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Tag: review

Ed Harcourt – Beyond the end (Point of Departure, 2018)

Per caso, quasi distrattamente, ho letto l’altro giorno che era uscito un nuovo album di Ed Harcourt e incuriosita dal fatto che fosse completamente strumentale, solo pianoforte e archi, me lo sono andata ad ascoltare di filata.

Niente voce, niente parole, solo melodie. E ne sono rimasta completamente rapita dal primo ascolto, rapita e con un gran nodo in gola.

Beyond the end sono quaranta minuti di pura bellezza, emozione in punta di dita e archetto, 12 pezzi che scivolano uno dopo l’altro, uno dentro l’altro, con la grazia che solo un compositore elegante come Harcourt può metterci.

Credo che ci sia qualcosa di primordialmente potente nelle melodie per pianoforte e violino, risvegliano emozioni profonde, e Harcourt in questo album va a toccare delle corde davvero sensibili nell’animo umano, tanto da far venire i brividi lungo la schiena al primo ascolto di Wolves change rivers.

La bellezza. L’unica cosa che riuscivo a pensare mentre venivo trasportata in questa dimensione onirica fatta di atmosfere sfocate ma intense: la bellezza. Ecco, la bellezza suona così.

Il suono è a tratti rovinato come se la musica provenisse da un grammofono polveroso, come in Faded photographs, ma è appunto il suono della polvere che rende magica la melodia: il suono sporco di un grammofono, titoli di chiusura di un film francese proiettato in un vecchio teatro stucchi e velluto consunto…

A chiudere gli occhi è in questi posti che va la mente accompagnata dalla musica di Beyond the end.

Questo album potrebbe essere etichettato come cinematic pop, forse perché ogni traccia inevitabilmente trasporta in una dimensione da film in bianco e nero, un po’ vintage e decadente, ma allo stesso tempo densa di emozioni ed espressività che solo l’assenza di parole riesce a convogliare.

Provate ad ascoltare Empress of the lake a mente sgombra: non vedete davanti ai vostri occhi per caso l’alba nascere riflessa in uno specchio d’acqua, non sentite l’umido della rugiada solleticarvi le caviglie?

E se vi lasciate andare a Whiskey held my sleep to ransom, vedete anche voi una stanza, un tavolo e una bottiglia su cui danza la luce fioca di una candela?

Beyond the end è un piccolo capolavoro di fine anno, che merita di essere assaporato dalla prima all’ultima nota.

Ed Harcourt
Beyond the end
Point of Departure

 

Francesca Garattoni

Quelle Undici Canzoni di Merda con la Pioggia Dentro di Giorgio Canali

Partendo dal presupposto che preferisco raccontare la musica attraverso le immagini piuttosto che a parole, ho voluto scrivere queste righe più per uno sfogo personale che per un mero esercizio di stile.

Prendete quindi ciò che segue come fosse un amico che vi racconta di quella tipa rivista da poco, che gli fa  brillare gli occhi.

Pronti? Via.

La tipa in questione è Giorgio Canali (ex CCCP, ex CSI, ex PGR per chi non fosse sul pezzo, ndr) accompagnato dalla sua band, i Rossofuoco (Luca Martelli, Marco Greco, Stewie Dal Col).

Gli ex li ho nominati per dovere di cronaca, ma ce ne possiamo tranquillamente dimenticare perché Giorgio Canali si racconta benissimo per quello che fa ora, per il presente.

Il passato è appunto passato. Se qualcuno è a corto di informazioni ed affamato le cerchi sull’internet.

Erano ben 7 anni che non usciva con un album di inediti, l’ultima uscita (Perle ai Porci, 2016) è una raccolta di cover riarrangiate.

Già il titolo del disco è un sunto di quello che verrà: Undici canzoni di merda con la pioggia dentro.

Spumeggiante!

Attenzione, non sto dicendo che ci aspettano undici brani inascoltabili, tutto l’opposto, si tratta di autoironia.

Le prime sei parole del primo brano, Radioattività recitano così: “Che ti aspetti se non nuvole”.

Praticamente la carta d’identità di Giorgio Canali, le impronte digitali, il suo DNA fatto di pessimismo autoironico, nichilismo e fastidio, consapevolezza e critica, romanticismo e saggezza.

Il ritmo a marcia e il cantato, che è in realtà quasi un parlato, introducono perfettamente il mood del disco, fatto appunto di autoconsapevolezza e autoironia, sarcasmo e cinismo.

