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Tag: recensione

Achille Lauro “1990” (Elektra Records, 2020)

Cosa aspettarsi quando non si sa cosa aspettarsi 

 

Ho 21 anni. Sono nata nel 1999 e, come canta Fulminacci, anche io sono di fine millennio. Faccio parte quindi di quella generazione di confine a cavallo tra i veri ‘90s Kids, che gli anni ’90 e la loro musica li hanno vissuti davvero e non tramite serate revival nei locali, e la Generazione Z che si sta prendendo il proprio spazio nel mondo a suon di Tik Tok, mentre il mio primo pensiero quando sento questa parola continua ad essere l’iconico brano di Ke$ha del 2009. 

C’è qualcuno che meglio di me saprebbe parlare del significato, dell’impatto degli anni ’90? Sicuramente sì.

E in effetti qualcuno di recente l’ha fatto. 

Quel qualcuno è Achille Lauro.

Anticipato ad ottobre dall’omonimo singolo, che già aveva lasciato presagire un progetto irriverente e fuori da qualsiasi schema, 1990 è un album strano, ma in senso buono. Non è esattamente quello che ci si aspettava a giudicare dalla promozione sui social, ma d’altronde stiamo pur sempre parlando di quell’artista che a febbraio, sul palco dell’Ariston, ha fatto giocare tutto il pubblico al totoperformance. In effetti, qualsiasi tipo di aspettativa era superflua. Bisognava solo ascoltare e lasciarsi stupire o, eventualmente, restare delusi.

Ci era stato presentato come un disco di sette canzoni, sette hit che hanno fatto la storia della musica dance rivisitate in chiave “Lauro”, che ormai sta diventando un vero e proprio marchio di fabbrica. Si aggiunge la collaborazione con altri sette artisti che non potrebbero essere più diversi tra loro. Una commistione di pop, dance, rap e trap che va da Ghali a Capo Plaza, da Annalisa a Massimo Pericolo. 

Quello che più colpisce di 1990 è il modo in cui è stato impostato: non è una semplice raccolta di cover, come ad esempio è stato fatto l’anno scorso con Faber Nostrum, l’album che raccoglieva una serie di canzoni di Fabrizio De André reinterpretate da alcuni nomi della scena indie italiana. Qui, di fatto, si è verificato il contrario, unendo alle basi riarrangiate di alcuni grandi successi degli anni ’90 dei testi completamente diversi ma che nel complesso si adattano bene, ovviamente con pezzi meglio riusciti di altri, come accade in qualsiasi esperimento. 

Paradossalmente, le migliori uscite sono state proprio quelle più azzardate e meno scontate: Blu, che dell’originale ha giusto il titolo simile e vagamente la base, per poi essere stata trasformata in una ballad (tra tantissime virgolette) sullo stile malinconico di Zucchero e Sweet Dreams, in collaborazione con Annalisa che mai avrei immaginato in queste vesti. 

Insomma, una mossa intelligente da parte di Achille Lauro, perché così dribbla in modo intelligente e creativo l’annoso confronto con gli originali, proprio perché non c’è nemmeno l’intenzione mettersi a confronto, anzi, al massimo vuole omaggiarli, come dimostrano i featuring con Alexia in You and Me o con gli Eiffel 65 in Blu. 

Ma come per tutto ciò che fa Lauro, non si può parlare di questo album solo dal punto di vista musicale. 1990 è un vero e proprio racconto autobiografico, dove le canzoni sono inframezzate dalla narrazione di un passato che è tutto meno che roseo ma che lo stesso performer non ha mai nascosto al pubblico. “Questa è come una testimonianza”, dice con quella voce roca, un po’ da poeta maledetto, all’inizio di 3 Ore a Notte. 

Quella stessa voce da poeta maledetto che usa anche in Ave O Maria e che insieme alla (s)vestizione di San Francesco a Sanremo probabilmente costituirebbero gli estremi per una scomunica…

In definitiva, ci ritroveremo a ballare queste canzoni alle serate dance tra 20 o 25 anni, come effettivamente sta succedendo alle loro iconiche versioni-madre? Onestamente non credo, ma del resto non è con questo album che un personaggio come Achille Lauro mirerebbe all’immortalità.

Però, con la loro costante sovrapposizione tra passato e presente che strizza l’occhio prima ad una generazione e poi all’altra grazie a riferimenti anacronistici e decisamente poco ‘90s, sicuramente le balleremo adesso e ci divertiremo pure un sacco, come già ci aveva dimostrato tra una Rolls Royce e un Bam Bam Twist.

Ma soprattutto 1990 farà parlare di sé e del suo autore. 

Tanto, tantissimo, sia bene che male e a volte anche contemporaneamente. 

Proprio come per i poeti maledetti. 

 

Achille Lauro

1990

Elektra Records

 

Francesca Di Salvatore

Are You Real? “Consequence”

Registrato durante il lockdown, Consequence è il nuovo singolo del musicista veneziano Are You Real?. Si tratta di una rilettura, molto intima e personale, del brano della band elettronica tedesca The Notwist. Il brano è accompagnato da un videoclip, realizzato dallo stesso musicista.

“Ho cercato l’anima del brano” racconta Andrea, titolare del progetto. “L’ho spogliato dell’elettronica per tirarne fuori tutta la dolcezza e la malinconia. Ho usato solo un pianoforte e dei synth. Per me è un brano visionario, per questo ho realizzato anche un videoclip, che mostrasse le immagini che avevo in testa mentre cantavo. Credo che questo lavoro anticipi le sonorità del mio prossimo disco. Artisti come Apparat, Soap&Skin e gli stessi Notwist stanno influenzando la mia musica. Il prossimo disco sarà molto diverso da tutto quello che ho fatto finora, e questa canzone ne è il primo piccolo assaggio.”

