanno perdere la cognizione del tempo.

Elastic days è un album autunnale, al primo ascolto uggioso come una giornata di nebbia, ma se riascoltato con attenzione è come camminare per strada e diventare consapevoli del calore dato dall’arancione delle foglie cadute per terra: c’è tanta bellezza anche nelle cose all’apparenza un po’ tristi, basta avere la serenità per vederle.

I testi hanno un vago sapore di rimpianto ma senza disperazione, canzoni come Web so dense si aprono in boccate di speranza a pieni polmoni; in I went dust c’è un giro di basso che riecheggia le atmosfere intimiste di  Vivadixiesubmarinetransmissionplot di Sparklehorse ma è lì che arrivano a scuotere da una depressione imminente i ritmi sostenuti della chitarra acustica a cui si intrecciano le melodie di quella elettrica.

Ogni traccia dell’album, a partire da See you at the movie fino alla chiusura con Everything she said, passando dalla title track, è una perla: dodici storie inizialmente sfocate e appena accennate pizzicate sulle corde, ma che nell’arco dei pochi minuti che servono per raccontarle crescono e si liberano in un rock gentile che avvolge e coccola rassicurante.

L’album finisce dopo appena poco più di 40 minuti e quando la musica svanisce quello che resta è la voglia di far ripartire il disco e ascoltarlo ancora e ancora.

J Mascis

Elastic days

Sub Pop

 

Francesca Garattoni

La vita secondo MAC

Un pianeta su nove è l’album d’esordio di MAC, acronimo di Mario Alessandro Camellini, per Private Stanze.

Si tratta certamente di un album piuttosto peculiare e particolare, decisamente controcorrente rispetto a quello che siamo abituati ad ascoltare.

I testi sono duri, forti, disillusi a tratti persino cattivi che sbattono in faccia a chi li ascolta il disagio generazionale.

MAC non gira intorno alle cose, le dice in modo chiaro e tondo e questo sicuramente farà parlare di lui, nel bene o nel male.

Tutto questo appare chiaro fin dal primo ascolto della sua opera.

Ad esempio Un pianeta su nove, traccia che da il titolo all’intero album, altro non è che una critica forte alla società e a tutte quelle contraddizioni insite in essa. Tematica che potrebbe essere considerata un po’ il filo conduttore di tutto il cd.

In Livore, che ha anticipato l’uscita dell’album, non la manda adire a tutti quelli che danno importanza all’apparire piuttosto che all’essere. “La vita non è vita se hai solo bisogno di attenzioni” è la frase più emblematica della canzone, quella che ti entra in testa e ti porta a pensare alla superficialità delle cose; quella che dipinge al meglio la nostra attuale società.

Non a caso Camellini non è soltanto un cantante ma anche un poeta e uno scrittore che ha all’attivo due romanzi psicologici.

Suoni un po’ distorti, urla lamenti e continui cambi di tono accompagnano ed enfatizzano le parole dei testi andando a creare una particolare Alchimia (parola che ho scelto non a caso visto che è il titolo di uno dei brani.).

MAC con la sua schietta e disillusa visione della vita, del mondo e della nostra epoca potrebbe essere la voce della nuova generazione; ma una voce controcorrente che ne mette in luce le debolezze, le ipocrisie e le vanità effimere che caratterizzano la nostra epoca.

Se siete curiosi non vi resta che aspettare il 9 novembre, data di uscita di Un pianeta su nove, per vedere cosa ne pensate e farvi la vostra personale idea.

Perché MAC non lascia indifferenti: o lo si ama o lo si odia.

Laura Losi