Messaggi a Nessuno è una ballad meravigliosa , dal ritmo cullante, arpeggi di chitarra e voce tenue ma decisa, che raccontano l’ineluttabilità, il parlare al vento.

Piove, finalmente Piove alza il ritmo e il tiro, inizia a liberare il Canali cinico che auspica un altro diluvio universale, per sommergere, tutto quasi come fosse una liberazione, un sacrificarsi con dignità.

Con Estate torna per un attimo la calma e la tranquillità ma spezzate immediatamente da Emilia Parallela, il pezzo forse più duro dell’album.

Evidente richiamo a quella vena paranoica dei CCCP, il brano è uno sfogo lampante su ciò che ci circonda, in particolare sulla regione in cui vive lo stesso Canali, che poi continua a raccontarla in qualche modo nel pezzo successivo, Aria Fredda del Nord.

Fuochi supplementari è un inno autoironico agli sbagli, ai rimorsi, alle occasioni mancate, ma che immancabilmente si ripetono in loop.

Successivamente si balla con Danza della Pioggia e del Fuoco per poi ritornare aggressivi e sputa-fuoco con l’energica Mille non più di mille, una fotografia spietata della nostra società, quella italiana,

Bostik termina l’album con suoni dilatati e noise di chiusura.

 

Mi sono bastati pochi ascolti per capire che Giorgio Canali ha fatto uscire un gran bell’album in cui mischia sapientemente e senza giri di parole, politica e amore, sociale e sentimenti.

L’attitudine punk-rock spinge le chitarre distorte a mischiarsi con i ritmi serrati e poi lenti che fanno da sfondo ad una voce inconfondibile, che sa essere sia dura, ruvida e urlata, sia morbida, tenue e quasi sussurrata.

Canali vomita un sarcasmo cinico, a volte spietato, che mi ricorda quello di Giorgio Gaber in Io Se Fossi Dio.

Uno sguardo lucido e critico su ciò che ci circonda, su come siamo fatti, un accettarsi e accettare le conseguenze, una foto di questa Italia di oggi, che non cambia mai.

Perché siamo proprio noi a non voler cambiare.

 

Siddharta Mancini

 

Il mare di emozioni dei SEAWARD.

Float è il nuovo album dei Seaward, che segna il loro debutto con Platonica.

Il duo, composto da Francesco e Giulia, con questo album ci aiuta a immergerci in una serie di atmosfere che spaziano dal pop, al soul, all’r’n’b per arrivare fino all’elettronica.

La parola immergere non è stata usata a caso perché sia Float ( che letteralmente vorrebbe dire galleggiare) che il nome stesso della band richiamano alla mente il mare.

Non penso che si tratti di una scelta casuale perché le sensazioni che si provano ascoltando questo cd potrebbero essere paragonate a quelle che si hanno perdendosi a guardare il mare al tramonto.

Spaziando e contaminando tra loro generi diversi, il gruppo riesce a suscitare un mix di sensazioni differenti nell’ascoltatore, che ha il suo faro nella voce dolce di Giulia, che non lo abbandona mai.

Si passa da canzoni più ritmate, come Ending Fire, a brani più lenti, come Waves, che ci cullano nel mondo suoni dei Seaward.

Un album intenso, profondo che ricorda appunto i suoni del mare. Come quando da piccoli appoggiavamo una conchiglia all’orecchio per farci dondolare dal rumore delle onde.

 

Laura Losi

 

 

FLOAT

TRACKLIST & CREDITS
1. Fools / 2. Driving / 3. Second Part / 4. Walls / 5. 17 Beauty / 6. Feel / 7. Waves / 8. Hometown / 9. Ending Fire / 10.Not Afraid To Die Alone

Prodotto da Zibba.

Registrato al Bombastic Recording Studio di Imperia. Mixato da Simone Sproccati al Crono Sound Factory di Vimodrone (MI). Masterizzato da Andrea “Bernie” De Bernardi (Eleven Mastering Studio)

Testi di Giulia Benvenuto, Francesco Proglio e Zibba. Musica di Giulia Benvenuto, Francesco Proglio e Zibba.

Label: Platonica
Edizioni: Warner Chappell Music Italiana / Platonica
Distribuito da Believe Digital

Produttore esecutivo: Materiali Musicali, con il sostegno di MiBACT e di SIAE, nell’ambito dell’iniziativa SIllumina.

I LOREN e l’esordio con l’album omonimo. E con il cuore.

Il 14 dicembre è una data importante per i Loren dal momento che uscirà il loro album omonimo.

La giovane band è composta da cinque ragazzi tutti fiorentini e il legame con la loro città d’origine è forte in molti dei loro testi.