Il brano, disponibile su tutte le piattaforme dal 17 luglio, sarà anche in free download.

 

 

Free download qui

 

Are You Real?

Consequence

Beautiful Losers Records

 

Redazione

Protomartyr “Ultimate Success Today” (Domino Records, 2020)

Appena sotto resilienza/resiliente, nella speciale classifica di termini italiani che mi creano sentimenti poco amichevoli verso l’umanità tutta, si colloca divisivo.

Saltando a piè pari i contesti nei quali in tempi più o meno recenti mi è capitato di veder utilizzata la parola sopra citata, ho fatto questa scoperta sulla mia pelle: il fatto che una band abbia un cantante con una voce che ondeggia, barcolla meglio, tra il parlato che sovente diventa biascicato e il cantato che non di rado sconfina nello stonato, un’attitudine sul palco più adatta ad un netturbino in strada, alle 4 del mattino, in novembre, sotto la pioggia, aggiungiamoci una chitarra che mena fendenti acidi e nervosi senza sosta ed una sezione ritmica che strizza l’occhio diciamo ai Fall per dirne uno per tutti (insomma, tutte peculiarità che adoro e trovo quasi imprescindibili per poter ascrivere un gruppo alla mia cerchia di “band di culto”), ebbene, tutto questo ben di dio in un solo gruppo, e scopro che un sacco di gente non li apprezza. In alcuni casi arriva addirittura a detestarli proprio. Follia!

Si scherza ovviamente, ma la situazione sopra descritta si confà perfettamente al mio rapporto con i Protomartyr, quartetto di Detroit, giunti al quinto album in studio e che personalmente ho iniziato ad amare relativamente tardi, in occasione di quel Relatives in Descent, anno di grazia 2017, che è uno dei dischi che di rado mi stanco di ascoltare.

Amore dicevamo che però non si è affatto trasformato in un flirt estivo, al contrario, ma si è consolidato con l’EP Consolation (uscito in collaborazione con l’ex Breeders Kelley Deal) e che con quest’ultimo Ultimate Success Today è diventato una storia d’amore che non vedo come possa interrompersi.

Ora che ho scoperto da subito le carte e che non ho più spazio per bluff e doppi giochi, non ci giro attorno e direi che non sia sbagliato affermare che il succo, il nucleo di questo Ultimate Success Today non si discosti di molto dal suo predecessore, quantomeno nelle intenzioni, ampliandone però l’area di movimento, e non per una mera questione di incremento della strumentazione utilizzata; dopo nemmeno un minuto infatti dell’apertura affidata al singolo Day Without End compare un sax, ad aumentare il senso di tensione e sospensione di un brano di per sé già poco piantato a terra, che si spegne d’improvviso, quasi inatteso. 

I Am You Now ci riporta il Joe Casey (il cantante NdA) sermoneggiante di Here Is The Thing, mentre la chitarra di Gregg Ahee disegna incubi metropolitani su tappeti ritmici secchi e sincopati (vedasi anche la seguente The Aphorist) che risultano essere il vero marchio di fabbrica dei quattro.

Ascoltate Michigan Hammers per avere chiaro un compendio di come non si dovrebbe (pff…) cantare su di un disco, se siete di quelli che si trovano a proprio agio principalmente coi “poeti laureati”, io mi tengo stretto le esplosioni allucinate di Tranquilizer, il valzer drogato di Bridge & Crown, la dilatata coda, criptica e fatalista di Worm In Heaven (I exist, I did, I was here, I was, or never was recita il finale ), al quale si accompagna un video altrettanto allucinato, che merita 4.31 minuti del vostro tempo.

È un disco sconsigliato a quelli dal palato fino, a chi non ha ancora avuto il coraggio di affrontare i propri incubi peggiori, ai tecnofili (passatemelo come neologismo per piacere), a coloro alla ricerca di decorazioni, ornamenti e finiture di classe, ai canonici, agli amanti del reggaeton.

E se non rientrate in alcuna di queste categorie ed allo stesso tempo non vi siete innamorati di questo Ultimate Success Today, beh, de gustibus non est disputandum.

Divisivi si diceva…

 

Protomartyr

Ultimate Success Today

Domino Records

 

Alberto Adustini

Sharptooth “Transitional Forms” (Pure Noise Records, 2020)

Girls Power Level Pro

 

Molto spesso nella vita mi son sentita dire “Eh ma sei una donna, non puoi farlo”.

Appartenere al sesso femminile implica una serie di comportamenti e atteggiamenti che devono essere socialmente accettati. Chiunque esce dalla norma automaticamente viene additata come strana, diversa.

“Una ragazza non può fare growl, non può fare screamo come un uomo”.

BENE.

Vi presento gli Sharptooth, capitanati dalla strepitosa Lauren Kashan, con Keith Higgins e Lance Donati chitarre, Peter Bruno al basso, Matt Hague alla batteria.

Da Baltimora, nel Maryland, esportano la ribellione punk hardcore con il loro Transitional Forms. 

Suoni duri, arrabbiati, frutto di anni di lavorazione che hanno portato ad una crescita e alla delineazione di uno stile più personale rispetto al primo album. Un punk hardcore visto attraverso gli occhi di una grande donna, supportata da uomini che la incoraggiano in tutto.

