Skip to main content

Mese: Maggio 2019

I Hate My Village: l’esigenza di bellezza balla a ritmo tribale

Una formazione d’eccellenza che non ha bisogno di presentazioni.

Un unico manifesto artistico: creare qualcosa di bello. Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours), Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Alberto Ferrari (Verdena) e Marco Fasolo (Jennifer Gentle) si sono incontrati puntando dritto a questo obiettivo.

È nato così un super-gruppo, gli I Hate My Village. Li abbiamo incontrati nel backstage del Supersonic Music Club, in occasione della data del 20 aprile a Foligno. Loro, schierati su un divano. Di fronte io, su uno scalino, con il palco alle spalle e tanta emozione. Un viaggio di andata e ritorno per l’Africa, tra curiosità, melodie sciamaniche, nuovi linguaggi e riflessioni sul villaggio musicale attuale.

 

Nel momento in cui si parla di una super-band scatta sempre il meccanismo mentale per cui non si sa se aspettarsi un progetto del tutto nuovo o un’opera di citazionismo legittimo dei rispettivi gruppi di provenienza. Su questa premessa, come nascono gli I Hate My Village?

Fabio: In realtà non sapevamo che cosa sarebbe venuto fuori. Il primo incontro è stato fra me e Adriano, in sala prove. Inizialmente l’intento era quello di vederci per suonare…niente di più. Avevamo già qualche idea da sviluppare quindi abbiamo dato al tutto una certa frequenza. Da lì, è venuto fuori il materiale per un disco che abbiamo poi portato da Marco, in studio. Un disco totalmente strumentale.

 

Quando avete detto: “Vogliamo Alberto Ferrari alla voce?”

F: Anche per quanto riguarda la linea vocale, la scelta è stata spontanea. Abbiamo chiesto ad Alberto se voleva unirsi per cantare quello che voleva, come voleva lui. Ed ha accettato.

IMGL6598

Perno centrale è il rimando a sonorità africane. Un tentativo di comunicazione, in musica, attraverso una lingua straniera. Che messaggio vuole veicolare?

F: Già nel nome del gruppo c’è un errore di pronuncia. Nome ispirato al titolo di un cannibal movie che gioca sui verbi odiare “hate” e aver mangiato “ate”. È vero, a noi piace la musica africana e lo spunto è stato quello…però non siamo africani… il risultato rimanda a questo enorme errore di pronuncia. Volevamo semplicemente fare qualcosa che ci piacesse e che consideravamo bello, nel senso più autentico del termine. Il messaggio, anche di stampo sociale e politico, ci si può comunque leggere: siamo noi, in questo caso, ad andare verso l’Africa? Anche noi viviamo in un piccolo grande villaggio, alla fine? Lo odiamo? Oppure…pensa anche al fatto che un errore di pronuncia tra “hate” ed “ate” l’avrebbe potuto commettere qualsiasi italiano…

 

Quindi anche gli altri equivoci lessicali in titoli come Tramp o Fame che in inglese sta per “fama, successo” sono più dei collegamenti o dei contrasti?

F: È un significato contenuto già nel titolo stesso del progetto appunto: facciamo musica africana ma poi non ci riusciamo. Anche noi abbiamo iniziato studiandola o facendoci guidare da ascolti precedenti. Ciò che emerge è l’originalità del disco.

 IMGL6596

 

E quali sono le influenze, gli ascolti o le collaborazioni che hanno inciso maggiormente nella fase creativa?

Adriano: La musica africana ci ha influenzato anche in seguito a collaborazioni con artisti come Bombino e Rokia Traoré. Inoltre, nell’ambito della musica rock e blues, durante il corso degli anni Novanta si è susseguita tutta una serie di artisti africani che suonavano con le chitarre elettriche. Qualcosa che risultava molto difficile ascoltare negli anni Ottanta, famosi per le corde di nylon. È nato così un filone legato al rock ma di matrice africana: il Blues Tuareg o il Mali rock, ai quali ci siamo associati per gusto personale, mescolando le varie psichedelie del Fela Kuti dagli anni dai Settanta in poi.  Abbiamo approfondito questo linguaggio, spinti dall’interesse e dalla necessità di esprimerci con una musica basata su codici diversi, su una genesi differente per quanto riguarda la canzone e la stessa idea di band. La nostra non è una superband anni Novanta, è un po’ diversa, più contemporanea. Da non tralasciare il fatto che ci siamo ispirati a noi stessi. Se penso ai gruppi che amo di più della scena italiana sono i Calibro 35, i Jennifer Gentle, i Verdena o gli Zoo. Ci siamo trovati tra persone che si stimano a vicenda.

F: È un grande laboratorio. Poi, ovviamente, venendo tutti da altre situazioni più grandi, è normale che questo sia considerato come il b-project. Ma non è così.

A: Esatto, non c’è una classifica. La musica si fa perché viene. E volevamo fare una cosa bella…è questa la benzina, il motore che ha dato il via a tutto. E continua a farlo. L’esigenza di bellezza.

 IMGL6589

Ricollegandomi al cannibal movie ghanese e alla copertina dell’album realizzata dall’artista romano Scarful, nel vostro progetto si rintraccia un “cannibalismo artistico”, un nutrirsi di idee. Quanto la musica italiana attuale si ciba ancora di curiosità, di sperimentazione?

F: Di sperimentazione ce n’è ancora tanta, ma non si vede così facilmente. Forse non trova il giusto spazio. Chi fa musica per lavoro spesso sceglie la strada più semplice da seguire. Soprattutto se vuoi fare musica perché preferisci non fare un cazzo nella vita…e magari ti riesce pure bene eh… allora quella è la via. Se invece hai qualcosa da dire, diventa tutto più difficile…ci vuole coraggio. Ovvio, c’è ancora chi sperimenta, magari nei teatrini da trenta persone. Però c’è. L’appiattimento esiste nella legge dei grandi numeri. Nei piccoli numeri, però, certe cose sopravviveranno sempre. Una cosa da non dimenticare è che per noi è più facile fare quello che ci pare. In questo ci ha protetto la natura di super band. A noi piace quello che abbiamo creato? Si. A voi no? Pazienza. Ci siamo sentiti liberi. L’intenzione era quella di arrivare anche al pubblico, certo. Divertirsi prima di tutto…addirittura intrattenere! Altro che sperimentazione… è l’esatto opposto!

