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Tag: recensione

Keaton Henson “Supernova OST” (Lakeshore Records, 2021)

Non ho mai recensito una colonna sonora. Non so come si faccia, né se si possa fare; o meglio, non sono sicuro si possa recensire una OST (Original Sound Track), senza aver visto il film per la quale è stata pensata, creata, arrangiata e realizzata. 

Non sono del resto nemmeno un grande cultore del genere, voglio dire conosco diverse persone che tra gli ascolti consueti hanno proprio le colonne sonore; ma io, un po’ per abitudine, un po’ forse per ignoranza, non mi sono mai mosso verso quei litorali, partendo da un assunto, certamente sbagliato, che non sia molto sensato scindere un film dalla sua musica, come se entrambi potessero aver vita solo se uniti, e che dividerli vorrebbe significare snaturarli e renderli altro. Il cinema muto del resto non è muto, sin dagli albori immagini e musica sono stati un connubio inscindibile e a dar maggior peso a questa considerazione piuttosto condivisibile ci sono anche le parole di Claudia Gordbman, che nel suo Unheard Melodies (una pubblicazione di diversi anni fa incentrata sulla musica nel cinema), sostiene che “change the score on the soundtrack and the image-track can be trasformed”.

Ad ogni modo non potevo lasciarmi sfuggire questo Supernova, esordio assoluto di Keaton Henson nel mondo del cinema. Il film in questione è uscito da appena qualche giorno negli Stati Uniti, è diretto da Harry Macqueen e vede come protagonisti, raffigurati anche in una splendida locandina, Colin Firth e Stanley Tucci. 

Non si tratta di un prime assoluto per l’artista inglese in ambito strumentale/orchestrale/sinfonico, avendo egli già dato alla luce un paio di anni fa lo splendido Six Lethargies, e questo nuovo lavoro continua ed espande quel clima di pathos e drama che sono da sempre presenze fisse ed imprescindibili della poetica del nostro. E credo sia proprio quello che cercava il regista, perché quando decidi di affidare la colonna sonora del tuo film ad un artista così particolare, che fa della malinconia e del rimpianto il suo terreno preferito, ti aspetti esattamente un lavoro come questo: i primi 40 secondi dell’iniziale The Night Sky sono otto, forse nove note di piano, lente, sotto le quali con un lungo crescendo si fanno strada gli archi, per sbocciare in una rapida sequenza che si esaurisce presto, per lasciar strada ad un intermezzo, Losing Tusker (Tusker è il nome del personaggio interpretato da Stanley Tucci, giusto per dare qualche riferimento in più). The Lake dona un minimo di apertura e respiro, con i violini che adagio s’incrociano in splendide volute, come nella successiva The Road To Lilly’s.

Un violoncello ed un contrabbasso compongono i quattro minuti abbondanti di A Silent Drive, dove ad una prima parte riflessiva seguono momenti incalzanti e sincopati, subito limati da un secondo passaggio più arioso ed orchestrale, Stargazing. Let Me Be With You è puro Keaton Henson, con quel pianoforte di una dolcezza abbagliante ed una coda d’archi dove non c’è molto spazio per la luce. La conclusiva Supernova è la composizione più articolata, che si manifesta in maniera quasi solenne, si sviluppa con una malinconica viola che sfocia in un finale tanto drammatico quanto magnifico.

La parola fine vien in realtà posta da Jeremy Young, un compositore ed improvvisatore, dedito principalmente alla musica concreta con registratori, tape e nastri (à la Basinski per intenderci) che ci regala un’interpretazione commovente del Salut D’Amour di Edward Elgar, qui lievemente rallentata per aumentarne, se possibile, la potenza evocativa.

Questa colonna sonora è un lavoro che trasuda Henson in ogni brano, in ogni nota quasi, dai momenti più narrativi a quelli più cupi, per cui adesso è forte la curiosità di andarsi a vedere il film, per scoprire quanto di ciò che emerge dall’ascolto trova effettiva rispondenza nella pellicola.

 

Keaton Henson

Supernova OST

Lakeshore Records

 

Alberto Adustini

Leptons “La Ricerca della Quiete” (Beautiful Losers, 2021)

Uno splendido, variopinto mosaico

 

Non sempre l’azzardo paga.

Non sempre, ma sta volta sì. Decisamente.

Il nuovo lavoro di Leptons, cantautore veneziano che risponde al nome di Lorenzo Monni, intitolato quasi provocatoriamente La Ricerca della Quiete e pubblicato dalla Beautiful Losers, è in realtà una centrifuga di idee, suoni, voci, colori, un disco vulcanico, quasi smodato nella sua apparente assenza di organicità e misura. 

È un disco abbondante ma non sovrabbondante, pregno, denso, quasi mai però pacchiano o affettato. Il suo maggior pregio è l’essere credibile nella sua densità.

Ci sono infiniti rimandi, citazioni, ci sono momenti più folk, altri ai limiti della dance, si strizza l’occhio alla musica tribale e a quella popolare, c’è del cantautorato e trovate il più delle volte decisamente azzeccate.

L’iniziale Il Canto Di Lavoro rimanda neanche tanto lontanamente all’Iosonouncane di Stormi, c’è anche un cameo in inglese con Great Escape (anche se a onor del vero lo si preferisce e convince di gran lunga di più in italiano), stralunate evoluzioni vocali di pura naturalezza e istinto in Una Lunga Vacanza, intermezzi strumentali in puro fingerpicking ne Il Diario Di Un Vulcano o ne Il Lago delle Favole, la davvero splendida Così Lontani, che rappresenta una sorta di compendio di quanto Leptons abbia messo in questo disco, una summa quasi. La Trilli finale (cos’è? Una quadriglia? Un qualche brano folkloristico? Ma arrivati a questo punto importa davvero?), è forse la perfetta conclusione di un lavoro che ha molti più meriti e pregi che limiti, un disco fatto di azzardi, rischi, non sempre calcolati, talvolta forse nemmeno necessari, ma che ce lo fanno apprezzare ancora di più. 

Si criticano spesso certi artisti perchè fanno sempre lo stesso disco, beh in questo La Ricerca Della Quiete, Leptons non fa mai nemmeno la stessa canzone.

 

Leptons

La Ricerca della Quiete

Beautiful Losers

 

Alberto Adustini

Oremèta “Saudade” (Glory Hole Records, 2021)

Il Maestrale trasporta musica esotica, la samba si mischia con le risate di tre ragazzi sul balcone.

