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Tag: review

Sum 41 “Order In Decline” (Hopeless Records, 2019)

Order In Decline é il nuovo LP dei canadesi Sum 41.

L’album, il nono dal 1996, rappresenta un punto di svolta rispetto alla loro produzione precedente: dimenticate le musicalità di Into Deep e Fat Lips, dimenticate la band punk-rock che scimmiottava i colleghi musicisti. I Sum sono diventati grandi e Order In Decline ne è la prova lampante.

Le avvisaglie di un cambiamento erano già arrivate nel 2016 con 13, ma oggi la trasformazione è arrivata a compimento. Un disco più riflessivo in cui i toni punk si sposano e si intervallano a sonorità più pesanti, serie e cupe.

Con questo album i Sum prendono spunto dai cambiamenti che stanno succedendo nel mondo, dalle teorie del complotto e ci regalano 10 brani che sono in grado di prenderti e rapirti fin dal primo ascolto. Melodie, riff e ritornelli che ti rimangono in testa. Fin da subito.

Immancabile la ballata Never There, una lettera a cuore aperto dedicata ad un padre assente… Un brano orchestrale, che ricorda un po’ Pieces, ma che ti fa venire i brividi.

Non mancano i brani movimentati: Out for Blood, il singolo che ha anticipato l’uscita del disco, ci fa venire in mente i Sum di una volta, un brano che é stato come un ruggito per annunciare al mondo che stavano per tornare.

Nonostante vi sia una canzone dedicata a Donald Trump, 45 (a matter of time), non si tratta di un album politico ma sicuramente é una riflessione generale sul mondo.

Un album maturo in cui si mescolano ed emergono diverse influenze musicali dai Muse ai Deftones, in questi anni i Sum hanno ascoltato e rimescolato riuscendo a regalarci un album maturo e non scontato.

Dopotutto anche loro, come noi, sono diventati grandi.

 

Sum 41

Order In Decline

Hopeless Records, 2019

 

Laura Losi

Allusinlove “It’s Okay To Talk” (Good Soldier Songs/AWAL, 2019)

Rock is not dead: a rianimare la scena rock mondiale ci pensano gli Allusinlove, quattro ragazzi inglesi, direttamente da Castleford, con assoli micidiali, spiccate doti vocali e batteria martellante.

Una vita da vere rockstars, la loro. Giovani difficili, amanti delle droghe e della vita portata all’eccesso che li ha proiettati in un percorso di introspezione e di crescita personale, il cui risultato è un cambio nel nome della band e un utilizzo diverso della loro musica come mezzo di comunicazione per temi più profondi, con un sound totalmente rock’n’roll.

Gli Allusinlove (già conosciuti come Allusindrugs) debuttano con il loro primo album It’s ok to talkuscito il 7 giugno e non sono più una band adolescenziale, ma un fenomeno rock.

Questo esordio è totalmente autobiografico: è palese il graffiante dolore di chi, in quelle storie narrate nei testi delle loro canzoni, c’è passato realmente ed è riuscito a rinascere dalle proprie ceneri come delle bellissime fenici inglesi.

È un viaggio attraverso le loro esperienze negative, per condividerle con l’ascoltatore, essere d’aiuto a chi si sente solo e dimenticato.

Il primo estratto All Good Peopleè basato sulla positività, sull’amore verso il proprio corpo, sul vivere delle sensazioni che la corporeità altrui ci regala, prendere coscienza della fisicità. Il tutto in pieno stile rock’n’roll, vocalizzi puliti, batteria potente, assoli di chitarra da brividi e un ritornello spaccacranio.

Esteticamente possono sembrare classici bad boys, tatuati e capelloni, tipi tosti insomma, ma con un cuore di panna.

Espongono tutto il loro delicatissimo mondo interiore fatto di amore non ricambiato, dolore, incomprensione, rabbia, solitudine ed alienamento.

Musicalmente ricalcano le vecchie glorie del rock, come nel pezzo Full Circlein cui ritroviamo accenni ai Black Sabbath, un perfetto connubio di chitarre basse, circolari, e assoli magnetici, che tratta di abbandono e incomprensione.

Gli assoli compaiono in quasi tutti i brani, potentissimi e seducenti. Uno dei migliori, in All my love, brano che concretizza la loro voglia di scendere in profondità nei rapporti, e di non arrendersi mai.

Testimoniano la fragilità e la superficialità dei rapporti moderni, in Bad Girls, dove espongono un classico esempio dei problemi nei rapporti moderni, un tipo di amore malato (amami/feriscimi come se ne avessi bisogno), un attaccamento morboso a qualcuno nonostante il dolore che ci provoca. Corriamo per raggiungere il nostro amore, mentre lui si allontana portando via pezzi di noi.

Nell’album è presente anche un loro vecchio brano, uno dei primi, Sunset Yellow, ed è in questo pezzo che risulta palpabile il cambiamento della band a livello sia di testi che di esecuzione, lasciandosi alle spalle gli atteggiamenti fortemente collerici e rancorosi degli esordi.

Attraverso la loro musica curativa, in It’s ok to talk(brano che dà il nome all’album), incoraggiano l’ascoltare più delicato, più problematico, a parlare dei dilemmi della sua anima, senza paura di essere giudicato debole, perché quello che più spaventa è aprire i canali del cuore e sentirci rifiutati.

Questi quattro ragazzi di Leeds sono l’emblema di una gioventù all’insegna dell’esagerazione, rappresentano chiunque di noi abbia passato un’adolescenza sopra le righe, in puro stile rock punk, quando non si ha la consapevolezza che si matura poi col tempo. Quando abusare di ogni sostanza sembra l’unica soluzione, annebbiare la mente per far zittire i demoni che popolano la nostra testa, pur di non comunicare, di non confidarci, di non guardarci dentro.
Gli Allusinlove sono maturati, crescendo hanno capito che l’unica via di salvezza da noi stessi è manifestare la nostra interiorità, esprimere i nostri sentimenti per esorcizzare tutte le nostre paure. L’unica cura è l’amore e la comprensione, perché la rabbia non è costruttiva, ma distrugge tutto ciò che di più buono è stato creato.

Attraverso questo loro primo album mettono al servizio di chi è più sensibile, debole, la loro personalissima esperienza, usando il rock come terapia ai dolori dell’anima.

“The world’s gone mad and it’s getting divided, let’s stand for unity”
Solo restando uniti, facendo squadra e non lasciando i più deboli indietro possiamo andare avanti degnamente.