Marco: Ma non è detto che i due aspetti siano inconciliabili, anzi!

 

È di qualche giorno fa l’annuncio del tour estivo. Il prossimo 10 agosto suonerete allo Sziget, uscendo dal “villaggio italiano”. Quali sono le aspettative sulle date all’estero?

F: In realtà, fin dall’inizio, avevamo concepito gli I Hate My Village come progetto internazionale tanto che volevamo uscire con il disco prima all’estero che in Italia. Ci stavamo anche riuscendo… poi una serie di circostanze ci ha fatto un perdere tempo e abbiamo deciso diversamente. Senza dubbio, l’estero è un sentiero inevitabile da percorrere.

A: Anche per far conoscere la nostra musica al di là dei confini italiani. Le caratteristiche si prestano molto: i testi sono in inglese, sono fruibili a tutti. Non vediamo l’ora.

IMGL6604Intervista di Laura Faccenda

Foto di Luca Ortolani

Il musical e l’Italia: School of Rock

•Quando il teatro diventa una scuola per passato e futuro•

 

Ho una tradizione a cui non posso proprio rinunciare, quando faccio tappa nella bella Firenze: gustarmi una doverosa cena a base di specialità toscane. 

Dentro quella roba c’è il senso della vita, amici miei. 

Guarda caso l’osteria di fiducia si trova proprio davanti alla mia meta, il Teatro Verdi di Firenze.

Il cameriere, ormai fidato, è sbigottito quando ammetto di non esservi mai entrata così, offrendomi il dessert, mi avverte sogghignando: “te lo dico, desidererai tornare indietro nel tempo per indossare un abito tutto luccicante, con orecchini di perle ed il libretto della tua opera preferita in mano. Entrando, ti renderai conto che il Verdi offre, già di per se, uno spettacolo in tutto e per tutto”.

Buono a sapersi; dovrò davvero scegliere tra il mio chiodo di pelle ed un vestito da Charleston?

In effetti il Teatro Verdi citato anche da Collodi nel classico Pinocchio è un tripudio di raffinatezza e fastosità, una location che farebbe perdere la testa a qualsiasi fan di Downton Abbey, me compresa.

Per questo è così dannatamente splendido ed inaspettato trovarlo brulicante di un pubblico formato da tantissimi bambini, che scorrazzano senza sosta tra le seriose poltroncine di velluto rosso. 

Questa sera, infatti, saranno proprio loro i veri protagonisti dello spettacolo, poiché di bambini si racconta: bimbi pronti a dire la loro, che agli adulti piaccia o meno.

Lo School of Rock diretto da Massimo Romeo Piparo è, infatti,  la storia del rockettaro incallito Dewey Finn (personaggio cucito addosso a quel mattacchione di Jack Black per l’omonimo film diretto da Sam White e riscritto per Broadway dal maestro del musical Andrew Lloyd Webber).

 

foto gruppo SOR Antonio Agostini min
Il cast del musical sul palco

 

Finn per sbarcare il lunario si ritrova ad ingannare il sistema fingendosi un insegnante per una delle scuole più prestigiose del paese, la Horace Green Alma Mater. Nel costatare quanto i suoi giovanissimi alunni siano davvero dei tipi tosti, Dewey  insegnerà loro l’unica cosa che abbia mai conosciuto e amato davvero: il rock, ovviamente. 

Scoprendoli incredibilmente portati per la musica formerà una band, chiamata School of Rock, e l’iscriverà alla battaglia delle band. 

I giovani musicisti apriranno il loro cuore al rock, stanchi di aver a che fare con genitori rigidi, assenti e incapaci di ascoltare le loro passioni e necessità, riconoscendo in quel buffo ometto del Signor Dewey uno sgangherato mentore, del tutto differente da qualsiasi altra persona adulta mai incontrata nella loro vita.  

Lo spettacolo è senza dubbio un grandioso inno al rock, che cambia pochissime carte in tavola rispetto all’omonimo film del 2003 ed è un piacere applaudire, ancor prima che il sontuoso sipario si apra, alla super band dal vivo che, ai piedi del palco, è già agguerrita e pronta a scatenarsi tra i brani originali ed i classici del rock che compongono la colonna sonora di School of Rock.

 

Matteo Guma e Lillo Petrolo min
Il cast in scena.

 

Le scenografie dimostrano immediatamente d’essere quelle di una capace e sapiente produzione, per nulla mancante rispettò ai cugini del West End.

Grazie ad istallazioni mobili curate nei dettagli, gli autori riescono a trasportarci nelle numerose location dello spettacolo: la caotica e sciatta camera da letto di Dewey, la sala prove incredibilmente convincente  e, vero fiore all’occhiello del reparto scenografico, la splendida Horace Green che sarà teatro di una vera rivoluzione, capitanata dai giovani e brillanti protagonisti.

Lo spettacolo prosegue ed il pubblico, abituato fino a quel momento alla vita scapestrata ed al mondo tutto pane e rock ‘n’ roll di Dewey, ha bisogno di qualcosa che lo ponga davanti alla dura realtà: non sarà facile ingannare la Horace Green dove regnano disciplina e contegno.

Con un brano che, in mezzo a tanti straordinari momenti di vero rock,  merita una menzione speciale per aver portato sul palco la  potenza della tradizione: insegnanti e studenti ci accolgono nella sala grande offrendoci una dimostrazione corale davvero emozionante, che ha il gusto del musical classico. 

Il contrasto tra la verve della nuova e vecchia Broadway e l’irriverenza del rock  è rafforzato dalle citazioni, più o meno evidenti, di spettacoli rappresentativi come Wicked, Annie, Matilda e Cats. 

Dopo un crescente susseguirsi di numeri che inneggiano al più sfrenato hard rock, entriamo nel vivo della rivoluzione con il brano melodico Se Solo Mi Ascoltassi, dove i piccoli rockers esternano tutto il loro dolore nel capire ogni giorno di più quanto i loro genitori, assuefatti dalla frenetica routine, non siano in grado di comprendere ed incoraggiare i loro sentimenti e sogni. 