La rabbia trasmessa dal growl di Lauren ha la potenza distruttiva di una bomba atomica, e il primo brano dell’album, Say Nothing (In the Abscence of Content) sfata il mito che le donne non siano capaci a cantare in questo modo specifico, e concretizza le doti vocali di Lauren, nonché il talento di ogni singolo musicista.

Un grande senso di tristezza e inadeguatezza precede l’entrata del secondo brano, Mean Brain, dove una voce di bambina ripete, come una cantilena “Nobody likes me, everybody hates me, guess I’ll go eat worms…” e pervade tutto il brano, nella completa sensazione di disperazione e odio verso se stessi.

In Life on the Razor’s Edge inseriscono elementi elettronici, che accompagnano la storia di una vita condotta appunto sull’orlo del rasoio a causa di un amore malato.

La poliedrica voce di Lauren ci stupisce in Hirudinea (tradotto: sanguisuga) con tratti in cui diviene melodica, ma il testo decisamente forte non riesce ad addolcirla. (A riprova che può cimentarsi in qualsiasi stile, ma lei HA scelto il growl.)

La comparsata di Justin Sane (Anti-Flag) con la sua voce acida e acuta crea un forte contrasto con la schiacciante ringhiata di Lauren in Evolution.

Troviamo 153 che inizia come un classico pezzo punk per trasformarsi in qualcosa di più oscuro a livello sonoro, ma come testo rappresenta l’inizio della presa di coscienza di sé e della propria potenza, e dell’accettazione della propria diversità come una cosa positiva su cui costruire dalle macerie della propria rabbia.

La crescita rispetto al primo album è palese, sia nel cantato sia nell’unione degli strumenti. Lauren dimostra tutta la sua competenza nel gestire anche altri stili, passando dallo screamo al melodico.

Una band da conoscere, ascoltare anche per chi non ama il genere. 

Se non siete abituati al growl e ai suoni hardcore spinti, mi raccomando abbassate il volume, perché Lauren è tosta.

 

Sharptooth

Transitional Forms

Pure Noise Records

 

Marta Annesi

Rufus Wainwright “Unfollow the Rules” (BMG, 2020)

La regola di Rufus

 

Nella mia famiglia non ci sono laureati. Mio fratello ed io ci abbiamo provato (o ci stiamo ancora provando) a concludere, mentre i miei genitori per origine, possibilità o sorte si sono fermati molto prima. Eppure tra le mura domestiche, da che ne ho memoria, si è sempre respirata un’aria non direi intellettuale, alta, ma si percepiva in maniera tangibile come l’ignoranza fosse un nemico da debellare, al pari della maleducazione. Un abbonamento ultradecennale al Club degli Editori aveva portato in dote una libreria di assoluto rispetto e un’enciclopedia di svariati volumi. Se dovessi associare il mio papà ad un’immagine sarebbe senza dubbio La Settimana Enigmistica appoggiata sopra alla Garzantina sul comodino accanto al letto. Mia mamma invece è una radio accesa in ogni stanza, simultaneamente, con un repertorio che propone con la stessa facilità la Callas impegnata nella Casta Diva e L’immensità di Don Backy. Giusto per contestualizzare.

Accade che qualche settimana fa stavo disquisendo di nulla in particolare con la mia genitrice e all’interno di una frase, mezza in dialetto mezza in italiano, la sento usare il termine affettato; sul momento non ci faccio troppo caso ma poi torno subitamente indietro e quasi arrogante chiedo lumi. L’arroganza iniziale si è fatta presto resa incondizionata, ma giuro, davvero non avevo mai sentito o visto utilizzare quella parola. Non nell’accezione dell’insaccato s’intende, sia chiaro. 

E perché tutto sto discorso? Perché non nego che in qualche passaggio, in (più di) qualche frangente nella carriera di Rufus Wainwright, io abbia trovato la sua musica artificiosa, sempre di qualità elevata, ma meno spontanea e sincera di quanto non lo fosse ad esempio ai tempi di Poses, per dirne uno.

Ed invece, a questo (nono) giro è davvero necessario riporre l’affettato in frigo (scusate l’eccezionale gioco di parole, non ho potuto resistere) perché Unfollow The Rules è un gran buon disco (chamber?) pop. 

Prendete l’apertura, affidata a Trouble In Paradise, o la successiva Damsel In Distress, per avvertire in maniera nitida la freschezza e la brillantezza di scrittura del nostro, che a dispetto del brio delle parti strumentali, tra i versi sottende una sincera analisi riguardo alle maschere che indossiamo, ai sorrisi coi quali celiamo dei dissidi, all’orgoglio stolto che ci allontana dal nostro vero io.

Il piano e voce che introducono il brano che dà il titolo al disco riportano l’ascolto nelle zone che più mi hanno fatto innamorare dell’artista di Rhinebeck, quei momenti di lirismo assoluto, da quel “tomorrow I will just feel the pain” a precedere un cambio tempo di una bellezza sfacciata, tale da costringermi a “riavvolgere il nastro” più volte; pochi accordi di piano, diluiti, quasi languidi, che trovano un’improbabile quadra con la chitarra e la batteria, che quando ritorna la voce con un significativo “don’t give me what I want, just give me what I’m needing” non sembra nemmeno più di essere all’interno della stessa canzone. 

Eppure funziona così, quando si ascoltano quelli bravi davvero.

Il clima torna a farsi quasi giocoso, con You Ain’t Big, o si sconfina in lidi quasi (quasi) folk con Peaceful Afternoon per poi tornare a volare altissimi con Only The People That Love, una stesura magnifica, curata, immediata, “Only the people that love / May dream / May Cry / May fly”. La successiva This One’s For The Ladies (THAT LUNGE!) strizza l’occhio all’ultimo John Grant (ammesso che non sia più probabile il contrario), ipnotica e sospesa, clima proseguito da una enigmatica My Little You.