Ma qui non siamo a Rio, siamo a Ostia.

E qui, non stiamo festeggiando il Carnevale, siamo in lockdown.

I loro ricordi, le loro esperienze ora diventano racconti, le idee si trasformano in speranze per il futuro.

Uno di loro ha una chitarra, strimpella qualcosa mentre l’altro butta giù due frasi. La ragazza guarda lontano verso l’orizzonte. Dopotutto sono fortunati, loro hanno il mare. 

Quello che all’inizio era un passatempo si evolve, cresce, fino alla creazione di una band, gli Oremèta (Chiara Pisa voce e testi, Dario Cangreo testi e voce, Giulio Gaigher compositore) che presentano il loro primo album Saudade, una serie di storie dai profumi esotici, una bossa nova romana che narra di malinconie, di viaggi, di claustrofobia, di routine temporaneamente sospese e affetti lontani.

Chiusi nelle nostre case bramiamo spazi aperti, i banconi appiccicosi dei bar, gli abbracci, la calca dei concerti; soffochiamo nella nostra fame d’aria. La malinconia ci schiaccia, appiattendoci al suolo, e l’unica via d’uscita per la sanità mentale è ricercare nella memoria i momenti in cui ci sentivamo liberi, e rivivere quella sensazione. Se fatto in gruppo poi, diventa più potente. 

Con il loro sound particolare diventa difficile “etichettare” il loro stile, si passa da testi molto profondi, temi delicati e flussi di coscienza prosperosi, a tracce molto commerciabili, fluttuando con la bossa nova in un universo contaminato dall’hip hop, invaso dall’elettronica e dal soul.

Questo album ha un cuore, poderoso, che batte dentro a tutti i brani.

Rime eleganti che feriscono come spine di rose, un flow vellutato in Pangea (feat Soulclore); la nostalgia tagliente per gli affetti lontani è il tema di Se alle Sei, la cui intro è una telefonata vera della nonna di Chiara durante il primo lockdown e racchiude tutta la saggezza che solo gli anziani hanno con la frase “Quando sei obbligato vorresti uscì”.

Il tema degli affetti al di là del mare è anche in Bakarak, la storia di un loro amico congolese, della nostalgia di casa sua, del lavoro al porto che lo fa sentire quasi vicino alla sua patria.

Saudade e Interludio sono il frutto di ricordi di un viaggio in Brasile, versi nostalgici su come il progresso alla fine approdi anche nel paesino di pescatori sperduto, e distrugga la semplicità di una vita che bastava a se stessa. Le rime serrate, affilate, colpiscono nel profondo, Dario possiede un flow autentico, caldo.

Meta, quinto brano dell album, è una ballata pop, uno sfogo post lockdown, pieno di solarità e positività, si poteva di nuovo uscire, sembrava la libertà e, altezzosi, si poteva ripensare a quel periodo di clausura quasi sorridendo.

La rabbia verso gli oppressi scoppia violenta in un hip hop denso e scomodo in Passaporto; i toni rimangono accesi in Diario, condanna verso i pestaggi di Ostia, Salvini e Casa Pound, delle spedizioni punitive ai campi di rom di Torre Maura.

Da un balcone di un palazzo di fronte al Lido di Ostia questi tre ragazzi non ci parlano solo di nostalgia e mancanza, ma anche di speranza e rinascita. Abbiamo bisogno di esprimerci, di lasciare un pezzo di noi per buggerare la morte, un motivetto che continua ad essere canticchiato rende eterna la storia di qualcuno.

 

Oremèta

Saudade

Glory Hole Records

 

Marta Annesi

Moltheni “Senza Eredità” (La Tempesta Dischi, 2020)

Ne è passato di tempo, caro Moltheni. 

Dopo undici anni da Ingrediente novus, esce Senza Eredità per La Tempesta Dischi. 

Quest’album recupera, riadatta e completa quelle canzoni che non avevano trovato posto in nessun disco di Moltheni (Umberto Maria Giardini) dal 1998 e rappresenta la chiusura di un progetto senza eredi, senza eredità.

Non è stato affatto facile trovare le parole per descrivere questo ascolto. Lo ha detto Moltheni stesso in Spavaldo: “La mia identità puoi tradurla ma il vocabolario non ce l’hai”, ed è proprio vero.

Questo disco è un tuffo nell’indie-rock e negli anni Novanta ma non solo. Gli organi e il Rhodes piano mi riportano anche più indietro, ai tempi di Stevie Wonder. Così, l’outro funkeggiante di La mia libertà, pezzo in apertura dell’album, trasmette quella sensazione di leggerezza definendo la libertà come “Il dito medio temerario [che] attende tranquillo che arrivi il mio turno con te”.

La stessa leggerezza che ritrovo in Estate 1983. Il ritorno all’adolescenza è dolce come una carezza e fa riscoprire i sapori delle piccole cose. Gli arpeggi sono un treno ed ogni fermata è un ricordo lontano. La destinazione sembra essere la nostalgia, un sentimento che cresce sul finale del brano ma che Moltheni scaccia grazie al mantra: “ignorare il tempo”. 

A dispetto del titolo, Il quinto malumore ha lo sprint necessario per essere considerato il pezzo più rock di questo album. Le chitarre me lo confermano. 

Tutte quelle cose che non ho fatto in tempo a dirti è l’ascolto che chiude l’album. In questo periodo di difficile gestione psicologica, la ripetizione incessante della “follia che abitava abusiva in un appartamento della mente mia” mi abbraccia e si insinua nella mente, tanto da farmi sentire quel disagio.

Questo disco dalle mille sfaccettature affronta una grande varietà di temi: la libertà, l’amore, la verità, il dolore, temi costanti e senza tempo, temi che non si esauriscono. E forse, proprio per questo, non è del tutto vero che la chiusura di Moltheni sia “Senza Eredità”. 

 

Moltheni

Senza Eredità

La Tempesta Dischi

 

Cecilia Guerra

Giorgio Canali & Rossofuoco “Venti” (La Tempesta Dischi, 2020)

Ma come accidenti si fa a recensire un disco del genere? È una vergogna!

Per quale assurdo motivo dovrei parlare di questo disco? Io me lo tengo per me. Solo per me.

Come quelle cose belle e preziose, che vuoi proteggere da occhi indiscreti e assetati, avidi e inconsapevoli, immeritevoli perfino; e poterne godere da solo.