 

Allusinlove

It’s Okay To Talk

Good Soldier Songs/AWAL, 2019

 

Marta Annesi

Duff McKagan “Tenderness” (Universal Music Enterprises, 2019)

Nel 1956 esce nelle sale Sentieri Selvaggi di John Ford. Il film western classico muore nella scena finale, quando il buon John Wayne indugia davanti alla porta di casa e rimane sul portico, poi si gira e se ne va. Il futuro, per lui, sta nel passato, il mondo che sta in quella casa non gli appartiene. Il porch, il portico, è terra di nessuno, tra esterno e interno, tra passato e futuro, tra noto e ignoto.
Il portico è quello di Springsteen di Thunder Road, un luogo che anticipa la fuga di due ragazzi, alla ricerca della libertà e del futuro.
Di Porch cantano i Pearl Jam e nel loro portico suonano e accolgono gli amici The Black Keys in quel di Nashville.

La prima immagine che mi ha raggiunto ascoltando questo album è stata quella di un McKagan in canottiera, su un dondolo con una steel guitar sulle gambe, due birre fresche su un tavolino sotto un portico a Nashville, Tennessee.

E’ un disco strano, questo Tenderness, sembra un luogo da cui osservare la realtà, sembra un tempo in cui condividere un’idea o una visione sia un dovere, oltre che un’occasione. Perché è un atto sincero, di ricerca, di scoperta, di condivisione.

Quella di Duff McKagan è una delle più belle storie di redenzione che la storia del rock ci abbia regalato. E’ una storia fatta di città, di inferni personali, di resilienze, di cicatrici. 

Qualcosa di particolare, di magico, di unico la capitale dello stato di Washington deve pur averlo. McKagan nasce a Seattle da una famiglia irlandese, lui, ultimo di otto figli, iniziato alla musica dal fratello Bruce. Il punk, in ogni sua declinazione, è il primo genere con cui Duff si confronta, suonando di tutto, dalla batteria alla chitarra. Ma è l’humus della città, il fermento musicale che ribolle nei quartieri della musica che forma il giovane McKagan. Nel 1983 parte per Los Angeles, quattro anni dopo uscirà Appetite for Destruction, il resto è storia della musica. Fin qui, una parabola mirabolante, ma nel 1994 viene ricoverato d’urgenza a Seattle, con una pancreatite gravissima. I medici non gli danno molti mesi di vita, nel caso avesse continuato a bere. E qui, proprio in questo punto, abbiamo il nostro colpo di scena. Duff comprende, la sua vita svolta di colpo. Si ripulisce, e inizia un percorso di vita e di carriera completamente nuovo e, dati i presupposti, insperato. Crea diversi gruppi, suona con musicisti provenienti da mezzo continente, collabora con Stone Gossard, Scott Weiland, con gli Alice in Chains e i Janes’s Addiction. Nel mentre scrive libri, si dedica allo sport e alle arti marziali. Duff McKagan è nato due volte, e dopo la seconda ha una fame di vita insaziabile. 

Questa storia, unita a questo album, mi ha fatto arrivare a questo portico dove incontro virtualmente Duff McKagan. Mi sono accorto cosa legava l’immagine della vita di uomo a quella di un portico grazie a una reminiscenza, uno di quei collegamenti tra ricordi o neuroni che ti bloccano qualunque cosa tu stia facendo, riallineando l’universo e dando un senso, almeno a te che scrivi, a un articolo.

Baricco, in City, parla così del portico:

In definitiva – proseguì il prof. Bandini – quell’uomo e quel porch, insieme, costituiscono un’icona laica, eppure sacra, in cui si celebra il diritto dell’umano al possesso di un luogo suo proprio, sottratto all’indistinto essere del semplicemente esistente.
[…]
Tutta la condizione umana è riassunta in quell’immagine. Giacché esattamente questa appare la dislocazione destinale dell’uomo: essere di fronte al mondo, con alle spalle se stesso.

Quell’ultima frase è Tenderness. Quell’ultima frase è il senso del disco. Ma è anche la sua intenzione, la sua finalità, la sua fisicità.

Essere di fronte al mondo, con alle spalle se stesso è anche il “never look back” di Don’t look behind you, canzone che chiude l’album. La luce è davanti a te, stai su questo portico a suonare la chitarra, petto al mondo, spalle al passato. Il percorso compiuto da McKagan porta al rovesciamento di testi e visioni dei Guns. Dell’ira di gioventù, dell’intolleranza, del santificare le feste qui c’è poco. C’è piuttosto un osservare il mondo dai templa serena di Lucrezio, inteso come regno della conoscenza. Le esperienze hanno reso quest’uomo più forte e saggio, adesso è il momento di cantare del mondo con serena e consapevole spensieratezza.

Ecco allora Last September in cui si affronta il tema della violenza sulle donne, Parkland i cui viene trattato il dramma delle sparatorie nelle scuole e Feel, dedicata all’amico Chris Cornell, ma che, sono quasi sicuro, in fondo è per tutti gli amici persi durante il cammino, compreso quello Scott Weiland con cui ha condiviso il palco. In Feel si parla di ricordo, di amore, di rise up, e non è un caso che molto del vocabolario del disco peschi nell’immaginario springsteeniano. Del resto chi meglio e più di Springsteen ha cantato di redenzione e di resilienza? Le catene, che si spezzano, la strada come metafora tangibile del percorso verso il cambiamento. McKagan cita quasi letteralmente lo Springsteen di Darkness on the edge of town in un verso: l’originale I lost my money, I lost my wife, per Duff diventa lost my job, lost my wife, lost my way. Sempre climax verso l’inferno rimane, ma in entrambi i casi toccare il fondo è l’unico modo per battere i piedi e risalire.

Ma più che nel New Jersey, il nostro McKagan sciacqua i panni in quel di Nashville, grazie all’amico Shooter Jennings, che regala un impronta outlaw country all’intero album, che scivola via piacevolmente tra steel guitar, archi ariosi e inaspettati e sezioni di fiato degni di una big band. Il caleidoscopio dei riferimenti continua con i Rolling Stones (e quasi un primo Bowie) in Chip Away.

E’ un viaggio tra i ricordi e tra temi attuali, da cui trarre insegnamenti e massime (his mama didn’t rise a man), è un tracciato compiuto seguendo una mappa di cicatrici. Ma proprio le ferite passate sono i migliori insegnamenti, se adesso, ancora adesso, possiamo cantarne sorridendo sul portico. In fondo, quello che ci vuole, è solo un po’ più di Tenderness.

 

Duff McKagan

Tenderness

Universal Music Enterprises, 2019

 

Andrea Riscossa

Agnello “Il Minotauro” (Garrincha Dischi, 2019)

Per definizione l’agnello è la creatura più docile del regno animale. Agnello è anche il nome (nonché il cognome del cantante e fondatore del gruppo) di una band palermitana nata nel 2016 e, ascoltando l’album, risulta essere un appellativo appropriato per questa band carica di sensibilità, dolcezza e irrequietezza verso il mondo.