I toni si fanno più notturni e compassati in Early Morning Madness, sebbene la coda in crescendo mi perplima non poco; ad ogni modo un piano quasi da cabaret introduce Devils And Angels (Hatred), che si sviluppa poi secondo canoni più classicheggianti di quanto l’inizio facesse intendere (o sperare).

La chiusa di Alone Time è il colpo di coda del campione, la zampata di pura classe, un piano appena accennato, un controcanto ispiratissimo a tinte quasi gospel, un testo di struggente, candida bellezza, che quasi ti muove alle lacrime (“But don’t worry, I will be back, baby / To get you on the wings of a perfect song”).

È il disco che personalmente mi riappacifica, mi ricongiunge con Rufus Wainwright, che una volta affrancato, dimesse le vesti patinate che spesso lo hanno nascosto, torna a mostrare la sua più profonda (e nuda) natura. 

 

Rufus Wainwright

Unfollow the Rules

BMG

 

Alberto Adustini

Make Them Suffer “How to Survive a Funeral” (Rise Records, 2020)

L’estate non è una stagione per vecchi. Le zanzare, il caldo appiccicoso. La drammatica felicità di tutti gli altri che spesso mette a disagio.

Siete incazzati? Delusi? Vi sentite non capiti?

FATELI SOFFRIRE.

Un consiglio che viene dalla terra dei canguri, dove i Make Them Suffer sono nati e cresciuti, presentandosi sulla scena metal nel 2010. 

Dall’Australia, grazie al loro talento, hanno colonizzato il resto del globo, con il loro sound totalmente metalcore.

Il lockdown ha posticipato l’uscita fisica del loro ultimo lavoro How To Survive A Funeral di quasi un mese; anticipato dall’uscita del singolo e del videoclip Erase Me, caratterizzato da una musicalità da hit parade melodic metal, questo pezzo ha tutto, dai cori ritmati, all’alternanza di un growling con una dolcissima voce femminile. Il brano è molto orecchiabile, il testo è una preghiera arrabbiata, “ti ho spezzato abbastanza, quindi non odiarmi, cancellami”. Allontanare le persone è un’azione altruista o egoista? Questa domanda, posta dal gruppo, è uno spunto di riflessione.

L’aria carica di deathcore si respira per tutto l’album. Il primo brano è una dichiarazione di guerra. Ha una partenza morbidissima grazie al suono delle tastiere, per poi subire un cambio schizoide, con la batteria impazzita, in speed metal, con un growl potente. 

Lo speed metal è ripreso anche in Falling Ashes, follia pura, con vocalizzazioni durissime (indubbie le doti canore di Sean Harmanis) che passano rapidamente al growl spintissimo.

Ritornelli acchiappaorecchio sono una particolarità di questo gruppo, come in Bones passa da un metal molto duro ad un metal melodico, nostalgico.

Troviamo Fake Your Own Death che è sulla scia dell’esaltazione del metal, e Soul Decay che ci insegna a lasciar andare le situazioni distruttive, a liberare il cuore dalla prigione in cui ci siamo autorinchiusi.

I pezzi di questo album sono estremamente diversi, ma legati insieme dai testi e dalla consapevolezza del gruppo. Ogni strumento è in piena armonia con il resto, la dualità della voce del cantante testimonia talento, e impegno.

Nonostante i testi sembrino “da depressione giovanile”, la band ha regalato una chiave di lettura diversa. L’accettazione di sé, del proprio passato conduce ad una nuova luce da perseguire, improntata al miglioramento della persona stessa. Ma questo processo è possibile solo venendo a patti con l’anima, con i traumi passati. Riconoscere i propri limiti emotivi e lavorare sodo per innalzare il proprio io verso la liberazione dalle catene mentali autoimposte.

“La vita è troppo breve per passarla sempre arrabbiati”, la citazione di American History X cade a pennello per la visione dei Make Them Suffer, la rabbia è un sentimento vero, e ha bisogno di essere capito e metabolizzato per sciogliersi.

Album consigliatissimo per gli amanti del genere.          

 

Make Them Suffer

How to Survive a Funeral

Rise Records

 

Marta Annesi

Altra Fedeltà

Nick Hornby, negli anni novanta, riuscì a raccontare le sue passioni usando strumenti non convenzionali: il suo essere incredibilmente british, con tutti i pro e contro che questo comporta, l’ammettere candidamente le proprie debolezze, manie, fobie, idiosincrasie e anzi, farne materia per libri. Ci univano già un paio di elementi: l’amore per l’Arsenal — in quegli anni il calcio inglese era ammantato da un’aura di follia e romanticismo, e i miei Gunners erano fisici, scarsi e picchiatori, perfettamente rappresentati da capitan Tony Adams, un uomo che ha vestito di biancorosso per tutta la vita, lanciando più palloni in tribuna che in campo, anche in riscaldamento… ma questa è un’altra storia! — e ci univa l’amore per la musica e il tentativo di navigare in quel mare magnum dandosi un’idea, anche falsa, di ordine, di possesso. Fu lui che introdusse nella mia vita l’orrida idea di stilare classifiche.

Era il 1995, avevo divorato, qualche anno prima, Febbre a 90′, e adesso avevo per le mani Alta Fedeltà. 