Dai capita a tutti, questa sensazione. La provo, la si prova, quando troviamo qualcosa di bello, diventiamo gelosi, egoisti, immaturi. 

Con la musica accade, per esempio, quando il nostro gruppo underground si fa popolare, mainstream. A Giorgio Canali frega un cazzo del mainstream. E io ne sono contento.

Ma allo stesso tempo dico: “Porco cane! La bellezza bisogna condividerla! In culo a chi non saprà apprezzarla, m’importa una sega, sai ma fatta bene.”

Tutta questa premessa per parlare di un disco di cui io, in realtà, non vorrei parlare. 

Non fanno per me le recensioni, le descrizioni, i tecnicismi, gli elenchi. Per cui parlerò delle sensazioni, dei riferimenti a cui mi rimanda, delle bestemmie, delle risate, delle lacrime. 

Parlerò di me. Megalomane! Egoist!

Eh sì, perchè quando ascolti un disco, poi diventa tuo, nel senso più umano del termine. Sei tu.

Come quando esco a fotografare; un paesaggio, una persona, una situazione. Anche se non sono presente fisicamente nel fotogramma, in quella foto ci sono io, sopratutto io. Così nella musica.

Seguo Giorgio Canali & Rossofuoco dal loro secondo album, me ne innamorai subito. 

Non per il passato di Giorgio (CCCP, C.S.I., PGR), ma perché quell’album mi arrivò dritto in faccia come una badilata e mi scosse i neuroni. Era il 2004.

Sedici anni dopo esce Venti, ottavo album della band capitanata da Canali.

Inghiottisco l’album, poi lo rigurgito, poi inghiottisco ancora, e lo rigurgito. In loop.

Ne escono delle emozioni, dei pensieri, brividi, rabbia, imprecazioni, lacrime, malinconia, sorrisi, insoddisfazione, impotenza. No resilienza no! Per Dio!

Venti tracce, un album doppio, c’era troppo da dire. 

Il tempo non mancava per pensare e scrivere durante la scorsa primavera. E Giorgio Canali, che non le manda a dire, butta tutto in musica e parole quello che gli frulla in capo. Che mai è scontato. Ed è un privilegio. 

Lo stile è riconoscibile, la voce inconfondibile. Le chitarre di Giorgio sono un must, qui affiancate da un immenso Stewie Dalcol (Frigidaire Tango). Le percussioni di Luca Martelli (Litfiba, Piero Pelù, Atroci) danno un ritmo perfetto e sostenuto a tutto. Lo si vede, e si sente, sopratutto nei live dei Rossofuoco. E Poi Marco “Testadifuoco” Greco, con quel basso che a volte tira un po’ indietro alla Maroccolo, che tanto piace a Canali. Ingredienti e dosi perfette!

È un album, Venti, che è la perfetta e naturale continuazione del precedente Undici Canzoni di Merda con la Pioggia Dentro, fatto del solito pessimismo cosmico, solitudine (non vista con accezione negativa), senso critico, schiettezza, amore e malinconia, una visione noir del mondo che continua ad andare contro un muro a velocità smodata. Consapevolezza, sempre.

A volte, ascoltandolo, mi viene da pensare a una frase che spesso si usa per apostrofare gli sprovveduti: ve l’avevo detto io!

Nel 2004, in tempi non sospetti, il brano Questa è una canzone d’amore recitava cosi: “..epidemie terrificanti, nuovi contagi e vecchi mondi da evitare e noi qui infila a farci rivaccinare che tanto questa è una canzone d’amore.” Chapeau!

Questa pandemia, con le sue conseguenze sociali, economiche e politiche ha fatto ribollire il sangue a Canali che da sempre ha una visione critica e autocritica di ciò che lo circonda, è palese. Ciò non significa dire sempre NO! Piuttosto di vedere le cose da diversi punti di vista, che non per forza devono essere giusti o sbagliati. Questo fa l’ex C.S.I. nei suoi album. Questo è quello che vedo io perlomeno. 

E lo fa meravigliosamente anche in questo doppio album Venti: venti come i brani, e come questo duemilaventi funesto, ma quanto mai rivelatore. Diciamoci la verità; è un anno che ci ha fatto riflettere, su ogni cosa. Poi a ognuno le sue conclusioni.

Quindi, per stringere un po’, in questo album c’è tutto Canali, è proprio lui, senza filtri e manierismi, politicamente scorretto e socialmente diretto. 

Si apre con Eravamo Noi, un viaggio a ritroso negli anni per poi guardare al futuro, poi la ballad noir Morire Perché, primo singolo estratto dall’album. Prosegue con Nell’aria, un racconto fulgido di quello che abbiamo vissuto quest’anno, tra paura e libertà negate. Inutile e irrilevante è invece un elenco di “mostri” di cui possiamo anche non preoccuparcene più perché ora abbiamo un altro mostro da affrontare. 

A proposito di elenchi; non volevo farne, ma ho perso il controllo. Ora smetto. Non serve, è inutile e irrilevante.

Posso dire con assoluta sincerità che è un bellissimo album tagliagola, in cui le chitarre graffianti e ululanti di Canali e Dalcol si fondono con il combat rock stile Clash e le armoniche folk in stile Bob Dylan. Questo non che cambi i connotati al suono dei Rossofuoco, che è ben presente e vivo; ma c’è un tocco in più, qualche raffinatezza stilistica forse anche dovuta dal tempo a disposizione durante il lockdown. 

Posso dire, inoltre, che c’è spazio per l’incazzatura, la lucida malinconia, la solita consapevolezza come già citata, un pizzico di amore, forse anche di delusione; tutto ben amalgamato.

Posso anche dire che è un album ricco di citazioni d’autore, una su tutte, la più facile, De Andrè.

Il disco si chiude egregiamente con un brano, Rotolacampo, che sembra un brano uscito da un disco di Bob Dylan e che è la firma perfetta, la chiosa di uno sfogo diretto e senza perbenismi, ed inizia così: “È ora di andare dai, basta pensare, partire, ruzzolare via, si è dato già troppo tempo al tempo e via, come un rotolacampo, è ora di spargere in giro semi di follia.”

E qui finisco anche io, da dire ce ne sarebbe sempre tanto, ma come sempre la cosa migliore quando si parla di musica, è ascoltarla.

Quindi fatevi un regalo con questo disco, in alternativa “Fatevi Fottere”(cit.).