L’obiettivo primario del gruppo è una crescita costruttiva e la conseguente tutela del suo stile, una ricerca estetica musicale, linguistica e spirituale, per regalare all’ascoltatore un’esperienza totalmente nuova, il più possibile distante da quello che si può trovare sul mercato musicale attuale.

Il loro album d’esordio Il Minotauro, composto da singoli usciti tra il 2017 e il 2018, è traboccante di atmosfere romantiche e commoventi, scaturite da animi nobili che sembrano cozzare con la superficialità che ci circonda oggi.

Funamboli contemporanei alla ricerca di un equilibrio tra ritmi tipici della musica italiana anni ‘60, indie e surf, adottano testi delicati e nostalgici, grazie all’uso smodato del sax, che colora di tinte malinconiche tutto l’album.

La figura fragile e riflessiva de Il Minotauro primo brano e titolo dell’album, esplode in tutta la sua angoscia ed emarginazione, la quale sembra essere il mantra della band. Emblema della società evoluta, dove ci ritroviamo più spesso lontani gli uni dagli altri, chiusi nella nostra personale disperazione (come lo è il Minotauro del suo labirinto), alla ricerca di un/a compagno/a che divida con noi l’onere di questo massiccio fardello.

Altra questione che viene valutata è la paura nei suoi più intimi aspetti: paura dell’abbandono da parte della persona amata, come nel brano Marta, dalle sonorità morbide e armoniose, fino ad arrivare alla paura delle relazioni stesse. Il terrore di impegnarsi che impregna le generazioni moderne nel pezzo Casa Tua, dove ricorre la paura di imbarcarsi in una situazione troppo grande, troppo importante — come potrebbe essere salire a casa dell’amata — ipotizza la fine del sentimento, quasi per codardia, e il raggiungimento di qualcosa con l’ansia di non esserne poi all’altezza.

Il loro intento è dar spazio e voce alle emozioni, utilizzando un registro pop per analizzare la collettività come in Sulla sdraio nato dall’unione creativa con Nicolò Carnesi. Si servono delle classiche retoriche del cantautorato indie a tratti ripetitivo e circolare per esprimere l’insoddisfazione di una generazione mentalmente relegata su una sdraio, schiacciata dalla realtà che ci scorre dinanzi come un film, nella quale non possediamo potere decisionale ma siamo solo spettatori non paganti. 

Come ammette il gruppo stesso, “il brano è volutamente più monotono, per trasmettere una percezione di tempo perduto e del fatto che vivere in dipendenza dal mondo esterno ti condanna all’infelicità”.

La critica verso la società moderna è contestualizzata in Tutto questo penare, dall’intro fresco, estivo, estremamente pop, in forte contrasto con il testo amaro, improntato sulla solitudine e sulla discordanza degli schemi sociali (sposarsi, far figli, sistemarsi) in rapporto alla vera felicità. 

Come astronauti esploratori di un universo parallelo, questa band vuole parlare di amore, di solitudine ma soprattutto della paura di una generazione, il terrore nelle relazioni interpersonali e della gestione dell’emotività in un momento storico interamente incentrato sull’avere, più che sull’essere.

 

Agnello

Il Minotauro

Garrincha Dischi, 2019

 

Marta Annesi

La Tarma “Usignolo Meccanico” (LullaBit, 2019)

Parte il primo brano del nuovo disco de La TarmaUsignolo Meccanico, e si viene subito catapultati in una atmosfera da Battiato anni ’70, ricca di synths, bassi lasciati suonare in primo piano, drum machines, vocalizzi vocali retrò e testi onirici che raccontano esperienze sensoriali attraverso immagini poetiche.

Da un punto di vista della produzione musicale, il sound che viene fuori, seppur volutamente retrò, è interessante e particolare. Le sonorità che si delineano hanno uno stile ben definito, non scontato, che prende spunto, come già detto, dal Battiato anni ’70 fino ad arrivare ai contemporanei Baustelle, passando per certe sfumature che fanno ricordare le melodie di Alberto Camerini.

Le dieci canzoni scorrono tra temi esistenziali e d’amore che vengono cullati da una musicalità piuttosto intrigante e piacevolmente fuori moda. Il genere musicale potrebbe definirsi come cantautoriale per quanto riguarda i testi, e come elettropop per quanto riguarda il sound complessivo.

Tuttavia, l’intrigante sound ed i particolari testi (segnalo, tra i brani, Amsterdam) non sono sostenuti da un altrettanto efficace lavoro di mix e mastering, soprattutto per quanto riguarda la voce. La cantante ha indubbiamente una buona capacità vocale, un timbro particolare che può piacere o non piacere, vista l’impostazione molto retrò, ma che comunque rimane in testa. Purtroppo, però, la sua voce non viene valorizzata dalla fase del mixing: manca infatti un riverbero adeguato, una equalizzazione corretta e una correzione efficace in fase di editing delle imperfezioni (visti i molti vocalizzi della cantante, qualche volta le parole in coda alle frasi perdono la nota). L’impressione, quindi, è quella di trovarsi davanti ad una registrazione della voce un po’ amatoriale, quasi come se fosse stata registrata in cantina. 

Da un punto di vista della struttura delle canzoni, La Tarma dimostra buona capacità negli arrangiamenti e nella scelta degli strumenti, ma non eccelle nella costruzione dello sviluppo temporale  strofa-ritornello-variazione: difatti, talvolta, il ritornello arriva troppo tardi e le canzoni si dilungano troppo nelle strofe, perdendo in questo modo in orecchiabilità ed immediatezza all’ascolto.

Per concludere, siamo davanti ad un album con spunti interessanti, soprattutto per quanto riguarda la ricerca stilistica del sound e dei testi, questi ultimi mai banali e ricchi di belle immagini lessicali. Resta l’amaro in bocca per non godersi appieno questo discreto tentativo artistico, inficiato da una produzione musicale che non si può ancora definire del tutto professionale.

 

La Tarma

Usignolo Meccanico

LullaBit, 2019

 

Michele Mascis

The Winstons “Smith” (Tarmac\Sony, 2019)

“Il metodo per fare le cose è quello di non pensare troppo. La libertà d’azione è l’unica che fa stare bene, e il rapporto umano è l’unica vera preziosa scuola compositiva. Alcuni definiscono questa attitudine Rock’n’Roll. Altri semplicemente vita.”

Non è una frase di Bukowsky né di un qualche santone indiano, bensì di tre fratelli lombardi, The Winstons (Linnon, Rob e Enro, pseudonimi) i quali scagliano così la bomba del loro ultimo lavoro discografico, a distanza di tre anni da The Winstons (album d’esordio nel 2016).