High Fidelity è da poco anche una serie TV, dicono più vicina al testo originale rispetto al film con John Cusack del 2000 e spero arrivi fino a noi, quanto prima.
Nel libro, il protagonista Rob Fleming stila classifiche di cinque posizioni su tutto lo scibile di cui ha avuto esperienza, nel tentativo di rimettere ordine nella sua vita.
Ecco. L’altra sera, mentre scrivevo della colonna sonora di Singles, mi sono trovato in difficoltà nella scelta della canzone da aggiungere in coda alle poche righe di accompagnamento. Quel disco ha almeno cinque tracce che sfiorano la sacralità.
Il pensiero è allora andato a quegli anni e a quelle colonne sonore e ho scoperto di avere anche io una classifica delle migliori colonne sonore dei film degli anni novanta, a insindacabile (seppur sempre opinabile) giudizio del sottoscritto.

Non mi scuso per omissioni o per esclusioni, questo è.

 

10. Natural Born Killers (Oliver Stone, 1994)

Nine Inch Nails su tutti, ma con incursioni anche degli attori: Tommy Lee Jones, Robert Downey Jr., Juliette Lewis, che ai tempi cantava davvero, con tanto di gruppo ed EP.
Colonna sonora schizofrenica, per un film che è un pugno nello stomaco, che è la quintessenza della spettacolarizzazione della violenza, fuori e dentro la pellicola. Il pezzo in cui Bombtrack dei RATM sale a far vibrare i nostri divani è l’inizio della fuga di Mickey dal carcere. Il pezzo parte subito dopo la Danza della fata confetto di Čajkovskij. Contrasti a pioggia, anche a gamba tesa, come il basso di Timothy Commerford che polverizza la fatina mentre Woody Harrelson inizia il massacro finale. 

 

 

 

9. Velvet Goldmine (Todd Haynes, 1998)

È la storia e la caduta di un’icona del glam rock e il film stesso è la celebrazione del mito di quegli anni, a partire dalla swinging London fino al crollo del personaggio/cantante. Ispiratissimo a quel Bowie di Ziggy Stardust, il titolo stesso è riferimento diretto a una canzone del Duca Bianco. Il film in sé non è pezzo da cineteca, ma suona dannatamente bene, sembra una festa di compleanno per celebrare un’epoca: venne creato un supergruppo per realizzare parte della colonna sonora, con membri degli Stooges, dei Sonic Youth, dei Gumball, dei Minutemen, dei Mudhoney. I Placebo reinterpretano 20th Century Boy dei T-Rex, mentre Thom Yorke da voce al gruppo Venus in Furs per celebrare i Roxy Music.
Insomma, Todd Haynes ci regala un finto biopic pochi anni prima del suo capolavoro Io non sono qui, dedicato a(i) Bob Dylan. 

 

 

 

8. Judgment Night (Stephen Hopkins, 1993)

La quota tamarra me la gioco all’ottavo posto. Il film pare un pretesto per avere una colonna sonora che è un monumento al cafone che vive in noi.
Accadde che a vari gruppi hip-hop vennero affiancate band metal/grunge/rock.
Erano anni di crossover volontario e sperimentale, ma qui tocchiamo vette altissime. Altro che ananas sulla pizza. Un paio di esempi: Sonic Youth conditi con Cypress Hill, Helmet e House of Pain, Faith No More avec Boo-Yaa T.R.I.B.E. Nacque quella notte il Nu Metal? Ai posteri l’ardua sentenza. 
Potente. Geniale. 

 

 

 

7. Io ballo da sola (Bernardo Bertolucci, 1996)

Qui c’è stata battaglia. Avevo un clamoroso Empire Records, uno scontato Reality Bites, alla fine vince l’underdog. Qui è la bellezza tra immagine e colonna sonora a portare a casa il settimo posto. Liv Tyler era da arrossire, la colonna sonora, molto femminile, portava nelle cuffie del mio walkman Hooverphonic, Hole, Portishead, Liz Phair.
Riti di passaggio. 

 

 

 

6. Romeo + Juliet (Baz Luhrmann, 1996)

Premi a pioggia per un’opera geniale di un regista che adoro. Colui che pochi anni dopo avrebbe dato vita a quel capolavoro che è Moulin Rouge! recupera qui il testo (quasi) originale di Mr. Shakespeare e lo aggiorna, o meglio, ci mostra come il bardo fosse un genio senza limiti di tempo o di luogo. Verona diventa Verona Beach e da lì in poi è puro spettacolo.
Radiohead, The Cardigans, Garbage, ma soprattutto un Mercuzio da applausi.

 

 

 

5. Trainspotting (Danny Boyle, 1996)

Altro giro, altro regista di livello altissimo, altra colonna sonora da record (mamma mia il 1996!).
Presentato fuori concorso al Festival di Cannes, nello stesso anno di Fargo dei Cohen e di Crash di Cronenberg, fu un immediato successo. Diamo per scontata la visione, è programma istituzionale.
Iggy Pop, New Order, Primal Scream, Blur, Lou Reed, e soprattutto quella Born Slippy degli Underworld che diventò una cosa sola con le immagini finali del film. Generazionale? Di sicuro è diventato un cult.
But, that’s gonna change – I’m going to change. This is the last of that sort of thing. Now I’m cleaning up and I’m moving on, going straight and choosing life”.

 

 

 

4. Singles (Cameron Crowe, 1992)

Un film che è una colonna sonora.  Un tributo a Seattle a e al suo sound, alla nascente scena grunge, a una generazione di musicisti che negli anni novanta hanno segnato un solco nella storia della musica.
I Pearl Jam e Chris Cornell recitano attivamente nel film, sono le spalle di Matt Dillon, aspirante cantante e moderno bohémien.
Nell’elenco degli artisti coinvolti troviamo anche Alice in Chains, Mother Love Bone, Mudhoney, Screaming Trees, The Smashing Pumpkins tra i più noti.
È un manifesto, impossibile escluderlo, anche se, per salire sul podio, serve un quid in più.