 

Giorgio Canali & Rossofuoco

Venti

La Tempesta Dischi

 

Siddharta Mancini

Pinguini Tattici Nucleari “AHIA!” (Sony, 2020)

Da una band che ha deciso di chiamarsi Pinguini Tattici Nucleari ci si aspetta sempre un po’ qualche colpo di genio. E stavolta la genialità si è palesata durante la conferenza stampa – o meglio videoconferenza stampa, “covid oblige”, come direbbero i francesi – per la presentazione della loro ultima fatica, l’EP AHIA!. La band ha infatti scelto come moderatore Valerio Lundini, comico romano diventato una vera e propria star televisiva e di internet grazie alla sua trasmissione Una Pezza Di Lundini.

Tutta la prima parte della conferenza si è svolto in questo clima surreale tipico delle interviste di Lundini, con un susseguirsi di domande che viaggiavano tra serietà ed ironia e risposte che reggevano il gioco. Il connubio tra la band e il comico funziona così bene da sperare di vederli come ospiti nel programma di Rai2. 

L’evento in realtà era una sorta di doppia promozione, dove da un lato si parlava del disco e dall’altro del romanzo di esordio di Riccardo Zanotti, sempre dal titolo AHIA! (decisamente appropriato per questo 2020), e che insieme vanno a comporre le due parte di un unico progetto artistico. Il libro e l’EP sono legati tra loro soprattutto da temi che si ritrovano sia in un uno che nell’altro, come il rapporto con la famiglia o il concetto di maschera, ha detto Zanotti.

La scelta di far uscire un EP, al contrario del solito LP, è stata invece ponderata: sette erano le canzoni pronte e rifinite e sette ne sono uscite. “Poche ma incisive” ha detto Elio Biffi, il tastierista della band, e ad ascoltare AHIA! non si può che dargli ragione. Si parte con Scooby Doo, il secondo singolo pubblicato dopo La Storia Infinita, che con la sua intro che strizza l’occhio alla trap è un po’ una dichiarazione d’intenti: questo sarà un lavoro di sperimentazione, definito più volte “pop art”, che mischierà vari stili in modo eterogeneo. 

Oltre alle sonorità trap, troviamo ad esempio Pastello Bianco, una ballad sulla fine di una relazione più classica e “sanremese”, anche se hanno assicurato che il ritorno all’Ariston non è previsto per il futuro prossimo, nonostante l’istituzione sia stata citata più volte nel corso della conferenza, oppure Ahia, il pezzo che chiude il disco e riprende le origini più folk della band. 

Il cambiamento, l’evoluzione e la ricerca di nuovi linguaggi — pur senza tradire ciò che si è e ciò che si vuole dire — diventano quindi una componente fondamentale di questo EP, ma in realtà, ad ascoltare anche i loro pezzi precedenti, sono sempre state delle costanti nella loro musica e i fan lo sanno bene. 

Ma AHIA! è soprattutto un lavoro pop e non nel senso di commerciale, che è una parola che fa piegare anche la musica alla logica di mercato: questo pop va inteso come popolare e di massa, frutto della consapevolezza — nata dopo il successo al Festival di Sanremo che li ha portati ad un’ulteriore consacrazione, questa volta a livello nazionalpopolare — di arrivare ad un pubblico molto più ampio, variegato e a volte anche più giovane di prima. Una bella sensazione, hanno raccontato, ma allo stesso tempo una responsabilità e una sfida stimolante, perché diventare mainstream — spogliando il termine di tutte le connotazioni negative — significa anche parlare a gente con cui prima si aveva meno a che fare.

Restano però tutti quei riferimenti culturali – dal DAMS al McFlurry alla parola “cringe” — che hanno reso la band bergamasca un punto saldo per la generazione di fine anni ’90: quella dei bambini che videro “quella puntata della Melevisione/Interrotta da torri/Che andarono in fiamme” e della “bambina che baciava Harry Styles in TV”, per citare Scrivile Scemo, probabilmente il pezzo più ballabile del disco.

Sono tutti temi concreti e quotidiani, quelli dell’EP ed in generale della loro discografia, ma sentir cantare di neo-convivenza, di tradimenti che sono più fraintendimenti che tradimenti, di solitudini e difficoltà con l’università in modo così scanzonato e diretto, a volte allegro e a volte meno, è in qualche modo di conforto. Ed è fantastico che questa concretezza e quotidianità siano state sdoganate nella musica, se non altro per sentirci meno soli, a maggior ragione in questo periodo di incertezza e aleatorietà.

Insomma, è un bene che AHIA! sia uscito, anche se per il momento non potrà essere vissuto a pieno come la musica richiede e cioè dal vivo, urlando sotto ad un palco insieme ad altre migliaia di persone. È un bene perché è un barlume di normalità – quella che ci manca anche se non è sempre un granché — in un momento in cui di normale non c’è niente o quasi. 

E abbiamo decisamente bisogno di tornare a commuoverci o a ridere sulle cose normali.

 

Pinguini Tattici Nucleari

AHIA!

Sony

 

Francesca Di Salvatore

The Smashing Pumpkins “Cyr” (Sumerian Records, 2020)

È quasi una settimana che la sera, dopo lunghe giornate al freddo, mi siedo davanti a un foglio bianco, penna preferita in mano, cuffie che annullano il mondo e Cyr degli Smashing Pumpkins nelle orecchie. 
Ma nulla.
Scarabocchi. Poi qualche spunto, catene di idee, associazioni, assonanze, accordi. Di fatto, nulla. Ho disegnato la mappa della terra di mezzo. Winnie The Pooh. La penna mi cade, mi addormento al sesto “Ramona” dell’omonima (anonima?) traccia.
E qui, caro lettore, avviene il sovrannaturale. 

 

A Corgan Carol

Suonano alla porta. Apro, per strada non c’è nulla se non un piccolo furgone dei gelati turchese. Un anonimo ragazzo vestito di bianco mi fa cenno di salire.
Guida, senza proferire parola. Io mi fido e mi riaddormento, comodo, sul sedile del passeggero.
Mi risveglio quando una chitarra irrompe dallo stereo del van. È un giro che conosco, è un ingresso che è un marchio di fabbrica, Today, da Siamese Dream, 1993.

Cazzo Billy. A ventisei anni. Lo guardo bene, è proprio lui.