Questo dovrebbe essere il momento “strappalacrime”, così viene chiamato nel musical e, data l’intensità trasmessa dalle voci, dagli occhi e dalle gestualità dai ragazzi lo sarebbe, se non fosse per la proiezione alle loro spalle, che va a sostituire l’asettico sfondo nero delle produzioni straniere. 

Difficile ammetterlo, ma la commozione e l’empatia sono totalmente smorzati da questo screensaver, caratterizzato da fiori e farfalle, un po’ pacchiano. La scelta  a noi non è piaciuta.

Niente panico, perché sul finale entra in scena il meta-teatro. 

Con un riuscitissimo espediente drammaturgico, il pubblico del teatro Verdi si trasforma in quello della battaglia delle band che, totalmente impazzito per lo spettacolare concerto interamente suonato dal vivo dai ragazzi canta, balla e salta, posseduto da quella frenesia che solo il dio del rock può regalare.

 Il risultato è la vittoria indiscussa  dei ragazzi con il brano The School of Rock.

La scelta di Pasquale Petrolo, in arte Lillo, per il personaggio di Dewey è inaspettatamente assennata, praticamente perfetta. 

 

DSC8582 min
Pasquale Petrolo, in arte Lillo.

 

Inizialmente, alla vista della locandina dello spettacolo dal titolo Lillo – School of Rock la reazione non è stata del tutto positiva.

E’ lecito storcere il naso con pregiudizio quando un personaggio famoso come Lillo viene lanciato nella mischia di un progetto che non tratta propriamente il suo campo, con il solo apparente scopo di raccogliere audience da parte di un pubblico italiano troppo confuso e rinunciatario quando si tratta di musical. 

Si è portati a pensare che, nonostante le tante abilità e la grande esperienza che Lillo ha maturato nel mondo dello spettacolo, sarebbe più appropriato affidare una parte così significativa ad un performer che, per anni ed anni, ha dedicato la sua formazione in quel particolare ramo dello spettacolo che è il musical. 

Molti attori, ormai, vengono sacrificati a causa della volontà delle produzioni di inserire nel cast un famoso specchietto per le allodole. 

In questo caso però, dobbiamo ammetterlo, Lillo convince e conquista.

Occorre dimenticarsi delle performance di Jack Black e del suo “sostituto” nella produzione di Broadway, Alex Brightman: artisti dal carattere tanto esuberante quanto invadente. 

Un Lillo evidentemente emozionato, preparato nel suonare la chitarra, cantare e ballare, con la direzione di Piparo plasma il personaggio di Dewey a sua immagine e somiglianza, rendendolo meno seccante, più bonario, ma ugualmente capace di creare quel contrasto stilistico e generazionale tra il professore e gli studenti.

Già, gli studenti. Quel palco è totalmente ricoperto da quegli splendidi diamanti di talento che sono i ragazzi dell’Accademia Musical Sistina: appassionati, sensazionali, dinamite pura. 

 

foto gruppo Marco Rossi min
I piccoli protagonisti.

 

Cantando, suonando e ballando rigorosamente dal vivo, reggono lo spettacolo sulle loro giovani spalle, svalicando di gran lunga il qualificatissimo cast degli adulti e conquistando i cuori degli spettatori che, grandi o piccini, sono rapiti dall’improvvisa voglia di fare headbanging alzando con fierezza il calice del rock.

Una storia, quella di School of Rock, assolutamente perfetta per il pubblico italiano, poiché capace di trasformare un intero teatro in una scuola per passato e futuro. 

Siamo tutti inevitabilmente alunni quando si tratta di imparare dai nostri errori e quei ragazzi la, sul palco, sono insegnanti pronti a gridare che niente e nessuno deve frapporsi tra loro e la realizzazione di un sogno.

Il rock è una filosofia, uno stile di vita, questo spettacolo lo racconta perfettamente” afferma Lillo “Dewey non vuole proprio diventare una rock star, vuole solo essere libero di vivere rock. Il rock è farsi sentire, non abbassare la testa, è musica legata alla ribellione. Sono proprio i volumi alti del rock che ti portano a dire “Ascoltami!”, che è quello che vogliono i bambini della storia. Il rock è stato fondamentale per generazioni.”

Si percepisce fortemente, da parte di School of Rock e di quello che rappresenta, la grande volontà di trasmettere un messaggio potente a quei genitori che non trovano nella strada del musicista o del performer una valida alternativa a qualsiasi altro lavoro per il proprio figlio, perché di questo stiamo parlando. 

In Italia una carriera nel mondo dello spettacolo è troppo spesso sminuita, derisa, molto di più che nel resto del mondo, vi assicuro. 

Il pubblico italiano è così rapito da School of Rock perché tocca le corde giuste. Ci sentiamo chiamati in causa, proviamo empatia, ci affezioniamo e, alla fine, la speranza prende piede, rimanendoci aggrappata anche usciti da teatro, nonchè nei giorni successivi, mettendo profonde radici.

Ho passato il post show dietro le quinte con i ragazzi del cast ed è stato incredibile rendersi conto della devozione dei genitori (quelli veri) per la passione e la professionalità dei loro figli. 

 

WhatsApp Image 2019 05 06 at 20.58.16 min
Questa sono io nel dietro le quinte con il cast.

 

Questo, è il caso di dirlo, è quello che vogliamo per le generazioni future: un mondo dello spettacolo sostenuto dalla società, un mondo dove gli artisti, quelli veri, avrebbero la possibilità di trovare la loro strada, senza il costante timore d’essere sottovalutati, maltrattati e di non essere ascoltati. 

La pagella di School of Rock è piena di bei voti, non perdetevi le prossime date!