 

 

 

3. The Commitments (Alan Parker, 1991)

Lo so. È una debolezza. O forse no.
Ma è una storia di redenzione, di resistenza, di amore per la musica, che ci ricorda di come tutte le periferie del mondo siano uguali e che si può fare Soul and R&B nella periferia di Dublino, allora possiamo spiegarci tutto, da Springsteen ai Fontaines D.C. .
Cito un personaggio, che riassume il concetto di sopra: “Gli Irlandesi sono i più negri d’Europa, i Dublinesi sono i più negri di Irlanda e noi di periferia siamo i più negri di Dublino, quindi ripetete con me ad alta voce: “Sono un negro e me ne vanto!””. È la vittoria di ogni processo di integrazione. È l’abbattimento di ogni differenza, sono i Blues Brothers, ma irlandesi e della working class.
Passo indietro: Alan Parker è un signore che ha donato all’umanità Pink Floyd The Wall,  Birdy – Le ali della libertà e Mississippi Burning.
Passo avanti: Glen Hansard è il chitarrista del gruppo. Quindi The Commitments merita il terzo posto solo per i riccioli di zio Glen. 

 

 

 

2. Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994)

Ecco, questo Cannes lo vinse.  E non solo: diventò genere, diventò testo sacro, citato, recitato, evocato in tutto il mondo. Personaggi perfetti, maschere geniali, dialoghi scritti in stato di grazia, in cui non esiste neanche una pausa fuori posto. Capolavoro.
E a condire questa meraviglia troviamo una colonna sonora che si intreccia nel film, che diventa strumento narrante e che sostiene e accompagna lo spirito di fondo della storia raccontata. È eclettica, come lo sono i personaggi, è di nicchia, come la cinematografia evocata dal regista, e che, come il genere e il film stesso, invece diventerà mainstream. La surf music che sorregge il tutto sarà il genere più utilizzato dai pubblicitari americani, per vendere…qualunque cosa.
Ah, dimenticavo: il podio consideratelo valido per qualunque film di Tarantino.

 

 

 

1. The Crow (Alex Proyas, 1994)

James O’Barr, autore della graphic novel che è alla base della storia del film, perse la fidanzata in un incidente. Per riuscire a superare il dolore accese lo stereo e prese matite, penne, pennelli e creò The Crow.
Il primo numero è dedicato a Ian Curtis, cantante dei Joy Division, scomparso a 23 anni.
Questo primo posto è alla colonna sonora, non al film. Anche se la pellicola è un’altra icona degli anni novanta, anche se la scomparsa di Brandon Lee durante le riprese ha reso lui e il personaggio ancor più un’icona, anche se.
La musica del film fu un colpo al cuore, perché era perfetta, perché era scritta nella storia stessa di James O’Barr.
The Cure, Stone Temple Pilots, Nine Inch Nails, Rage Against the Machine, Helmet, Pantera, The Jesus and Mary Chain solo per citare I principali.
Album sacro, via il cappello, podio e inno, grazie.

 

 

 

Andrea Riscossa

Protest The Hero “Palimpsest” (Spinefarm Records, 2020)

Alla ricerca della perfezione

 

Il mondo del rock è sempre stato diviso in due schieramenti: il punk e il metal.

Entrambe esprimono lo stesso concetto del mal di vivere, ma differiscono per il modo di reagire.

Il punk è il caos, è l’entropia (spacchiamo tutto, moriamo giovani).

Il metal è l’ordine, la sintropia (urliamo, distruggiamo i timpani, ma studiamolo per bene…).

Col tempo tutto si è mischiato, creando sottogeneri che galleggiano in questo universo musicale contaminato.

Alcuni gruppi sperimentano altre sonorità, come le falene sono attirate dalla luce, volano verso mete sconosciute, e delle volte riescono nell’impresa di mescolare le carte. 

Altri, rimangono ancorati alle vecchie idee, perseguendo il loro sogno di perfezione.

Per i metallari, l’esecuzione del brano è fondamentale, lo studio e l’impegno dietro ogni strumento è certosino.

E ascoltando Palimpsets il nuovo disco dei Protest the Hero si ha l’impressione di un lavoro raffinato, ricercato, sudato insomma.

La Band canadese che dal 1999 calca la scena heavy metal, dopo quattro anni e varie difficoltà torna con questo nuovo album, carico di cattivi propositi e buona musica. 

Il singolo The Canary, omaggio al biplano giallo della pioniera del volo Amelia Earhart, è metal eseguito alla lettera, ostinato e perentorio come Amelia.

From the Sky, esprime tutte le competenze tecniche del gruppo e vocali di Rody Walker, che ha dovuto lottare molto a causa di un infortunio alle corde vocali.                                      

A questo punto dell’album troviamo Harborside (Interlude) grazioso stacchetto alla Striscia la Notizia ma versione musica classica, che, come il sorbetto al limone, toglie il sapore del piatto di pesce appena mangiato e prepara il palato alla prossima prelibatezza: All Hands. Questa presenta ritmi serrati, testo criptico sull’aspettare qualcosa (una svolta, sia questa positiva o negativa non interessa) che cambi per sempre la nostra vita.                                                     

L’ album contiene dieci brani, ognuno dei quali è il risultato di una ricerca maniacale della perfezione di un sound preciso, quello heavy metal. 