Lo Spirito del Corgan Passato. E mentre andiamo a zonzo per il deserto, come in Zabriskie Point, dallo stereo escono note e ricordi, un memorandum del perché li ho adorati e li adoro. Eclettici, ma con una metrica proprietaria, con un linguaggio unico, mentre negli USA e nel mondo divampava il sacro fuoco del tempio di Seattle, loro predicavano fuori delle mura. Erano chitarre, chitarroni, carezze e pugni in faccia. Prima Gish, 1991, con quella Rhinoceros capace di ipnosi profonde, poi Siamese Dream, il primo vero capolavoro, e ancora, nel cuore degli anni novanta esce il magnum opus della band, quel Mellon Collie and The Infinite Sadness che è materia obbligatoria se sei nato prima del 1985. Poi il mondo-vampiro di Bullet with Butterfly Wings si incarna nello stesso Corgan: da Adore in avanti cambia l’iconografia, cambia il peso, cambia il secolo.
È un giro cinematografico, che inizia dal Melies di Tonight Tonight, passa per il Nosferatu di Murnau di Ava Adore e termina nella nuova immagine di Shiny and Oh So Bright, Vol. 1, vicino, vicinissimo alla Maria-robot di Lang in Metropolis.

“Billy, eravate una colonna, un totem della mia adolescenza, di grazia, spiegami cosa è successo. Dimmi perché il tuo nuovo disco mi porta fuori dalle rotte conosciute, dimmi soprattutto che cosa ci faccio sul furgone di Today in una sorta di racconto onirico autocelebrativo”.
Tace. Il maledetto ragazzo vestito da gelataio, compagno di tanti viaggi, serate, chiacchierate, condivisioni vis-à-vis che ai tempi di social c’erano solo i Distortion, mi guarda e non favella. 

Billy inchioda. Nel preciso istante in cui la mia schiena si stacca dal sedile mi sovviene un Buckle Up  di zio Gossard, ma è tardi.

Cruscotto. Nero. Dolore.

Scopro che i miei sogni sono a colori, rosso sangue sicuro, e che del dolore ho esperienza approfondita quanto basta per replicarlo alla perfezione. Riaperti gli occhi ho davanti un Corgan di bronzo, alto una decina di metri, un ibrido inquietante tra un buddha ipertrofico e una campana. Bocca spalancata, sembra l’oracolo di Chicago. Ai suoi piedi, legati come fu Carrie Fisher a Jabba The Hutt, stanno James Iha e Jimmy Chamberlin. Più o meno è la rappresentazione iconografica del rapporto di forze in Cyr. O del rapporto di forze tra Corgan e il mondo. Lui che questo disco lo ha suonato (quasi tutto) da solo, lui che, quando i due amici hanno osato far uscire qualche nota, si è appeso al synth come un Fantasma dell’Opera in crisi di astinenza. Anche i cori, ovunque cori, cori dappertutto.

Sono tentatissimo di chiedergli se basta che io batta i tacchi tre volte per tornare a casa, ma quando mai mi ricapita di provare a fare due domande direttamente all’ego di William Patrick Corgan? O potrei serenamente e plasticamente chiamarlo Spirito del Corgan Presente?

“Oh grande Oz, come ti è venuto in mente di abbandonare le chitarre in favore di loop degni della saga di MegaMan?”. No, forse questo lo irriterebbe. “Billy, ossequi. Non credi di aver esagerato con gli uptempo?”. No, no, ancora no.
“Billy, dopo Sheila e Martha, cosa è successo a Ramona? Non noti anche tu che sei andato fuori tema?”.
Fanculo. “Corgan, mi manchi”.

Ecco. Il punto è questo. Sai che sta arrivando un disco degli Smashing Pumpkins. Ascolti i mille singoli, e mentre arricci il naso speri sia solo una parte delle venti tracce a presentare distanza così siderali dalla loro produzione precedente. Insomma, nel mucchio ritroverò i miei amati. Invece no. Come una carbonara perfettamente impiattata, ma inquinata di prosciutto e panna, così Cyr sostituisce un immaginario, un gusto, un bouquet (mi si passi), con qualcosa di completamente diverso.
O anche no. Perché questo grasso album è molto più affine ai lavori in solitaria di Corgan. Qualcosa di Cotillions è percolato in Cyr, elettrificato, sintetizzato, magari mitigato dalla presenza di Iha e Chamberlin, ma ho ritrovato sonorità già sentite nelle solitudini del nostro Billy.
Pesante, come questa statua. Rimbomba, come questa statua. E ho letto di riferimenti ai difficili tempi moderni, di paternità e di responsabilità. La verità è che mi manchi, punto. Anzi, mi mancate. E in questo album mi è mancato il coraggio di urlare, maleducatamente, che la rabbia non è passata, semplicemente da topi in gabbia siamo passati a un livello superiore, fosse anche solo di conoscenza di sé.

Cyr invece sembra autocelebrarsi. Autocitarsi. Autoqualcosa così tanto che alla fine si avvita su sé stesso e scompare. Io ho perso il confine tra una canzone e quella successiva, in un continuum di elettropop così lontano dalla mia immagine degli Smashing Pumpkins che la labirintite è un possibile effetto secondario.
Ecco, caro Corgan, adesso hai la mia di rabbia.

Dissolvenza in nero.

So cosa accadrà ora, il mio livello onirico è munito di sceneggiatore privo di particolari fantasie. Temo solo la visione finale che lascerà lo Spirito del Corgan Futuro.

Esterno, notte, piove, davanti a casa. Parcheggiato sulle strisce sta un camioncino turchese dei gelati, pieno di schizzi di colore su una fiancata. Enorme, invece, la figura nera, incappucciata, che mi impedisce la vista della porta di casa. Insomma, Billy, cos’è, un revival di Adore?
Esce una mano scheletrica da sotto la palandrana.
In mano, o meglio, retto dalle ossa della mano destra sta un doppio LP. A stento leggo un minacciosissimo Mellon Collie vol. 2.
“Ti prego, VI prego, abbiate cura del nostro futuro insieme e di una certa eredità che andrebbe, almeno io penso così, rispettata”.
La figura grugnisce. Si gira. Sulla palandrana nera sta una scritta in bianco: ZERO.
Ripartiamo da lì, da zero. 

Mi sveglio. Cuffie accese, synth a pioggia. Ho bisogno di una cura, ho bisogno di tornare su quel furgoncino, ho bisogno di una carbonara come dio comanda.
Cyr lo lascerò a questo 2020, in questo buco nero senza ancora un indice, lo lascerò così com’è, ben impacchettato, ottime plastiche, tutto digitale.
Capita a tutti di inciampare, spero solo non lo si prenda per un bellissimo e spericolatissimo salto.