Stiamo parlando di Smith (probabilmente da Winston Smith, protagonista di 1984, di George Orwell; ma anche un gioco di pronuncia con The Winston’s Myth band jazz/soul americana anni ‘60) uscito il 10 maggio per le piattaforme virtuali, oggi 31 maggio invece, in formato fisico.

La loro misticità verbale è accompagnata da abiti bianchi, contrapposti ad uno spirito canterburiano, una voglia matta di mischiare le carte (musicali) in tavola e stravolgere così la concezione stessa di musica. 

Bassi graffianti e striduli, tastiere dal sound penetrante e batterie martellanti, accostati ad atmosfere classiche contraddistinguono questo disco del power trio più enigmatico della scena indie italiana.

Impossibile “etichettare” questa band, poiché il loro lavoro è un amalgamarsi di stili e di generi musicali.

Ci fanno salire su una DeLorean, catapultandoci direttamente negli iconici anni ‘60/’70: le nostre ossa scricchiolano per l’umidità del Kent e il nostro cuore è stravolto dal fango di Woodstock, in piena rivoluzione musicale.

La loro peculiarità risiede nella bravura di non scadere nella cover, o nel revival; piuttosto possiedono la capacità di modernizzare le origini del Rock, trasportandolo nel 2019. Lo stravolgono e lo fondono con generi lontani dal progressive rock, come può essere la musica classica o jazz, il tutto infarcito con del buon vecchio grunge di Seattle.

Mokumokuren, primo brano dell’album, in Giapponese identifica un fantasma casalingo che nasce dagli squarci nelle pareti di carta, tipiche delle abitazioni di questo paese. Gli occhi dello spettro appaiono dalle fenditure, spaventosi, i quali si limitano a esaminare l’interno della vostra abitazione. 

Ecco l’intento di questa band: attraverso l’intro psichedelico e in crescendo, crea pertugi nel tessuto della musica contemporanea dai quali noi possiamo spiare all’interno, regalandoci l’opportunità di scoprire qualcosa di nuovo, fungendo da Ciceroni in questo viaggio psichedelico al di fuori della normalità a cui il mercato musicale è abituato.

Pezzi come The blue traffic light ci danno l’impressione che i Beatles si siano cimentati in un ménage a trois con i King Crimson e i Pink Floyd. E nella mischia si sia ritrovato invischiato anche Nicola Piovani.

L’album alterna pezzi melodici, dove vengono musicalmente chiamati in giudizio i Ragazzi di Liverpool come Blind o Not Dosh for Parking Lot, decisamente in stile beat anni ‘60, o Around the Boat dove abbandonano per 2 minuti e 9 secondi l’atmosfera psichedelica per regalarci una pausa malinconica, a pezzi più cazzuti come Tamarind Smile/Apple Pie, che presenta cambi di registri improvvisi e passaggi psichedelici non tradizionali.

Ci destabilizzano con l’uso di strumenti datati, poco pertinenti con lo stile rock della band come il sax in Soon Everyday, donando al brano un’atmosfera esoterica, e cori in pieno stile Ennio Morricone.

Il Canterbury Sound si palesa nella cooperazione con Richard Sinclar (bassista, chitarrista, compositore nonché fondatore dei Caravan) in Impotence, che combina il jazz rock, il pop al rock psichedelico, dando una connotazione surreale. 

Nic Cester (cantautore australiano frontman dei JET) firma Rocket Belt, impregnato di rock anni ‘60, con sprazzi vocali degni di Mick Jagger, tastiere impazzite sul finale,  pezzo allucinogeno e coinvolgente.

Imperdibile e stravagante, questo nuovo album è un ritorno al passato attraverso gli occhi (e le orecchie) di ragazzi che non hanno vissuto i mitici anni ‘60 dal vivo. Ci scaraventano in un universo di sonorità arcaiche, un calderone di spiritualità e trasgressione.

Una band completa, con uno stile forsennato, capaci di mischiare il Rock’n’Roll nella sua forma più pura ad un clima malinconico degno di Ennio Morricone.

 

The Winstons

Smith

Tarmac\Sony, 2019

 

Marta Annesi

Ponzio Pilates “Sukate” (Brutture Moderne, 2019)

“Una band di avventurieri dell’elettrosamba, improvvisatori carichi di effetti speciali” così si definiscono questi eterogenei e colorati filibustieri romagnoli dagli abiti sgargianti.

I Ponzio Pilates, parlando del loro nuovo album Sukate, pubblicato da Brutture Moderne grazie ad una campagna di crowdfunding su Musicraiser, dicono:

“Non c’è un genere in grado di definire tutto il disco Sukate, non c’è nemmeno una frase che possa dare un’idea che sia condivisa in ogni brano. Ogni brano è indissolubilmente legato agli altri, ma ha totalmente un’identità e forse anche un genere diverso, se vogliamo parlare di generi.

Quello che abbiamo fatto è riprodurre le nostre improvvisazioni furiose e istiganti alla danza ferina, ancora, ancora, e ancora fino a che non si sono plasmate in una forma più definita e concreta”.

Il disco è stato registrato in totale isolamento dal mondo moderno, in una villa sperduta nella campagna Romagnola (loro patria natia) durante l’autunno e l’inverno del 2017, di ritorno da un’estate “caliente” per lo sconvolgente “Pizza e Vongole tour” e per la partecipazione al Pflasterspektakel a Linz (Austria) dove hanno esportato la tipica sventatezza romagnola.

L’album, in totale 33 minuti e 15 secondi di sfrenatezza e goliardia, conferma nettamente la loro visione e interpretazione di musica che non si allontana molto da quello presente in “Abiduga”, loro primo disco uscito nel 2016 (un singolare crossover musicale sicuramente unico nel loro genere).

Mescolanza di stili (afrobeat/samba/elettronica), testi provocatori e irriverenti, ad un primo ascolto sembrano nonsense, scritte e pensate al solo scopo ludico. 

L’ecletticità di questa band, però, si percepisce anche per il suo intento involontario nell’abbattere i confini culturali e musicali, portando scompiglio e disagio, intervenendo nei processi di globalizzazione sociale, oltre che musicale.

Sprezzanti del comune senso del pudore, il disco contiene pezzi sarcastici, quasi beffardi, come L’Insalata: pungente attacco verso i vegetariani o critica contro l’abuso di carne nella società moderna?

Vogliono sconcertare, usando ogni mezzo in loro possesso, non solo con la melodia ma anche attraverso i nomi dei brani, come Disagio e Camagra (Kamagra, il noto farmaco generico del Viagra), il quale ha il solo scopo di raddrizzare la nostra voglia di ballare e liberare il nostro lato più primordiale.