Valentina Gessaroli

Millencolin @ Vidia_Club

[vc_row][vc_column][vc_column_text]

• Millencolin •

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435921124{margin-top: 20px !important;margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_column_text]

+ WOES

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435940801{margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_column_text]

Vidia Club (Cesena) // 04 Maggio 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto: Valentina Bellini

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1551661546735{padding-top: 10px !important;padding-bottom: 0px !important;}”][vc_column][edgtf_image_gallery type=”masonry” enable_image_shadow=”no” image_behavior=”lightbox” number_of_columns=”three” space_between_items=”tiny” image_size=”full” images=”13524,13533,13532,13528,13530,13527,13529,13522,13531″][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1556052397943{padding-bottom: 0px !important;}”][vc_column][edgtf_image_gallery type=”masonry” enable_image_shadow=”no” image_behavior=”lightbox” number_of_columns=”three” space_between_items=”tiny” image_size=”full” images=”13526,13523,13521,13520,13525″][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

 

WOES

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1556052397943{padding-bottom: 0px !important;}”][vc_column][edgtf_image_gallery type=”masonry” enable_image_shadow=”no” image_behavior=”lightbox” number_of_columns=”three” space_between_items=”tiny” image_size=”full” images=”13513,13515,13517,13519,13516,13512,13514,13518″][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]003

Grazie a Hub Music Factory

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

Scimmiasaki @ Porcelli

[vc_row][vc_column][vc_column_text]

• Scimmiasaki •

 

Porcelli Tavern (Amelia) // 26 Aprile 2019

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

È venerdì 26 aprile e fuori dal Porcelli Tavern, locale che ha vita nel centro di Amelia (TR) dal 1987, si avverte l’attesa. Ci si chiede quando inizierà il Release del nuovo album degli Scimmiasaki, Trionfo. Terzo lavoro per la band alt rock composta da Giacomo, Santian, Peppe e Niki, Trionfo uscirà (non sappiamo ancora quando) per Vina Records.

Sono passati 3 anni da Collasso, un EP che ha aumentato l’attesa e le aspettative dei fan. Trionfo infatti è un neonato ma con una gestazione di almeno un anno.

A mezzanotte il live non è ancora iniziato e continua ad arrivare gente.

Entrando nel Porcelli si fa fatica a passare, il bancone è gremito di persone e attorno ai tavoli ci si ritrova parlando del più e del meno. Ci addentriamo nella stanza sottostante al Pub e al primo accordo tutti si fiondano dentro.

Il palco è scarno e basso, rialzato dal pavimento di pochi centimetri. Dietro alla band l’unico pezzo scenografico è il banner con la grafica di Alessandro Ripane. Ma tutti gli occhi sono su di loro. Il posto è colmo.

Il concerto comincia con Vorrei, arpeggi solitari troncati da stacchi strumentali adrenalinici. Poco più di due minuti di musica e un breve testo “in fuga” verso la felicità. La gente è in ascolto, interessata e curiosa.

Qualcuno mi ha confessato di come fosse strano non conoscere e cantare le nuove canzoni, eppure Trionfo è familiare e le sonorità ormai caratteristiche degli Scimmiasaki non mancano.

Basta qualche nota del quarto brano Stringere (da Collasso), per far sì che gli spettatori rompano il ghiaccio e inizino a ballare. Il pubblico si scatena, canta e si unisce all’urlo collettivo di “Stringere!”. Sembra quasi una famiglia.

Il singolo, Trionfo, si apre con pochi secondi di chitarra ed esplode immediatamente nel ritornello, uno di quelli che ti resta in mente davvero. Sono già in molti a cantarlo, pur essendo uscito due giorni prima insieme al video di Flavio Gasperini.

A metà concerto, dei problemi tecnici con le luci portano il palco e la band alla penombra ma questo non oscura affatto il carisma degli Scimmiasaki.

Giostra è il pezzo più lungo, forse un po’ lontano dalle peculiarità dell’album. Il ritornello è disteso, quasi romanticizzante ed è seguito da uno strumentale al quale si sovrappone una simil litania: “Sento dire sempre le stesse cose”. Ipnotizzante.

Canzone priva di un refrain nel senso letterale del termine è Castello. La frase ridondante “Sono felice” però non può non entrarti in testa.

A chiudere il concerto c’è il bis del singolo. È come l’ultima spinta: una liberazione consapevole e già nostalgica. Il travaglio è stato lungo ma ne è valsa la pena.

Benvenuto Trionfo, “anche se il mondo è grande non è troppo per me” cit.

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

Testo: Cecilia Guerra

 Foto: Simone Asciutti

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1503314301745{padding-top: 10px !important;padding-bottom: 11px !important;}”][vc_column][edgtf_image_gallery type=”masonry” enable_image_shadow=”no” image_behavior=”lightbox” number_of_columns=”three” space_between_items=”tiny” image_size=”full” images=”13502,13501,13506,13504,13505,13508,13500,13507,13503″][/vc_column][/vc_row]

Rancore @ Campus Industry

[vc_row][vc_column][vc_column_text]

• Rancore •

 

Campus Industry Music (Parma) // 03 Maggio 2019

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

 Foto: Mirko Fava

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1503314301745{padding-top: 10px !important;padding-bottom: 11px !important;}”][vc_column][edgtf_image_gallery type=”masonry” enable_image_shadow=”no” image_behavior=”lightbox” number_of_columns=”three” space_between_items=”tiny” image_size=”full” images=”13551,13559,13557,13552,13555,13553,13558,13556,13554″][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

Grazie a Big Time

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

Concerto del 1 Maggio 2019 • Roma – Parte 2

[vc_row][vc_column][vc_column_text]

• Concerto del 1 Maggio 2019 •

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435921124{margin-top: 20px !important;margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_column_text]

ROMA

Parte 2

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435940801{margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_column_text]

Ex Otago
Anastasio
Zen Circus
Ghemon
Omar Pedrini
Noel Gallagher
Carl Brave
Manuel Agnelli
Daniele Silvestri
Achille Lauro
Gazzelle
Subsonica
Ghali
Motta
Negrita
Orchestraccia

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto: Simone Asciutti

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1551661546735{padding-top: 10px !important;padding-bottom: 0px !important;}”][vc_column][edgtf_image_gallery type=”masonry” enable_image_shadow=”no” image_behavior=”lightbox” number_of_columns=”three” space_between_items=”tiny” image_size=”full” images=”13469,13470,13471,13472,13473,13474,13475,13476,13477″][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1556052397943{padding-bottom: 0px !important;}”][vc_column][edgtf_image_gallery type=”masonry” enable_image_shadow=”no” image_behavior=”lightbox” number_of_columns=”three” space_between_items=”tiny” image_size=”full” images=”13478,13479,13480,13481,13482,13483,13485,13484,13486″][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1556052397943{padding-bottom: 0px !important;}”][vc_column][edgtf_image_gallery type=”masonry” enable_image_shadow=”no” image_behavior=”lightbox” number_of_columns=”three” space_between_items=”tiny” image_size=”full” images=”13495,13487,13488,13489,13490,13491,13492,13493,13496″][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Grazie a ICompany