 

The Smashing Pumpkins

Cyr

Sumerian Records

 

Andrea Riscossa

Phoebe Bridgers “Copycat Killer / If We Make It Through December” (Dead Oceans, 2020)

Non mi vergogno a dire di essere arrivato tardi. Capita.

In più sono anche particolarmente orgoglioso di aver superato la mia naturale ritrosia e sofisticatezza nei confronti dei nomi troppo mainstream e inflazionati, come in effetti quello di Phoebe Bridgers potrebbe sembrare.

Tuttavia mi sa che siamo di fronte ad una versione femminile di re Mida, almeno attualmente, perché la ventiseienne californiana continua imperterrita a trasformare in oro tutto ciò che le passa per le mani, vi basti fare un salto su Youtube e cercare Phoebe + Bridgers + Radiohead (poi mi fate sapere).

Ebbene quasi a sorpresa qualche giorno fa la nostra esce con un EP, Copycat Killer, quattro brani, quattro estratti del suo ultimo album, Punisher, rivoltati e scarnificati e ridotti all’osso e poi rivestiti di archi e arrangiamenti che poco avevano da spartire dai precedenti ma che stanno di un bene che sembra siano nati assieme.

Prendi una Kyoto, che il suo incedere à la Belle and Sebastien diventa una dolce confessione su quel mirabile tappeto orchestrale fatto di viole e violini e molto altro, arrangiato dal prodigioso Rob Moose. Così la dolce Savior Complex e le sue chitarre folk e quel malinconico violino assumono toni quasi teatrali, con partiture ariose alternate a pizzicati saltellanti, come pure nella successiva Chinese Satellite. Punisher, scritta assieme al sempre caro Conor Oberst, a chiudere questo quartetto, in maniera molto più che degna questi 13 minuti che valgono tantissimo.

Qualche giorno appena ed ecco un altro EP, If We Make It Through December, altri quattro brani, tra cover e vecchie registrazioni, a tema Natale. Allora risparmiatevi (e risparmiamoci) stucchevoli polemiche o discussioni inutili su questo tipo di operazioni, ok? Me lo sono comprato su Bandcamp, l’ho pagato 5,13 € col cambio, non me ne pento, soprattutto perché è meraviglioso. E a me il Natale piace. E piace anche la buona musica.

Già l’omonima traccia d’apertura, incisa da sua maestà Merle Haggard nel 1973, regala, è proprio il caso di dirlo, emozioni sincere che se non vi si muove qualcosa ad altezza del cuore avete qualche problema mi sa, con la voce di Phoebe che mostra sfumature e colori che non avevo saputo vedere in passato, come quel flebile, talvolta impercettibile tremolo che si palesa, di tanto in tanto.

7 O’Clock News/Silent Night è invece un rifacimento del brano di Simon & Garfunkel (cioè il brano è Silent Night, quello famoso), cantato in coppia con Fiona Apple, con il contributo di Matt Berninger nelle vesti di anchorman a dare le notizie, che piano piano crescono fino a coprire il soave duetto femminile nel celebre motivo natalizio (con le cuffie l’effetto è molto migliore, parer mio). E sono brividi veri. Nuovamente.

Christmas Song mi ha ucciso, letteralmente. Un duetto con Jackson Browne (proprio lui) che ti scava dentro in maniera inesorabile. È una canzone di Natale, ma triste, con quel piano annacquato, “The sadness comes crashing like a brick through the window / And it’s Christmas so no one can fix it”, poi cresce, ma quando finisce continui a ricantarti in testa “You don’t have to be alone to be lonesome”. 

Have yourself a Merry Little Christmas torna nei binari della classicità, senza perdere quel tocco di phoebismo che ormai starete adorando quanto me e se guardate fuori e molto probabilmente, come me, non vedrete la neve, sarete comunque già in pieno clima natalizio. 

Questa è magia.

 

Phoebe Bridgers

Copycat Killer

If We Make It Through December

Dead Oceans

 

Alberto Adustini

Viadellironia “Le Radici sul Soffitto” (Hukapan, 2020)

Saturno Notturno

 

Bernhardt, il pezzo che apre questo disco, in poco meno di tre minuti, presenta una delle chiavi di lettura della prima opera delle Viadellironia, e lo fa con una densità di riferimenti impressionante, sia letterari sia musicali, e con un peso specifico del testo che cresce per accumulo durante lo scorrere delle immagini evocate. Il sottile disagio che si prova nel constatare la propria inadeguatezza a un mondo molto più basso delle proprie aspettative, reali e culturali, è uno dei temi: vorremmo essere Sarah Bernhardt alla prima della Tosca, ma siamo mosche, che contemplano la merda.

Un bellissimo biglietto da visita.

Benvenuti sulla giostra delle Radici Sul Soffitto opera prima di Maria Mirani, Giada Lembo, Marialaura Savoldi, Greta Frera, pubblicate da Hukapan, ovvero la casa discografica di Elio e le Storie Tese – autore dell’operazione infatti è Cesareo, storico chitarrista della band milanese.
Le quattro avevano pubblicato un EP nel 2018 dal titolo Blu Moderno che presentava temi e stile di quanto poi ripreso ed esploso nel loro primo LP.

Le dieci canzoni trattano temi come la ricerca del proprio posto nel mondo, mediata da una sana e disillusa ironia, o il peso del linguaggio, che qui non è solo un mezzo per spiegare il mondo (o per spiegarsi ad esso), ma è uno strumento attivo, creatore, che plasma la realtà del narratore, ci porta una visione, un punto di vista incredibilmente a fuoco. La parola è una “diva del sonoro trapiantata nel silenzio di Cabiria”, e ancora il linguaggio “si è sporcato con quello dello scemo del villaggio”. Siamo al pop semantico, pronipote di uno schiaffo a bordo piscina dato da un giovane Moretti. Che aveva ragione allora e adesso ancor di più.

Stupisce l’età delle ragazze, e stupisce la mole di riferimenti evocati nei pezzi, che contribuisce a definire i confini degli scenari messi in note. Ci sono idee, opinioni, una forma di stanca saggezza che filtra la realtà che sta lì, aldilà del letto.
E il letto è uno dei tanti luoghi che ritornano spesso, quasi a dare una geografia al lato onirico dei pezzi, a giustificare lo spleen cosciente, dotto e lucido della voce narrante.