Il loro traguardo è slegare la parte inconscia di ognuno di noi, e per fare ciò si servono di pezzi come Bagarre o Salomone, che presentano intro plagiate dall’elettropop, passando per il funk carioca con chiarissimi cenni alla mazurka romagnola.

L’album è impregnato di multiculturalità, dall’Africa al Giappone, passando per il Brasile e approdando nella Riviera Romagnola., quasi ad affermare che la diversità non riguarda la musica, che essa deve unirci e stringerci in un abbraccio materno e corale.

Un giro del mondo in 9 brani, destinato a far ballare tutti, dai grandi ai piccini, e non solo. Per chi possiede un’anima questo album rappresenta l’umanità e il bisogno di sentirci tutti appartenenti allo stesso Mondo.

 

Ponzio Pilates

Sukate

Brutture Moderne, 2019

 

Marta Annesi

The National “I am easy to find” (4AD, 2019)

Sono passati solamente due anni da Sleep well beast, un disco così bello che tutt’ora è fatica toglierlo dallo stereo, che The National sono pronti a dare al mondo il loro ottavo album I am easy to find.

Come ogni album de The National, il primo ascolto non è mai facile ma è quello che rivela al subconscio dell’ascoltatore le atmosfere e il contesto: se Sleep well beast era un album notturno, cupo, introspettivo, prodotto tra le quattro mura di casa, questo nuovo I am easy to find è un album fresco e femminile, la cui produzione abbraccia Europa e Stati Uniti.

Con gli ascolti successivi, si prende invece coscienza di qualcosa di diverso dai precedenti album e una domanda prende forma: com’è possibile che i National siano riusciti a fare un album così tanto tipicamente loro ma allo stesso tempo così non loro?

Che cos’è che definisce l’identità musicale del gruppo? Il timbro baritonale e sexy della voce di Matt Berninger o gli arrangiamenti e le melodie dei gemelli Aaron e Bryce Dessner?

Tante domande, ma tutte lecite dal momento che nella maggior parte dei brani la voce di Berninger è affiancata, se non del tutto sostituita, dai contributi vocali delle artiste che hanno partecipato alla realizzazione dell’album, tra cui Lisa Hannigan, Sharon Van Etten, Mina Tindle, Gail Ann Dorsey e Kate Stables, mentre le melodie si avvalgono degli strumenti di un numero cospicuo di musicisti e membri d’orchestra, incluso l’amico Justin Vernon.

Eppure, questa famiglia allargata non solo non ha messo a repentaglio l’identità musicale del gruppo nel risultato finale, ma l’ha esaltata. Togliere per dare valore: quando viene a meno la connessione immediata voce-di-Berninger = The National, allora l’orecchio cerca e trova in altri elementi l’identità del gruppo, ed ecco che emerge l’intro al pianoforte di Oblivions o il rullare di Rylan, elementi identificativi che farebbero riconoscere una canzone de The National anche ad un sordo.

I am easy to find è un esercizio corale sapientemente diretto, una costellazione di brani come palloncini che fluttuano in cielo, legati al nucleo dei cinque membri del gruppo da nastri colorati.

Ogni singola traccia del disco ha un elemento di originalità al suo interno che non la fa assomigliare a nient’altro della produzione de The National, però allo stesso tempo, proprio quando l’originalità potrebbe far spaventare l’ascoltatore, arriva quell’elemento peculiare, unico e familiare, che conforta e dà sicurezza.

Questa dinamica di spingere un po’ più in là il confine di ciò che è la sonorità National e poi tornare in territori conosciuti, espansione e contrazione, non-aver-paura-ad-allontanarti-io-sono-qui, non è solo a livello dei singoli brani, ma anche proprio a livello dell’intero album.

La sensazione, ascoltando tutti i 63’ e 35’’, è che il disco respiri: la tripletta di brani di apertura — inspira — continua il discorso dove Sleep well beast l’aveva lasciato; Oblivions, The pull of you e Hey Rosey — espirasono diverse, tentano ognuna qualcosa di nuovo, e ci riescono con grazia; I am easy to find — inspira — riporta l’ascoltatore nella zona di comfort, per poi lasciare spazio ad altre due tracce — espira — che aprono a nuovi ritmi e nuove sonorità. Arriva e se ne va Not in Kansas — inspira — tipica ballata che dipinge paesaggi assolati da Midwest; altri due brani — espira — diversi, dagli altri e tra di loro: So far so fast è rarefatta e femminile, Dust swirls in strange light sembra quasi composta per una funzione religiosa. Hairpin turns e Rylan — inspira sono tutto quello che amiamo dei National; Underwater — espira — è un inframezzo strumentale che prepara alla commovente chiusura dell’album — inspira — con Light years.

Dopo vent’anni di carriera, possiamo dire che The National con questo loro lavoro abbiano tentato qualcosa di nuovo, in modo cauto forse, e ci siano riusciti con l’armonia e l’eleganza che li contraddistingue.

 

The National

I am easy to find

4AD, 2019

 

Francesca Garattoni

Redh “Torneremo EP” (Artist First, 2019)

Torneremo di Redh è un EP di sei brani che strizza l’occhio completamente al pop italiano indie. Sonoritá, riferimenti testuali, riverberi, tastiere: ogni elemento ci porta a pensare che l’obiettivo dichiarato sia finire sulla playlist Spotify “Indie Italia”, o quantomeno sulla playlist “Scuola indie”.

Già dall’apertura del primo brano Dormi veniamo proiettati in atmosfere da tastiere new-anni ’80 stile Thegiornalisti. Poi parte la voce, e ci togliamo ogni dubbio: molto riverbero, voce molto eterea alla Tommaso Paradiso.

Scorrono i brani e le caratteristiche di cui sopra si confermano passo dopo passo. Le canzoni scorrono tra sonorità orecchiabili, synth retro e testi che trattano di amori post adolescenziali-pre ingresso nei 30. 

Tutte e sei le canzoni infatti raccontano storie d’amore (spesso finite male o mal corrisposte) dal punto di un vista di un ragazzo giovane, presumibilmente universitario. I toni non sono mai però drammatici e i riferimenti linguistici che raccontano le sensazioni del cantante sono molto concreti e di facile comprensione.

Da un punto di vista strumentale, vengono elette come protagoniste le tastiere. La chitarra ha un ruolo marginale, usata quasi sempre per aggiungere colore piuttosto che per dettare la linea armonica, eccezione fatta per il malinconico brano Ci credi, in cui le chitarre escono fuori come protagoniste. La parte ritmica delle canzoni è dominata invece dalla scelta di utilizzare la drum machine elettronica al posto della batteria acustica. Scelta condivisibile che rende le sonorità dell’album complessivamente fresche e moderne.