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

Concerto del 1 Maggio 2019 • Roma – Parte 1

[vc_row][vc_column][vc_column_text]

• Concerto del 1 Maggio 2019 •

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435921124{margin-top: 20px !important;margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_column_text]

ROMA

Parte 1

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435940801{margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_column_text]

Ylenia Lucisano
1M Next – I Tristi
1M Next – Giulio Wilson
1M Next – Margherita  Zanin
Fulminacci
Eman
Le Mandorle
Izi
La rappresentante di lista
Eugenio in Via di Gioia
Colapesce e Bianco
Dutch Nazari
Fast animals and slow kids
La Municipàl
Pinguini Tattici Nucleari
Coma_Cose
Canova
Rancore

 

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto: Simone Asciutti

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1551661546735{padding-top: 10px !important;padding-bottom: 0px !important;}”][vc_column][edgtf_image_gallery type=”masonry” enable_image_shadow=”no” image_behavior=”lightbox” number_of_columns=”three” space_between_items=”tiny” image_size=”full” images=”13444,13445,13446,13447,13448,13449,13450,13451,13452″][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1556052397943{padding-bottom: 0px !important;}”][vc_column][edgtf_image_gallery type=”masonry” enable_image_shadow=”no” image_behavior=”lightbox” number_of_columns=”three” space_between_items=”tiny” image_size=”full” images=”13453,13454,13455,13456,13457,13458,13459,13460,13461″][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1556052397943{padding-bottom: 0px !important;}”][vc_column][edgtf_image_gallery type=”masonry” enable_image_shadow=”no” image_behavior=”lightbox” number_of_columns=”three” space_between_items=”tiny” image_size=”full” images=”13462,13463,13464″][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Grazie a ICompany

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

I Legno: una piccola realtà in una realtà per niente piccola.

E’ il 18 aprile, ormai è primavera ed io parto alla volta di Bologna dove ad aspettarmi al Cortile Cafè ci sono i Legno, un duo nato da poco che non è passato inosservato durante il mio inverno e la riproduzione della mia playlist preferita di Spotify: Scuola Indie.

Dopo i due fortunatissimi singoli Le canzoni di Venditti e Febbraio che hanno portato questi due ragazzi ad avere un pubblico sempre più ampio in pochi mesi, il 29 marzo è uscito il loro primo album per Matilde Dischi e subito dopo, hanno dato anche il via al loro primo tour che sta andando benissimo.

Segni particolari: indossano delle scatole che vanno a coprire i loro volti e a ricoprire il “ruolo” di legno triste e legno felice, il che rende impossibile l’identificazione, infatti giunta a destinazione la domanda è stata: come li riconoscerò?

Nessun problema, perché non hanno esitato a farsi riconoscere, presentarsi e farmi sentire immediatamente una di loro. Il bello di alcuni incontri è proprio questo, quando di fronte hai sì degli artisti, ma soprattutto dei ragazzi genuini, con tanta voglia di condividere e raccontare tutto ciò che ruota intorno al loro progetto musicale.

Non importa chi sono, ma il messaggio che vogliono mandare e trasmettere a chi li ascolta e non ho deciso di intervistarli mossa dalla curiosità verso il loro involucro, ma verso il contenuto di quel contenitore.

E così, ci sediamo ad un tavolino con delle birre e vi assicuro che è stato un aperitiv-intervista sorprendente. Impossibile non apprezzare i modi, l’educazione, lo spirito positivo e l’entusiasmo che questi due ragazzi toscani riescono a trasmettere.

 

image2

 

Partiamo dall’inizio, prima curiosità: quando e come nascono i Legno?

Noi ci conosciamo da sempre, siamo amici da una vita ed è nato tutto in un pomeriggio a casa quando per gioco, con una sola canzone abbiamo pensato di creare questa sorta di super-eroe della musica, nascondendo però la nostra identità dietro queste due scatole. Nelle scatole di solito mettiamo i nostri ricordi, i nostri pensieri ed è così che siamo nati. Ci siamo costruiti una corazza, una maschera e l’idea era quella di raccontare qualcosa senza dover necessariamente associare un evento ad uno di noi. C’è solo una differenza ed è tra legno triste e legno felice e la cosa bella è come se queste due figure adesso consolassero e aiutassero le persone. Siamo diventati amici e confidenti virtuali del nostro pubblico e loro hanno la possibilità di relazionarsi con noi attraverso i nostri canali social e lo fanno pensando di scrivere a legno triste e a legno felice. Eravamo entrambi disillusi dal sistema “musica” e avevamo bisogno di uscire dai nostri limiti e ci siamo riusciti, ma è nato tutto senza pensarci, tutto dal nulla. Avevamo solo una canzone: Sei la mia droga ed otto mesi fa tutto questo non esisteva, poi ci siamo ritrovati ad oggi a e vedere le persone ai concerti che cantano le nostre canzoni e per noi è già una vittoria.

 

Avete un bellissimo rapporto con il vostro pubblico e siete sempre molto presenti, soprattutto su Instagram dove spesso cercate di farvi conoscere meglio anche attraverso l’opzione di poter fare domande, non avete paura che crescendo questa cosa possa cambiare?

Noi abbiamo basato tutto sulla presenza e rispondiamo sempre a tutti i messaggi che riceviamo, che sia un consiglio o un complimento per noi è importante essere presenti per tutti quelli che seguono la nostra musica. Perché se una persona spende parte del suo tempo per noi, è giusto ricambiare, è giusto ringraziare. All’inizio era semplice perché eravamo in pochi, adesso invece inizia ad essere complicato soprattutto quando esce qualcosa di nuovo… Ad esempio dopo l’uscita dell’album abbiamo fatto le 5:00 di mattina, assicurandoci a turno di aver risposto a tutti, anche solo con un cuore. Spesso ci chiedono anche dei consigli, soprattutto d’amore ed è bello riuscire ad aiutare le persone che in quel momento magari non sanno cosa fare e cercano aiuto. Ci sentiamo anche utili.