Un piccolo Gregor Samsa pieno di accidia che attende di comprendere se la metamorfosi debba avvenire fuori o dentro sé. Chissà.

Musicalmente siamo tornati indietro di trent’anni, che detta così pare una sconfitta e invece è qui il risultato di una fine ricerca di una forma che sposi forma e testo. Il cantautorato primi anni novanta, indie, tra Afterhours e i più tardivi Baustelle, ma nel lento e scandito cantare si sente qualcosa di più antico, senza scomodare nomi sacri citiamo solo Genova come riferimento. Le due scritture hanno però un piede aldilà dell’oceano, perché spesso ci sono echi ai progenitori del genere, da PixiesSonic Youth ed anche la scrittura talvolta sembra seguire modelli anglosassoni, pur rimanendo, a livello di contenuti, attaccatissima alla nostra cultura.

È un disco notturno, un disco pieno di morte, di identità spigolose, un disco che parla alla testa e che suona alla pancia. E la sintesi, anzi la sincresi tra i due moti avviene a metà disco, con la Canzone Introduttiva, una marcia blues solenne e da pelle d’oca, in cui riescono a citare anche Primo Levi, ed è l’unico momento in cui la voce della Mirani graffia e sporca la sentenza cantata.

C’è il tema del tempo e della memoria, in La Mia Stanza così come in L’Architetto, dove tempo e relazioni producono paradossi alla Escher, anche se a fermare la possibile spirale ci pensa Mangoni (che architetto lo è davvero) la cui sola presenza fa vacillare ogni pretesa di serietà. La collaborazione più interessante si trova in Ho la Febbre in cui troviamo Edda, in un riuscito duetto/dualismo che è uno dei momenti di scrittura più alti dell’intero disco.

I riferimenti letterari si manifestano nel trittico finale: Simile a un Morente, Stampe Giapponesi, Figli della Storia. Qui siamo nel decadentismo, nella Parigi di Huysmans, siamo ai saturnali, si arriva a citare Baudelaire in modo – quasi – letterale (i paradisi artificiali e tutti i mali degli amanti).

Il tutto si chiude con una domanda: “Com’è possibile far parte della storia / se non assomigli a niente / e se sosti quasi sempre / sulla soglia?”.

È stato un viaggio profondo, interessante, arricchente. Un continuo evocare fantasmi ed echi, a sostenere una visione molto personale della realtà.

Da risentire ma soprattutto da vedere, il giorno in cui di nuovo ci sarà concesso l’antico lusso dei concerti.

 

Viadellironia

Le Radici sul Soffitto

Hakupan

 

Andrea Riscossa

The Zen Circus “L’Ultima Casa Accogliente” (Polydor/Universal, 2020)

Negli ultimi mesi abbiamo sentito parecchio parlare di casa, forse troppo e forse nemmeno in modo così accomodante, ma piuttosto senza troppi fronzoli. Però, nel loro nuovo album L’Ultima Casa Accogliente, che arriva dopo un 2019 di festeggiamenti tra i vent’anni di carriera, i dieci del disco Andate Tutti Affanculo, l’omonimo romanzo e il Festival di Sanremo, gli Zen Circus reinseriscono questa parola in un altro paradigma, fuori dall’attualità: la casa diventa il nostro corpo – e prima ancora il corpo di nostra madre — con una marea di immagini che vi ruotano attorno. Un corpo che può essere prigione da cui volersi liberare, come in Catrame, o può essere rifugio e rassicurazione, specie se condiviso con qualcun altro. 

Certamente anche in questo disco si potrebbero trovare dei riferimenti a ciò che stiamo vivendo, ma ridurlo a questo pare un dispetto nei suoi confronti. Perché sì, è facile leggere un po’ di attualità in strofe come “Il cielo è un tetto sopra le case / quindi alla fine non usciamo mai” di Appesi Alla Luna oppure “quanto è difficile da immaginare / come una guerra dove non si muore /o una malattia che non ha sintomi e anche senza cura / non dà dolore” di Come Se Provassi Amore. Eppure, farlo sembra una cattiveria, quasi a togliere a queste canzoni quell’aura di poesia un po’ brutale che le rendono universali e non dovrebbero, quindi, perdere mai.

Già, perché se c’è una cosa che è da sempre parte integrante della discografia degli Zen Circus è la potenza che attribuiscono alle parole. Quella non cambia mai, forse è solo meno cattiva rispetto a dieci anni fa, quando cantavano Gente di Merda, ma resta comunque una forza brutalmente sincera nella sua poeticità.

Resta anche l’impegno, la volontà di far passare un messaggio che vada oltre e scuota un po’ le coscienze. Emblematica è la fine di 2050, che cerca di predire come sarà il mondo tra trent’anni piantando però il seme del dubbio: tutto quello che facciamo spinti dalla voglia di progresso servirà a qualcosa? “Abbiamo fatto tutto / abbiamo fatto niente” recita l’ultima strofa, alla fine di un climax che è un po’ anche il marchio distintivo dell’album. 

È raro infatti che queste canzoni seguano la struttura classica e ripetitiva di strofa e ritornello. Al contrario, e forse contro logica, è molto più facile trovare pezzi in cui tutto è un crescendo, dalla musica alla voce che si fa sempre più carica. C’è poco che si ripete, per lasciare invece spazio ad una sorta di tensione verso l’alto. Già si vedeva nel secondo singolo pubblicato, Catrame, dove le prime frasi sono addirittura cantate a cappella prima di lasciar spazio anche a chitarra e batteria, ma si sente ancora meglio in Non, che inizia con una base di pianoforte, per poi aggiungere gli altri strumenti uno alla volta. Anche la voce diventa sempre più forte, arrivando quasi ad urlare, per poi sfumare alla fine.

Insomma, un album più suonato che pensato, per citare la stessa band. Un racconto eterogeneo dove ogni pezzo ha la sua parte, ma alla fine tutti sono legati da un unico filo conduttore, da tante immagini comuni. 

E ascoltarlo, in qualche modo, lascia un po’ la sensazione di un ritorno a casa, ma una di quelle che si conoscono bene. In cui ci si sta volentieri. 

 

L’ultima casa accogliente

The Zen Circus

Polydor/Universal

 

Francesca Di Salvatore

Bring Me the Horizon “POST HUMAN: SURVIVAL HORROR” (Sony, 2020)

Ci ricorderemo la lezione?