Riguardo alla produzione musicale da un punto di vista tecnico, possiamo affermare, come detto sopra, che la scelta stilistica dei mix e dei master dei brani riflette anche in questo caso la tendenza a volere seguire le sonorità dell’indie italiano. E, quindi, si accentua molto l’utilizzo del riverbero sia nelle tastiere che nella voce, il basso non viene fatto uscire troppo nel mix e le chitarre lavorano molto sulle note singole spesso messe in delay. Ma, se nella parte strumentale questa scelta stilistica è premiante e rende il sound fresco e coerente con il mondo indie italico, nella voce il risultato non è altrettanto apprezzabile. Infatti, la voce risulta essere troppo appesantita da un eccesso di riverbero che le fa perdere un po’ di chiarezza, portandola a non amalgamarsi completamente nel mix complessivo dei brani e nascondendosi tra le frequenze dominati delle tastiere, anch’esse, come già detto, molto riverberate.

Per quanto riguarda la struttura delle canzoni — strofa, ritornello, variazioni — Redh mostra una buona consapevolezza e maturità compositiva: i brani scorrono tutti fluidi e arrivano alla fine con leggerezza, senza cadere in inutili barocchismi. Gli intro durano il giusto, le strofe conducono correttamente ai ritornelli, i quali entrano puntuali e assumono la giusta importanza nell’equilibrio dei brani. Anche da un punto di vista armonico, i ritornelli sono ben valorizzati e spesso risultano essere ben orecchiabili.

Per concludere, Redh ha creato sei brani leggeri, abbastanza maturi da un punto di vista della produzione — eccezione fatta, forse, per la scelta sbagliata nel missaggio della voce — e con un’apprezzabile capacità nel creare melodie orecchiabili e piacevoli accompagnate da un sound moderno ed azzeccato.

La parte debole dell’album sono, invece, i testi delle canzoni: da un lato troppo monotematici (si parla sempre e solo di storie d’amore) e dall’altro lato privi di spunti interessanti nella scelte stilistiche e lessicali. Mancano infatti quelle metafore, quelle parole giuste, quelle frasi apparentemente idiosincratiche che ti fanno dire “wow” mentre le ascolti. Forse, manca anche un po’ di ironia nel modo di raccontarle, queste storie d’amore.

 

Redh

Torneremo EP

Artist First, 2019

 

Michele Mascis

Mac DeMarco “Here Comes the Cowboy” (Mac’s Record Label, 2019)

Mac DeMarco è un tipo strano, altrimenti non si spiega perché mai un canadese dovrebbe realizzare un intero disco dedicandolo ai cowboy. Certo, cowboy bizzarri, come lui, fumettistici, ma pur sempre cowboy. Proprio lui, quello che di più lontano dall’immagine hollywoodiana del vaccaro con pistola, cappello a falda larga e speroni, possiamo immaginare. Probabilmente i cowboy che passano le giornate a bere nei saloon avrebbero voluto prederlo a calci nel sedere, uno come DeMarco: Mac è uno da t-shirt e cappello da baseball, da maglioni del nonno e da salopette. Non è un macho, non si prende sul serio e, soprattutto, non usa artiglieria pesante. Ma, cosa più importante, non salverà la situazione come ogni buon cowboy che si rispetti: la guarderà andare a rotoli e poi ci scherzerà su. Ed è per questo che lo amiamo così tanto. 

Here Comes The Cowboy è il suo quarto, ed insolito, album, che arriva cinque anni dopo Salad Days, il lavoro che lo consacrò a figura iconica della musica indie internazionale, e due anni dopo This Old Dog, dedicato alla relazione difficile con il padre. Questo lavoro è il primo prodotto dall’etichetta che lui stesso ha fondato, la Mac’s Record Label. Tutto fatto in casa, insomma, come confermato anche dalla scelta di suonare quasi tutti gli strumenti per conto proprio, ad eccezione delle tastiere affidate in certi casi ad Alan Meen, e avvalendosi soltanto dell’aiuto del fonico Joe Santarpia. Il fatto che DeMarco abbia deciso di auto-prodursi un album merita una riflessione: probabilmente dietro c’è il bisogno di avere maggiore libertà, la possibilità di essere veramente se stesso, di fare un po’ come vuole. Sacrosanto. E infatti Here Comes the Cowboy si spinge fino ai confini dell’iperuranio.

Solo per darvi la dimensione di quello che succede, la prima traccia, quella che dà il titolo all’album parte con una chitarra, che fa pensare al classico cazzeggio pre registrazione per scaldarsi un po’ le dita, ed è composta da un solo unico verso, ripetuto all’infinito: “Here comes the cowboy”. Eppure, nonostante queste premesse che potrebbero far presagire il peggio, il pezzo è caratterizzato da un perverso magnetismo. I suoi cowboys infatti non possono essere altro che personaggi strambi, niente di eroico, per carità, ma qualcosa che conforta in una società che ha sempre più difficoltà ad ammettere le proprie debolezze.

Quasi tutti i pezzi sono percorsi da una vena malinconica. Su questa atmosfera c’è Nobody, un pezzo laconico, tra i migliori del disco, una marmellata di suoni in stile californiano.

Preoccupied, invece, ci porta su un piano diverso, meno giocoso e meno dolce, più preoccupato, appunto. Non è difficile immaginarselo, Mac, mentre guarda pensoso, fuori dalla finestra. Tra le parti più interessanti del pezzo c’è la base con il cinguettio degli uccellini, che contribuiscono a dare consistenza al mondo surreale e sgangherato che DeMarco ci racconta; il testo è un blues disincantato, e sembra quasi criticare una cultura trumpiana in cui le menti sono “aperte” ma “piene di cazzate”.

Proprio l’aspetto dei testi è interessante in questo disco: molto più asciutti, a volte pervasi da un vero e proprio minimalismo linguistico, ma sempre con valutazioni sardoniche sul sogno americano. Come in All Of Our Yesterday, pezzo sarcastico che esplicita il concetto che molte delle cose migliori del nostro passato sono scomparse e non torneranno. Anche per questo motivo, è evidente che DeMarco è cresciuto. Questo è senza dubbio il suo disco più autentico e sporco. Se è vero, come aveva dichiarato in qualche intervista, che Salad Day era stato scritto in camera da letto, questo Here Comes The Cowboy è assolutamente stato composto in garage, o in una soffitta polverosa e invasa dalla luce del sole, che gli ha permesso di vedere meglio ogni singolo pulviscolo.