 

Titolo Album è realmente il titolo del vostro album, com’è nata questa idea? 

Dobbiamo ringraziare Distrattamente, una pagina Instagram che ha fatto un disegno con le parole di una  nostra canzone e da lì è nata questa collaborazione. Non sappiamo chi sia o il suo nome, ma dopo la prima illustrazione gli/le abbiamo chiesto di creare la copertina di Febbraio. Successivamente le abbiamo chiesto di creare anche la copertina del nostro album e quando ci ha mandato la prima bozza, ovviamente c’era scritto “TITOLO ALBUM” perché noi avremmo dovuto mettere il titolo effettivo (che ancora non avevamo) e così è rimasto quello lì della bozza. Ci siamo detti: “Ma perché non lasciamo titolo album?”

 

Chi scrive tra i due?

Scriviamo entrambi, i nostri telefoni sono pieni di note vocali, vivendo in due luoghi diversi della Toscana spesso ci incontriamo anche su Skype e magari ognuno di noi ha scritto qualcosa e così poi confrontiamo le varie idee e assembliamo il tutto. Questo progetto non è pensato e ragionato, è nato passo dopo passo. La nostra idea iniziale era quella di fare uscire tre singoli, siamo partiti un po’ per gioco, invece ad ogni singolo aumentavano le visualizzazioni fino ad entrare in Scuola Indie e fino a quando l’etichetta ci ha proposto di far uscire il disco, quindi in tre mesi abbiamo messo insieme tutti i pezzi che avevamo ed è nato il nostro primo album.

 

image1

 

Questo tour è partito alla grande, state avendo un bellissimo riscontro. Cosa provate?

Surreale, la parola giusta è surreale perché per noi è tutto inaspettato. E’ un’emozione continua. Siamo una piccola realtà, ma torniamo a casa felici. Quando suoniamo ci trasformiamo e per noi è assurdo ma allo stesso tempo bellissimo vedere le persone che cantano con noi i nostri pezzi. Questa cosa ci ha travolto e noi ci siamo lasciati travolgere. Stiamo vivendo situazioni pazzesche, siamo sati in città come Milano o Avellino e non ci aspettavamo una tale presenza.

 

Tornando alle domande che vi fanno su Instagram, qualche giorno fa una persona vi ha chiesto a chi dedicate le vostre canzoni e la vostra risposta è stata:  “A tutte le persone che hanno avuto delle relazioni complicate” La mia domanda allora è: secondo voi cosa complica le relazioni di oggi?

La vita in generale. Quando ti trovi ad avere tutto non sei mai felice di avere tutto e ti manca sempre qualcosa, oppure in alcune eccezioni ti guardi allo specchio e sei felice perché sai di avere tutto. L’amore è bello e all’inizio è tutto perfetto, ma dopo un po’ bisogna iniziare anche a sopportare e supportare la persona con la quale decidiamo di condividere la nostra vita. La forza di una coppia è l’unione e in questo preciso momento storico in cui i social hanno un ruolo così importante nelle nostre vite, l’unione a tratti è sempre compromessa perché sicuramente da un lato è anche cambiato il nostro modo di interagire e inevitabilmente i social network vanno a complicare le relazioni perché tutti abbiamo bisogno di sentirci importanti e stimati e lì in un attimo puoi sentirti bene o anche male. Noi crediamo ci siamo molta solitudine e si tenda più alla malinconia che alla felicità. E’ cambiato il mondo. Prima per incontrare una persona dovevi chiamare a casa, oggi basta mettere un commento sotto una foto per farsi notare e per sentirsi o far sentire importante. L’amore inteso alla vecchia maniera come Sandra e Raimondo non esiste più ed era quella l’idea perfetta di unione che oggi manca o comunque sta scomparendo sempre di più.

 

Quanta vita c’è all’interno di queste scatole che tirate fuori nelle vostre canzoni?

Tutto. Praticamente tutto. Tutto quello che scriviamo in realtà nasce da quello che abbiamo vissuto. Abbiamo raccontato il nostro passato e il nostro presente. Raccontiamo le nostre emozioni, le nostre paure, le nostre sensazioni. Chiunque potrebbe essere legno, perché chiunque ha vissuto o vive quello che cerchiamo di comunicare e dire attraverso le nostre canzoni.

 

image55

 

Dopo aver conosciuto meglio la storia di questi ragazzi, ho avuto il piacere di assistere al loro live.  Nascondono i loro volti è vero, ma non per paura.

Forse vorremmo avere tutti una scatola di cartone a portata di mano sotto la quale nasconderci ogni tanto, per avere anche solo per un attimo la libertà di essere qualcun altro o semplicemente per il bisogno di estraniarsi da quella necessità di apparire sempre e comunque in un modo piuttosto che in un altro.

Per loro non è importante farsi riconoscere tra la folla, per loro è importante emozionare ed emozionarsi. Per loro è importante continuare a fare quello che amano fare, esponendosi attraverso le parole e non attraverso i volti.

Non ci metteranno la faccia, ma sicuramente ci mettono il cuore ed è quello che arriva alle persone, ed è per questo che all’interno di una realtà per niente piccola come quella dell’attuale scatola Indie-pop, le loro scatole sanno sicuramente come farsi vedere e sentire.

 

Claudia Venuti

Balena Endgame: un Live Report ineluttabile

[vc_row][vc_column][vc_column_text]

 P0P

Balena Endgame: un Live Report ineluttabile

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435921124{margin-top: 20px !important;margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_column_text]

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Cliccate qui e seguite P0P su instagram!