Un nuovo gruppo che arricchisce la famiglia indie-rock di Garrincha dischi.

Melodie orecchiabili che di primo acchito ti fanno venire voglia di ballare ma che ad un secondo ascolto, più profondo e più attento, ti portano a concentrarti sui testi.

Perché le loro melodie fanno quasi passare le parole in secondo piano ma, credetemi, perdersi il senso di questi testi
sarebbe un vero peccato.

Suoni ottimisti e allegri che vanno di pari passo con parole ricche di speranza che strizzano l’occhio ad un futuro radioso.

Ottimismo, secondo me, è la parola chiave per decodificare tutto il disco.

Ci salveremo tutti è la traccia numero uno. Già dal titolo capiamo qual è la visione della vita dei Loren: non c’è spazio per la sconfitta o la tristezza.

Le cose del passato si incontrano con quello che il futuro ha in serbo per noi. L’unione tra il passato e il futuro è la chiave verso la salvezza; è così che una cicatrice si trasforma in un tatuaggio.

Un album eclettico ricco di riferimenti ad artisti italiani e internazionali: i Loren hanno un background di tutto rispetto che va da Cremonini ad artisti internazionali come i The killers.

Dieci tracce che ci accompagnano in un viaggio musicale: passiamo da ballate, come Blister, a canzoni dal piglio più rock, Psicosi e Tutti fermi, o ancora a brani che se chiudi gli occhi ti fanno venire in mente l’estate, Roland Garros.

Menzione d’onore, a Giganti, la canzone che mi ha toccato di più di tutto l’album. Una celebrazione del passato e della fiorentinità. Ma sopratutto una celebrazione dei momenti di vita vissuta; perché oggi, abituati come siamo a passare il nostro tempo al telefono rischiamo di perderci i momenti importanti.

Questi cinque fiorentini sono da tenere d’occhio perché hanno tanto da regalare. E non escludo che riusciranno a fare come il loro idolo Batistuta: a zittire uno stadio, ma con il suono della loro musica.

E’ quello che gli auguro.

 

Laura Losi

J Mascis e il nuovo album Elastic Days

Nonostante siano già passate settimane dalla pubblicazione del terzo album in studio di J Mascis Elastic days (9 Novembre via Sub Pop), è solo da un paio di giorni che ho il tempo e la calma per potermelo godere come si deve e ascolto dopo ascolto è cresciuto in me il bisogno, anzi il dovere, di scriverne.

J Mascis, il terrore dei timpani quando è sul palco con i suoi Dinosaur Jr, chitarra elettrica in mano e muro di Marshall alle spalle, in versione solista si trasforma appropriandosi di una dimensione intima, calda e per nulla pericolosa per le orecchie.

 

 

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J. Mascis with Dinosaur Jr. live at Voxhall, Aarhus, Denmark, November 10th, 2016

 

Dopo il meravigliosamente struggente Several shades of why del 2011 e il leggermente meno brillante Tied to a star del 2014, con Elastic days Mascis torna ad avvolgerci con il calore della chitarra acustica e della sua voce malinconica ma rassicurante in 12 tracce che fanno perdere la cognizione del tempo.

Elastic days è un album autunnale, al primo ascolto uggioso come una giornata di nebbia, ma se riascoltato con attenzione è come camminare per strada e diventare consapevoli del calore dato dall’arancione delle foglie cadute per terra: c’è tanta bellezza anche nelle cose all’apparenza un po’ tristi, basta avere la serenità per vederle.

I testi hanno un vago sapore di rimpianto ma senza disperazione, canzoni come Web so dense si aprono in boccate di speranza a pieni polmoni; in I went dust c’è un giro di basso che riecheggia le atmosfere intimiste di  Vivadixiesubmarinetransmissionplot di Sparklehorse ma è lì che arrivano a scuotere da una depressione imminente i ritmi sostenuti della chitarra acustica a cui si intrecciano le melodie di quella elettrica.

Ogni traccia dell’album, a partire da See you at the movie fino alla chiusura con Everything she said, passando dalla title track, è una perla: dodici storie inizialmente sfocate e appena accennate pizzicate sulle corde, ma che nell’arco dei pochi minuti che servono per raccontarle crescono e si liberano in un rock gentile che avvolge e coccola rassicurante.

L’album finisce dopo appena poco più di 40 minuti e quando la musica svanisce quello che resta è la voglia di far ripartire il disco e ascoltarlo ancora e ancora.

J Mascis

Elastic days

Sub Pop

 

Francesca Garattoni