 

C’è una cosa che da tempo ormai viene recriminata ai Bring Me The Horizon: di non essere “più gli stessi”, di non essere più quelli che cantavano Chelsea Smile, ormai dodici primavere fa. E si sa che il fan duro e puro difficilmente perdona, tanto che a questa simpatica categoria antropologica era anche stato dedicato il brano Heavy Metal, contenuto nello scorso album e che era stato la miccia che aveva fatto dilagare ulteriormente la polemica. 

Però, con POST HUMAN: SURVIVAL HORROR, anche il fan duro e puro ritrova le sue vecchie certezze e le ritrova fin dal principio. La prima traccia, Dear Diary, ricorda molto i primi lavori della band, ma non si tratta certo di una regressione fine a se stessa o del ripudio del cambiamento che stavano attraversando. Questo album, infatti, è un ottimo frutto del suo tempo. Non a caso, lo stesso cantante Oli Sykes aveva già ammesso in un’intervista che sarebbero ritornati alle origini perché nel fortunatissimo anno domini 2020 avevano di nuovo qualcosa per cui essere arrabbiati e un sound più crudo e violento non può che esserne la naturale conseguenza.

Però la ricerca e la sperimentazione fatte in questi anni non sono state completamente dimenticate e lo si sente soprattutto nelle collaborazioni. Abbiamo l’intro quasi angosciante di Parasite Eve, eseguito in bulgaro da un coro femminile, in grado di dare un’idea di cerimonia solenne e contemporaneamente di qualcosa di incomprensibile in arrivo. 

Anche il featuring con Amy Lee degli Evanescence in One Day the Only Butterflies Left Will Be in Your Chest as You March Towards Your Death è un esperimento riuscito alla grande. In quella che sembra a tutti gli effetti una ballad — e mai avrei pensato di accostare la parola ballad ai Bring Me The Horizon — le voci di questi due cantanti che hanno segnato un’intera generazione di adolescenti si sposano alla grande e danno vita a una canzone struggente quanto basta per concludere un album decisamente arrabbiato con una nota di malinconia. 

In nove canzoni, i Bring Me The Horizon hanno infatti raccontato uno scenario post-apocalittico (o post-umano se preferite), dove la tecnologia fa da padrona e sembra impossibile qualsiasi contatto umano autentico. La sensazione generale che si insinua più facilmente è quella di essere di fronte ad un’imminente fine del mondo, ma con abbastanza rabbia in corpo per provare a reagire. 

Resta comunque molto facile scorgerci sotto elementi di attualità. Si sprecano i riferimenti e i richiami alla pandemia e anche se spesso e volentieri le canzoni sono state scritte prima della diffusione del virus — il primo singolo Ludens è uscito quasi un anno fa — il collegamento che si fa ascoltando questi pezzi è ormai immediato. Da titoli come Itch for the Cure (When Will We Be Free?) fino ad intere strofe in altri pezzi, l’album è in grado di riassumere quello che bene o male tutti abbiamo vissuto e stiamo vivendo, anche se probabilmente l’intenzione in partenza non era questa. 

Una su tutte, parte del ritornello di Parasite Eve, suona abbastanza profetica: “When we forget the infection/Will we remember the lesson?”

Quando avremo dimenticato la malattia, ci ricorderemo la lezione?

Ai posteri l’ardua sentenza, avrebbe detto qualcuno…

 

Bring Me The Horizon

POST HUMAN: SURVIVAL HORROR

Sony

 

Francesca Di Salvatore

Vanbasten “Canzoni Che Sarebbero Dovute Uscire Tot Anni Fa” (Flamingo Management, 2020)

Vanbasten, nome d’arte di Carlo Alberto Moretti, ha pubblicato Canzoni che sarebbero dovute uscire tot di anni fa, EP d’esordio e chiaro biglietto da visita dell’artista romano.

Vanbasten ha 29 anni e ha alle spalle una carriera calcistica interrotta a 22 per iniziare a fare musica, avvicinandosi al rap in un primo momento e in seguito al punk e al pop.

Canzoni Che Sarebbero Dovute Uscire Tot Anni Fa è un progetto ben articolato, composto da dieci brani dalle sonorità elettro-punk e pop. Le produzioni, curate da Francesco Bellani, riflettono la new-wave e la scrittura dell’artista è semplice e dissacrante, una commistione tra il rap e l’indie.

Kenshiro, il primo brano, ha una ritmica incalzante. Il testo parla di un conflitto in modo diretto e sincero. Il ritornello “Ora che sei in ginocchio, io sono Kenshiro, quanto sei stato stronzo a non avermi capito”, rimane subito impresso. Mascara è una canzone d’amore dal testo elaborato e delicato. La voce di Vanbasten è profonda e mi ha ricordato Vasco Brondi dal primo ascolto: “dimmi cosa dici ai tuoi occhi quando cercano me”.

16enne e Pallonate sono pezzi generazionali. L’artista parla a ragazzi consapevoli, emancipati che vivono serate buttate, spinti dalle pallonate della vita. I testi sono irriverenti e la scelta delle parole è talvolta drastica per il genere: “Veniamo dalla strada come i vizi, siamo fatti per soffrire o per decidere di ucciderci”, scrive Vanbasten in 16enne. 

Eurospin e Sparare Sempre sono indubbiamente i pezzi più belli dell’intero EP. “Proveremo a mangiare 10k di cose, io volevo soltanto giocare a pallone adesso invece non ci gioco più” scrive l’artista in Eurospin. Il brano è nostalgico e dal testo immersivo anche se in questo caso la melodia e la produzione raggiungono l’apice dell’intero progetto per l’originalità dei passaggi tra le strutture della canzone. Sparare Sempre è una bella presa di coscienza, nel ritornello dice: “Continueremo a fare come ci pare, tra gli spari non ci stiamo male (…) Vita normale a chi, vogliamo vivere cosi”.

Canzoni Che Sarebbero Dovute Uscire Tot Anni Fa parla di vita vera, le immagini suggerite dai testi richiamano atmosfere notturne ed ambienti underground. Vanbasten parla ad un target di pubblico facilmente identificabile. La voce per quanto sincera rimane impenetrabile e a tratti ridondante. Le melodie non sono mai troppo incisive ma nel complesso si tratta di un progetto fresco che tocca tematiche semplici ma in modo innovativo. L’ascolto adatto ad un pubblico giovane e attento in cerca di musica audace.

 

Vanbasten

Canzoni Che Sarebbero Dovute Uscire Tot Anni Fa

Flamingo Management/Artist First

 

Giulia Illari