La cura del dettaglio è una particolarità dei Protest The Hero: ogni accordo, ogni strumento è perfettamente coeso, così da creare un chaos ordinato, una rispettosa follia. 

Una preghiera ossequiosa e assordante al Dio dell’Heavy Metal, una miscela di Mathcore e Progressive metal, come testimoniano The Fireside, Soliloquy e Gardenias.

Un’impresa meticolosa, accurata. Uno scrupoloso reportage sull’heavy metal, che ci riporta agli albori della storia del metal, dimostrando una crescita musicale nonché personale, un’esplorazione stilistica curata nel minimo dettaglio, fino al vomito.                      

 

Protest The Hero

Palimpsest

Spinefarm Records

 

Marta Annesi

The Bustermoon “Mareena Roots” (Self Released, 2020)

Di feste e d’estate

 

Anticipato dal singolo Poppoporopporoppopoporopporoppopoporopporopo, definita dalla band stessa sui social una “all together song”, una canzone che il pubblico intona sempre all’unisono durante i loro concerti e che vede quello stesso pubblico come protagonista del video, la band genovese The Bustermoon pubblica il suo primo LP Mareena Roots, il cui titolo appunto si rifà alle loro radici ben piantate nel mare della loro città.

Il disco è l’evoluzione naturale e spontanea del loro primo lavoro, l’EP Going to Taumatawhakatangihangakoauauotamateaturipukakapikimaungahoronukupokaiwhenuakitanatahu pubblicato due anni fa. Il loro marchio di fabbrica, quello che chiamano “folk’n’roll”, è ben visibile anche in Mareena Roots, dove la chitarra acustica fa da padrona. Un mix particolare e diverso dal solito, che unisce il country al rock’n’roll e al folk. Un mix che sa di feste e d’estate e che invita chi ascolta a ballare sottopalco sulle note di tracce come Traveling Love o Sweet Mama quando sarà di nuovo possibile farlo. Insomma, un disco spensierato come difficilmente se ne trovano oggi. 

Non mancano di certo le canzoni un po’ più malinconiche, come può essere ad esempio Rancho Rd, ma anche loro non abbandonano mai del tutto un certo piglio di allegria, che resta nascosto dietro alla nostalgia che si prova mentre si pensa ad una cosa bella, a prova del fatto che si può sempre trarre qualcosa di positivo, anche dalla malinconia. 

Mareena Roots, con un genere tutto suo, è quindi uno degli album che più si discosta dalla scena musicale italiana di oggi, strizzando l’occhio decisamente più agli Stati Uniti. Forse l’esempio più eclatante si sente in As I Breathe, la nona traccia del disco, che termina con il ritornello cantato in modo da ricordare un coro gospel d’oltreoceano. 

Chiude il viaggio dei The Bustermoon una ghost track, Cherry Tree, singolo che la band aveva già pubblicato la scorsa estate in collaborazione con Early Vibes e che qui viene proposto in versione riarrangiata. Un ottimo modo per chiudere quest’album carico di spensieratezza: con un sempreverde ma necessario “it’s alright”.

 

The Bustermoon

Mareena Roots

Self Released, 2020

 

Francesca Di Salvatore

The Winstons ft. Mick Harvey “A Man Happier Than You”

Paesaggio lacustre accompagnato da una chitarra malinconica.

Bianco e nero, occhi neri che si alternano a luminosissime luci al neon.

Così inizia il viaggio del videoclip di A Man Happier Than You, brano contenuto in Smith (2019) de The Winstons accompagnati dal magico Mick Harvey (Nick Cave and the Bad Seeds).

Il brano è il risultato di un lavoro corale, impegnativo e “internazionale” (è stato registrato tra Londra, Milano e Melbourne) e a causa della pandemia anche il videoclip è stato filmato e assemblato “a distanza”, che è il tema chiave della canzone.

Due persone che dopo anni di lontananza si ritrovano a parlar delle loro vite, delle disavventure e delle gioie.

La nostalgia del testo, l’unione perfetta degli strumenti e con la splendida, calda, avvolgente voce di Mick Harvey che si sposa perfettamente con lo stile rock psichedelico del side project di alcuni membri degli Afterhours (Roberto Dell’Era aka Rob, Lino Gitto aka Linnon ed Enrico Gabrielli aka Enro) fa di questo brano un piccolo capolavoro.

Tre fratelli in pratica, cresciuti con una visione della musica molto vera, essenziale. Studiare suoni per evocare emozioni nell’ascoltatore, usare la voce e gli strumenti per riportare a galla sentimenti che credevamo perduti, sommersi nell’indifferenza della quotidianità.

Sul finire del videoclip il paesaggio diventa viola, ne segue un monologo sulla felicità da accapponare la pelle.

Consigliabile ascoltarlo con le cuffie, di sera, sdraiati al fresco a rimuginare su vecchie (e nuove) ferite.

 

 

The Winstons ft. Mick Harvey

A Man Happier Than You

TARMAC / Rokovoco / Sony Music

 

Marta Annesi

Muzz “Muzz” (Matador Records, 2020)

Cosa succede quando un Paul Banks particolarmente ispirato si riunisce, con l’aiuto di Matt Barrick (batterista di The Walkmen e Fleet Foxes), con il suo amico di vecchia data Josh Kaufman? Nascono i Muzz.