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”13421″ img_size=”full”][/vc_column][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”13422″ img_size=”full”][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1556882991260{margin-top: 10px !important;}”][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”13423″ img_size=”full”][/vc_column][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”13424″ img_size=”full”][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”13425″ img_size=”full”][/vc_column][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”13426″ img_size=”full”][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”13427″ img_size=”full”][/vc_column][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”13428″ img_size=”full”][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”13429″ img_size=”full”][/vc_column][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”13430″ img_size=”full”][/vc_column][/vc_row]

Diario di una Band – Capitolo TRE

“E da qui… e da qui…
qui non arrivano gli ordini…
a insegnarti la strada buona…
E da qui… e da qui…
Qui non arrivano gli angeli”

Vasco Rossi

 

 

Non è sempre un gioco in cui si vince, non lo è, non lo è  affatto. Diventa maledettamente difficile in certe circostanze mantenere la lucidità, essere “legittimi” e macinare senza mandare al risparmio la materia della costanza.

Ci sono giorni, periodi soprattutto, che hanno lo stesso attrito di un peso di cemento legato alle caviglie, dentro al mare della vita, obbligato ad avere la forza per nuotare  troppo in alto per prendere l’ossigeno necessario.

La musica, quella fatta con la luce delle sensazioni e dell’entusiasmo appartiene alle persone che in dote hanno un empatia spiccata. Germogliano emozioni, il concerto raggiunge picchi di collaborazione col pubblico da far venire la pelle d’oca e ogni tanto perché no si arriva alle lacrime quando la mente è sgombera, immune, impermeabile da inganni e cattivi pensieri.

Essere in grado di sviluppare una situazione musicale avente al centro un cuore pulsante di emozioni rende tutto più facile e fluido. Si inerpica però con la stessa moneta quando il buio soppianta entusiasmo e propositi.

In questi casi però si ha l’obbligo e la responsabilità di marciare a testa alta contro un sole che prova a bruciarti gli occhi, e hai il maledetto compito di tenere duro, soprattutto quando si parla di un concerto live.

Puoi avere problemi con la fidanzata, può essere un casino la situazione in famiglia, puoi avere in coma un caro amico per un incidente avuto la sera prima del concerto a 500 km da casa, può morire il tuo cane che è praticamente parte della famiglia da quindici anni. Possono succedere tutte queste cose e tu non puoi farci proprio un cazzo di niente.

Quindi cerchi di distrarti, cerchi di evadere, ti ritrovi pure a pregare l’universo, a sperare che tutto possa sistemarsi per il meglio. In mezzo a questa situazione devi essere vigile e catalizzare la disperazione in energia positiva che anche a km di distanza possa raggiungere chi ha bisogno in quel momento di ogni molecola di speranza.

A volte va bene, a volte no. Sali sul palco col groppo in gola, con gli occhi vitrei e con la mano che trema. Parti e automaticamente credi sia l’ultimo concerto, il più importante di tutti, il concerto del giudizio. E lo è davvero perché hai la responsabilità di non lasciare al caso nemmeno un millimetro di banalità, lo fai per chi sta lottando, per chi è in bilico.

Il pubblico diventa un film muto, gli amplificatori sparano bolle distorte di vento caldo. Ti lasci accarezzare da questa brezza, cerchi gli sguardi dei tuoi compagni che sanno perfettamente cosa stai vivendo e provando. Uno strizza l’occhio, l’altro acconsente con la testa come a dire “stai facendo la cosa giusta, fagli vedere chi vince”.

Canti e pensi, gridi e pensi, prendi fiato e pensi, presenti un pezzo e strappi il colore del concetto del brano con le unghie e con i denti perché chi ti sta ascoltando si fida di te, forse è in una situazione speculare alla tua e ha bisogno di essere sollevato.

Qualcuno può avere perso il lavoro o aver subito un torto, qualcuno può essere andato in ferie dopo mesi di prigionia serrata, ognuno può avere la propria battaglia più o meno pesante da combattere.

E tu sei li perché devi deviare la tristezza sul binario della spensieratezza, ma sei il primo ad essere in un turbinio di paura e inquietudine. Quindi prendi l’ossimoro in questione, lo svisceri e ti metti la maschera di ognuno che hai davanti.

Lo fai come scappatoia perché loro non lo sanno, ma tu hai bisogno del loro supporto tanto quanto loro lo hanno del tuo. Nasce una comunione, un paracadute che parzialmente accontenta tutti, una tregua, un “cessate il fuoco” provvisorio ma che ha tanto il sapore di una boccata di ossigeno.

Finisce il concerto, cambio improvviso di scenario degno del miglior Tim Burton, ringrazi e abbracci i tuoi fratelli per la loro preziosa spalla diventata di granito, indissolubile. Decomprimi un attimo prima di smontare le tue cose dal palco.

Pensi che non serve a niente magari aver scritto il nome di Christian sulla chitarra, ma speri che una piccola vibrazione possa scuotere il sonno prematuro di un ragazzo buono. Vibrazione come quelle del Nokia 3310 per intenderci, quelle che ti facevano sobbalzare di notte ai tempi delle superiori e poi “si ciao, chi dorme più adesso?”.

E qui entra in gioco la tua fragilità, dalla quale però ora non devi più nasconderti perché sei fatto di carne, ossa e sentimenti come tutti, e nella lotta di chi cerca di distinguersi, essere mescolato alla massa è un sollievo, ti arriva una spasmodica e necessaria voglia di normalità, colmabile con una buona notizia sullo smart phone magari o con un abbraccio di chi oramai ti conosce come le tue tasche.

Sai che hai suonato al massimo per chi fa parte della tua vita, della tua quotidianità. Figure che non rivedrai forse mai più, e li vuoi fermare il tempo, cercando di capire se il limbo della paura può durare per sempre oppure no. Ora non devi vergognarti per nessuna cosa al mondo di ogni reazione, perché è legittimata dall’amore.

Qui si inizia a percepire il legame tra sacro e profano che unisce la morte alla musica. Sei spaventato, ma hai fatto della musica la tua ferma compagna, quindi esigi conoscere ogni sfaccettatura, ogni cunicolo buio da illuminare e la morte volente o nolente fa parte del gioco, un fottutissimo gioco in cui non vince nessuno.

Tutto si ridimensiona e ti appare il mondo come un posto che seppur influenzato e deteriorato da pessimi principi è giornalmente una chance da sfruttare. Capisci che ogni soddisfazione anche se misera è una piccola vetta scalata, un mattoncino su cui costruire, perché anche sulla macerie è doveroso provare a costruire.