Quando arriva Choo Choo mi chiedo se sia uno scherzo. Forse sì. Su una base funk il fischio del treno fa da contraltare al falsetto di DeMarco, che ancora oggi si dimostra un artista accessibile e mai troppo serio, uno che fa musica – apparentemente – ingenua e che sembra immune dall’invadenza del mondo reale. È come se si fosse creato una bolla per proteggersi dalla tristezza di quello che succede. Forse, però, qualcosa sta cambiando. Su Little Dogs March, canta “spero che ti sia divertito, tutti quei giorni sono finiti ora”.

L’ultima traccia, Baby Bye Bye, è la più assurda di un disco abbastanza assurdo, ma è anche uno dei pezzi più memorabili. Non voglio rovinare la sorpresa a nessuno, quindi dirò solo che dentro ci si può trovare una chitarra slide, un treno che parte, una voce che parla giapponese e qualche sonorità funk.

Il bello di Mac è questo suo essere diventato oggetto di una sorta di strano culto, ovunque accolto come una grande star, un’icona insolita e sbilenca, e allo stesso tempo di fregarsene totalmente di quello che viene prodotto oggi nel mondo della musica. Quello che appare evidente da questo disco è che Mac DeMarco stia cambiando, forse sta diventando grande, chissà.

Here Comes The Cowboy sembra testimoniare il desiderio di trovare una nuova strada. Si tratta essenzialmente di un album più nudo rispetto ai precedenti, a partire dagli arrangiamenti, spesso composti da una chitarra, un piano e poco altro, fino ad arrivare ai testi.

Buono, ma a volte – ad eccezione di qualche pezzo – ci si ritrova a desiderare qualcosa di un po’ più divertente, un po’ più vivace, un po’ più DeMarco.

 

Mac DeMarco

Here Comes the Cowboy

Mac’s Record Label, 2019

 

Daniela Fabbri

Glen Hansard “This Wild Willing” (ANTI-, 2019)

Impressioni impressionistiche, tirar pennellate sull’argomento, risultato di una settimana di ascolto,
alla ricerca delle intenzioni, 
della trama e dei retrogusti, più che la disamina della grammatica del disco.
Correndo spesso ai taccuini per fermare un’idea, scrivendo dove capitava su quello che capitava. 

 

Notte. C’è un uomo che cammina per le strade di Parigi.
Quinto arrondissement, torna verso un letto, non verso casa sua.
Mani in tasca, collo incassato, la barba struscia sul bavero, alzato. 

Gli occhi sono puntati sulla strada bagnata, ma tradiscono l’altrove in cui si trovano i suoi pensieri. Sta portando a spasso per il quartiere idee e ispirazioni, con la chiara intenzione di contaminarli o, volgarmente, di concimarli.  Respira forte l’aria di una città che non è la sua, per trovare una inquadratura che non sia scontata, usurata o, semplicemente, la solita. 

La geografia di un pensiero è un atto inconscio, ma è figlio, almeno in questo caso, di un piano ben congegnato.
Prima che l’ordine del mondo venisse appaltato al monopolio delle religioni monoteiste esisteva una consapevolezza sana che delegava ai luoghi, al mondo, il ruolo di attore comprimario. Mentre le ninfe presiedevano alla sacralità della bellezza della natura, Il genius loci era l’antica divinità protettrice di un luogo, in genere di una casa, di una famiglia. Lentamente, nel corso dei secoli, il suo ruolo è mutato, estendendo, per sineddoche, il proprio ruolo di protezione e rappresentazione  a comunità più estese. La storia ha conservato l’idea del genius e l’estetica prima e l’architettura in un secondo momento l’hanno adottata, trasformandola in un approccio metodologico alla propria materia di studio. Rimane tuttavia una parola antica, carica di significati sovrapposti, stratificati, e nasce come un’entità viva, senziente e panica.
Il genius loci lo sta cercando un uomo che cammina per strada, a Parigi.
È irlandese, di Dublino, quarantotto anni.
Lui lo sa bene, certi uomini sono più propensi a farsi influenzare dai luoghi e dai loro demoni. Parigi traccia i confini del suo pensiero e del suo lavoro. Entra nei testi, nelle amicizie, nelle collaborazioni. L’humus della città fa fiorire le idee. E ci sono città che riescono in questo compito meglio di altre. Alcune, come Seattle, funzionano da catalizzatore. Altre vanno semplicemente cantate, come fece Bowie a Berlino.
Il nostro uomo camminava per altre strade, appena un anno prima, esattamente quelle di Chicago. Quello che nacque dall’altra parte dell’Atlantico è un’opera piena di genius locale. Quasi il portarsi fisicamente altrove funzioni come un atto volontario per sperimentare e contaminare, nonostante migrare, anche solo artisticamente, sia attuale, ma non di moda.
Parigi ha una biomassa estetica piuttosto elevata. Stratificazioni di secoli di vite, di arte, di artigiani, di storie. È impossibile camminare per quelle strade e non avere una vertigine. E no, non è labirintite, è una carezza di Stendhal.   

C’è un irlandese che cammina per le strade di Parigi. Le mani in tasca sono rosse  e doloranti.
La testa corre, pulsa, a dirla tutta fa anche un po’ male. Quello che nessuno racconta, nella costruzione della mitologia di un cantante è la fatica, fisica, del comporre. Lo si trova nei racconti degli amici e colleghi di Springsteen, ad esempio, quando ricordano l’incessante lavoro di cesello in sala di registrazione, il broncio perenne e l’insoddisfazione come condizione necessaria alla produzione artistica.
Il nostro irlandese, come Bruce, ha scelto un approccio artigianale alla propria arte. Se si vuole contestualizzare, per meglio rendere e far ballare (anche) le parole, possiamo definire tutto questo come approccio analogico alla creazione musicale. Ci dice il nostro:

“Sometimes when you take a small musical fragment and you care for it, follow it and build it up slowly, it can become a thing of wonder”.