Con questa premessa, abbiamo ascoltato l’omonimo album di esordio Muzz uscito per Matador Records e il primo pensiero è stato “questi tre suonano come Interpol e The National messi insieme”, ma senza le atmosfere cupe dei primi né la malinconia novembrina dei secondi. Coincidenze? Direi proprio di no, dato che degli Interpol c’è l’inconfondibile voce, Banks, e dei National c’è un compositore e arrangiatore, Kaufman. E poi c’è Barrick, che ci mette del suo con una battuta rarefatta qua e là in attacco a Bad Feeling o creando eleganti atmosfere da oscuro club jazz in How Many Days.

Nonostante sia particolarmente evidente individuare i gruppi di appartenenza o le affiliazioni precedenti dei nostri tre, quello che non è affatto prevedibile è il risultato di questa collaborazione: stili e retaggi ci sono, ma sono solo il trampolino di lancio per un disco che ha un’anima e un’identità tutta sua.

L’apertura è affidata a Bad Feeling, anche singolo, che entra in punta di piedi, quasi parlando, e sfoggia un finale in crescendo di ottoni molto National. Con questa premessa, si scivola in Evergreen, un gioco di echi e atmosfere languide dal sapore vagamente War on Drugs per poi tornare ai National con Red Western Sky.

Da qui l’album prende una direzione particolarmente cinematica e si stacca da riferimenti noti per definire l’identità propria del gruppo: un’infilata di brani che, chiudendo gli occhi, liberano l’immaginazione dell’ascoltatore portandolo da un film in bianco e nero (Patchouli) ad una danza avvolgente in una piazza di paese assolata (Everything Like It Used To Be).

Ascoltare questo album è come assaggiare lo sciroppo di Mary Poppins: ad ogni cucchiaio senti il sapore che ti piace più sentire in quel momento, ti lasci andare alle immagini che i brani evocano, senza un filo conduttore preciso ma tutti accomunati da un’elegante raffinatezza compositiva e stilistica.

Il cuore dell’album lo troviamo in due pezzi ugualmente evocativi e contrapposti: Broken Tambourine, con la sua intro di piano tranquilla, dolce, il cinguettio degli uccellini, è una canzone che sa di cielo lilla del tramonto, un patio, probabilmente un dondolo che guarda al viale alberato che porta all’ingresso di una casa del Sud degli Stati Uniti e richiama atmosfere da film degli anni ’50.
Di tutt’altra pasta è invece la galoppata di Knucleduster: un tiro irresistibile, la voce di Banks, capace di una dolcezza che si può notare raramente con gli Interpol, si apre come uno squarcio di sole tra le nuvole dando all’ascoltatore un senso di speranza.

Se Chubby Checker è un pezzo rarefatto e senza fronzoli, How Many Days si distingue, oltre che per gli arrangiamenti tendenti all’improvvisazione jazz già menzionati, per il calore seducente del cantato, come cachemire che scivola sulla pelle.

La chiusura dell’album è una tripletta di brani ben costruita: si inizia con Summer Love eterea e stratificata, malinconicamente inesorabile come le ombre che a fine estate si allungano sempre di più e baciano fredde la pelle abbronzata.
Si prosegue con All Is Dead To Me che riscalda l’atmosfera con l’uso profuso degli ottoni e creando dissonanze melodiche. Si giunge infine a Trinidad: il corno, una canzone crepuscolare, una ninna nanna, un commiato gentile.

Alla fine dei 43 minuti di ascolto l’album di esordio dei Muzz ci ha presi per mano e portati in quel posto dell’immaginazione dove la musica proietta film sul retro delle nostre retine, un posto sicuro fatto di melodie che riecheggiano una bellezza assodata e al contempo ci hanno fatto scoprire nuove sonorità che solo l’incontro tra tre artisti così ben assortiti come Banks, Kaufman e Barrick poteva generare.

 

Muzz

Muzz

Matador Records

 

Francesca Garattoni

 

Endrigo “Anni Verdi”

Tre amici e la passione per la musica che dalla cantina di casa li ha portati a suonare per le feste di paese fino ad arrivare su palchi importanti. 

Si sono meritati il loro spazio nelle band alt rock italiane grazie alla malinconia che solo la voce delicata e grintosa di Gabriele Tura sa esprimere, al talento con chitarra, basso e tastiere di Matteo Tura e l’energia di Ludovico Gandellini alla batteria.

Il nuovo disco è anticipato dai singoli Infernino (affiancati dai Bologna Violenta), Smettere di Fumare e l’ultimo uscito Anni Verdi. 

Nonostante il titolo possa far pensare ad una rievocazione del passato, un racconto di una gioventù tra palchi, banconi del bar e casini, non è così. Come spiega Gabriele, questo pezzo è ambientato ai giorni nostri, nel presente. Rappresenta la vita passata un po’ allo sbando, tra concerti, interviste, birre. Sicuramente affascinante, ma col rischio di rimanere incastrati nell’adolescenza e di dover combatte per diventare adulti, per dimostrare a tutti di esser cresciuti, migliorati.

E puntualmente si ricade negli anni verdi, nelle sbronze e nelle cazzate.

Una nostalgica ballata alternative rock che esplode in un’accorata promessa.

È un lungo sabato sera, coi post sbronza, stanze di alberghi, gli imprevisti, le fan, le emozioni che solo il palco può regalare. Un trucchetto per sfuggire alla routine della vita “da grande”. Il lavoro, la famiglia, i rapporti imposti, le responsabilità vengono messi da parte, e per quella serata (o tour) esiste solo la musica; suonarla e farla vivere. 

Uno scambio di energie in eccesso. Loro esprimono, noi percepiamo, contraccambiamo e restituiamo. Benefici per entrambi le parti e s’abbracciamo. 

 

 

 

Endrigo

Anni Verdi

Garrincha Dischi / Manita Dischi

 

Marta Annesi