Diventi piccolo e senza potere, si fottano la boria e la presunzione, davanti alla morte ogni obiettivo raggiunto è un prodigio, farlo con la musica è un privilegio da trattare coi guanti dell’umiltà.

Per avere una panoramica reale, a 360 gradi della vita che vuoi fare, sei obbligato a conoscerne ogni volto, anche il più scomodo e quest’arte è la dimostrazione vicina e più a contatto con le sensazioni della gente.

Canteremo anche del ricordo, perché sia presente ogni giorno nei gesti più comuni, in fondo la morte si può anche esorcizzare, con l’amore

 

A volte va bene, a volte no.

 

A Seppe

A Icio

A Pablo

 

Vasco Bartowski Abbondanza

VezBuzz: quella volta che i Radiohead sono spariti completamente (dal Web)

Un po’ per curiosità, un po’ per deformazione professionale, sono sempre stata attratta dalle tecniche di comunicazione adottate da artisti e band per promuovere i propri lavori. Forse qualcuno avrà già sentito parlare del “buzz”. Questa parola onomatopeica richiama il ronzio fatto dalle api.

Il buzz infatti viene utilizzato per generare sorpresa e curiosità, e di conseguenza brusio, o parlando di marketing sarebbe meglio dire “passaparola”. E non c’è bisogno che lo dica io, quanto il passaparola sia importante, soprattutto nell’era dei social.

Anche nella musica, sono tanti gli artisti che hanno adottato e messo in piedi strategie di comunicazione insolite, il buzz appunto, per lanciare i propri dischi o per creare interesse intorno a sé, in maniera spontanea. In questa rubrica, VezBuzz, parlerò dei casi più originali.

Il primo che mi interessa raccontare, anche per amore verso il gruppo, è quello dei Radiohead in occasione dell’uscita di A Moon Shaped Pool. Correva l’anno 2016 e a casa di alcuni fan della band che avevano fatto acquisti sul sito ufficiale, arrivò uno strano volantino. Oltre al logo dei Radiohead una frase: “Sing a song of sixpence / that goes ‘Burn the witch” e un minaccioso “We know where you live”.

Sing a song of sixpence è il titolo di una filastrocca per bambini, mentre Burn the Witch fa pensare alla caccia alle streghe. Tra la fine di Aprile e l’inizio di Maggio infatti, periodo in cui vennero consegnati i volantini, si festeggia la Notte di Valpurga.

In alcuni paesi del nord Europa questo rito pagano indica la fine dell’Inverno e per lungo tempo fu associato proprio alle streghe, per via dei riti, i baccanali e i falò che avevano luogo durante quella lunga notte. Non so voi, ma io ho i brividi.

A questo, seguì un altro fatto davvero, davvero insolito. I Radiohead, da un giorno all’altro, cancellarono completamente le loro tracce dalla rete. Il sito, i profili Facebook, Instagram e Twitter della band vennero completamente svuotati, così come scomparvero i tweet di Thom Yorke dal suo profilo personale.

Questo naturalmente portò i fan, ma non solo, a parlare, a fare congetture, a chiedersi come mai. Proprio loro, che in Kid A ci avevano spiegato “How to disappear completely” l’avevano fatto veramente.

Il 2 Maggio successe qualcosa di nuovo. Su Instagram apparve un piccolo video con un uccellino in stop-motion, che cinguettava con entusiasmo. Più tardi, sempre su Instagram, la band pubblicava un altro video criptico di un gruppo di persone mascherate che ballavano intorno ad una donna legata.

Finalmente il 3 Maggio 2016 arrivò il video di Burn the Witch, il primo singolo dopo cinque anni, con chiari richiami al film horror The Wickerman e ad uno spettacolo televisivo per ragazzi degli anni Sessanta, la serie Camberwick Green.

Il pezzo ha una potenza abbagliante e frenetica, con loop di percussioni elettroniche e il falsetto di Yorke immerso in un oceano di riverbero. Il resto è storia.

A Moon Shaped Pool non sarà ricordato come l’album più sperimentale dei Radiohead, ma di certo è stato un grande ritorno dopo The King of Limbs, non particolarmente amato da alcuni fan, forse tra i lavori più difficili della loro carriera.

I Radiohead hanno sempre fatto parlare di loro per la volontà di staccarsi dalle logiche promozionali della discografia. Il concetto di sparizione però, o sarebbe meglio dire di annullamento, non è qualcosa di nuovo, ma è l’essenza stessa della loro poetica.

Con la campagna di comunicazione e di attesa per A Moon Shaped Pool hanno eliminato e ucciso, metaforicamente, la loro precedente incarnazione e si sono trasformati in una versione attualizzata di loro stessi. La loro versione aggiornata al 2016.

Dai punti di domanda per la strategia, fino ad arrivare agli immancabili “rivoluzionari” e “avantissimo” pronunciati ogni volta che si parla della band dell’Oxfordshire, passando per le millemila analisi e disanime di quanto stava accadendo c’è una sola cosa che conta: che A Moon Shaped Pool sia uscito e che l’obiettivo sia stato raggiunto.

Certo, la grandezza della band e gli album epocali che hanno realizzato negli anni hanno avuto un ruolo importante nella sua anticipazione, ma con numerose band che hanno lo stesso livello di irriducibile supporto dei Radiohead, perché A Moon Shaped Pool ha attirato così tanto l’attenzione?

Per come la vedo io, la campagna di attesa che è stata messa in piedi per il web ha giocato un ruolo importante. Annunciando l’ora del lancio alle 19:00 di domenica 8 Maggio, due giorni prima del rilascio, la band aveva predisposto uno scenario che assicurava alla gente di aspettare con impazienza davanti ai propri computer, in attesa di fare clic sul download.

L’ascolto del disco è stato la cosa più simile ad un evento a cui si sia assistito da anni. Commenti sui social e la BBC Radio 6 che ha organizzato una sorta di festa con ascolto dal vivo e speaker che commentavano le tracce.

A Moon Shaped Pool è stato un’esperienza personale, ma vissuta con la consapevolezza che migliaia di altre persone stavano facendo la stessa cosa, nello stesso identico istante.

 

Daniela Fabbri