È l’artigiano che sa individuare un frammento utile, anche solo dal punto di vista estetico e valorizzarlo. È un punto di partenza, ma già solo per individuarlo serve essere artigiani. E da lì inizia un lavoro analogico, fatto cioè di analogie, di similitudini, di vicinanze, fisiche e culturali.
Non c’è posto per il digitale nel pensiero del nostro uomo. Il digitale è uno o zero, è vero o falso. È campionatura, non citazione. L’essere o non essere digitale si dissolve nel pensiero analogico fatto di infinite sfumature, fossero anche solo di grigi.
L’analogico è un pensiero a cascata, anche per quello che si lega alla musica, ossia i testi delle canzoni. I temi sono quelli da lui già trattati, già cantati, ma se la materia è ben nota quello che cambia è il modo in cui viene trattata. Il fantomatico genius che va cercando gli servirà proprio a questo. Parigi gli regala testi vicini quasi alla tradizione del troubar clus medievale, citazioni bibliche, ma anche, e forse soprattutto, una multiculturalità che prende vita nelle collaborazioni del suo ultimo lavoro. Irlanda e Iran si intrecciano, inaspettatamente, in un disco di un busker di Dublino. È il pensiero analogico che permette a mondi così distanti di parlarsi, dando vita ad atmosfere veramente particolari e a colpi di scena musicali. E’, nelle intenzioni e nelle parole, una ricerca continua, di amore, di strade e di identità, un flusso di coscienza mormorato sui marciapiedi di Parigi.
Il nostro irlandese che cammina è figlio dell’Ulisse di Joyce, quantomeno della sua forma, così instabile e fragorosa e densa. E’ figlio dei cieli della sua isola e delle sue birre, della sua storia e della sua forza. Un centro stabile e coerente, portato volontariamente in terra straniera alla ricerca di nuove sfumature. Un piccolo demone parigino che gli sussurra nelle orecchie e un gruppo di amici dediti al particolare musicale.
Gli ingredienti ci sono tutti. 

C’è Glen Hansard che cammina verso l’Irish Cultural Centre, dove alloggia da un mese. Ha concluso il suo ultimo lavoro, This Wild Willing, da poche ore, grazie al suo amico David Odlum, con cui collabora da anni. Ha suonato e cantato con connazionali e con musicisti provenienti da mezzo mondo, ha lavorato duramente su piccoli frammenti musicali che tra le sue mani sono diventati grandi pezzi. Ha cantato piano, sottovoce, perché ha inciso un album che va ascoltato dedicandoci del tempo, senza strepiti, senza fretta, richiede merce rara, l’attenzione. Sette canzoni su dodici superano i cinque minuti.
Cammina l’Hansard musicista, consapevole di aver fatto un buon lavoro da artigiano e un ottimo lavoro come artista.
Cammina, Glen, verso un’altra città, verso un nuovo genius loci, verso nuovi amici con cui condividere una pinta di Guinness e qualche accordo, sia mai che ci scappa un altro gioiello come questo This Wild Willing.

 

Glen Hansard

This Wild Willing

ANTI-, 2019

 

Andrea Riscossa

Cage the Elephant “Social Cues” (RCA Records, 2019)

C’è una buona e una cattiva notizia sul ritorno dei Cage The Elephant. La buona notizia è che Social Cues è un bel disco. La seconda è che per qualche giorno, da quanto è orecchiabile, sarà impossibile ascoltare altro.

L’ultimo e quinto album della band del Kentucky è uscito il 19 Aprile 2019 per RCA Records. Ad averci messo le mani sopra, questa volta, il Re Mida della produzione: John Hill, già celebre per aver lavorato con Florence + The Machine e Santigold.

I Cage the Elephant hanno alle spalle una carriera decennale, ma sono diventati grandi senza mai farsi notare troppo. Nella loro produzione non esiste qualcosa di assolutamente eccezionale in termini di scrittura o audacia sonora, ma la loro formula è rimasta comunque fortemente caratteristica e piacevole.

Dal 2008 ad oggi hanno attraversato un’enormità di generi: dal blues al garage, passando per il funky con una punta di elettronica. Nelle tredici tracce che compongono Social Cues la metamorfosi sembra finalmente essersi compiuta: dal rock più sporco e viscerale degli esordi ad un suono più elegante e sofisticato, per un disco di certo meno rumoroso dei precedenti.

Broken Boy è l’urlo iniziale dell’album. Non poteva esserci apertura migliore. Un pezzo abrasivo, con una produzione lo-fi, che piacerà ai fan della prima ora. Tutto il disco sembra convergere sul tema dell’alto prezzo del successo, che spesso viene pagato dagli artisti in termini di ansia, esaurimento nervoso, senso di inadeguatezza e psicopatie varie.

Tutto questo unito a una buona dose di automedicazione messa in pratica da Matthew Shutlz, in seguito al recente divorzio dalla moglie. “Tell me why I’m forced to live in this skin, I’m an alien”, canta Matt. E preparatevi: è solo l’inizio.

Infatti, il testo della canzone successiva che porta il nome dell’album Social Cues recita “sarò nel retro, dimmi quando è finita”, con Shultz che canta “non so se posso interpretare questa parte molto più a lungo”.

Black Madonna, insieme a Ready to Let Go, è tra i pezzi più pop. Eccessivamente elaborata, ma allo stesso tempo più apatica rispetto al resto. Lo stesso vale per Love’s the Only Way e What I’m Becoming, che sembrano pezzi già sentiti altre volte dai Cage the Elephant. Quello che si avverte è un fastidioso senso di familiarità che contribuisce solo a renderli meno brillanti rispetto al resto dell’album.

Uno dei pezzi migliori è Night Running, con Beck. La canzone ha una vena reggae, sia nel suo backbeat che nella produzione, oscura e con effetti sonori simili a quelli della dub. Il suono è pieno e arioso, e anche il cantautorato richiama alla mente quello più tradizionale dei Cage the Elephant.

Skin and Bones è seducente e sembra perfetta per diventare un singolo radio.

La vera bomba a mano dell’album però è House of Glass, che al primo ascolto potrebbe essere un pezzo cantato da Tricky. Qui la progressione della chitarra di Brad Shultz, fratello del cantante, sembra abbracciare alla perfezione i testi di Matt sull’isolamento e la mutilazione, e sostenere i suoi continui tentativi di convincersi dell’esistenza dell’amore.

L’album termina con Goodbye, una delle canzoni più tristi e spettrali del disco. “Non piangerò, il Signore sa quanto ci abbiamo provato”, si tratta di una ballata accompagnata da un pianoforte echeggiante, in continuo crescendo.

“Tante cose che voglio dirti, così tante notti insonni ho pregato per te” recita il testo, ed è in questo preciso momento che i Cage the Elephant svelano il loro grande potenziale nel toccare le corde più fragili e commosse della nostra anima.

In Social Cues il suono è molto stratificato, complesso, ma compatto. Tutto ben amalgamato con la voce di Matthew Shultz. I testi sono più oscuri rispetto al passato, complice anche il recente divorzio del cantante, ma nel complesso i Cage the Elephant rimangono gli stessi ragazzoni spavaldi di sempre.

Non siamo di fronte ad un lavoro rivoluzionario o che passerà alla storia, ma allo stesso tempo, di certo, Social Cues non deluderà i fan. Questo album è da intendersi più come colorare fuori dalle righe, anziché inventarsi un disegno nuovo, ma bisogna ammettere che i Cage the Elephant hanno dimostrato di essere, una volta in più, una band tra le più ecclettiche e divertenti in circolazione.

 

Cage the Elephant

Social Cues

RCA Records, 2019

 

Daniela Fabbri