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1DAN e la necessità di non inseguire le classifiche a tutti i costi

1DAN è un artista in grado di far confluire nei suoi pezzi le innumerevoli influenze sonore assorbite nel corso del tempo, e il nuovo singolo Magica, pubblicato il 28 maggio scorso ne è la conferma. Alcuni mesi fa ha fatto il suo debutto sulla scena con Super, pezzo che già metteva in risalto una singolare commistione di pop, elettronica, soul e trap, dal risultato efficace e sorprendente. Ora Antonio Giordano, questo il suo nome di battesimo, è tornato con una traccia ancora più definita e curata dal punto di vista produttivo, personale e intrisa di emozioni, frutto di una serie di riflessioni su alcuni momenti cruciali della sua vita. 

Nato in Campania ma di base a Milano da qualche anno, la città è risultata decisiva per la sua crescita cantautorale, grazie agli stimoli ricevuti che lo hanno convinto a perseguire i suoi sogni con determinazione e consapevolezza. In attesa di osservare come potrà evolversi in futuro il suo percorso, abbiamo avuto l’occasione di scambiare quattro chiacchiere con lui per scoprire qualcosa in più su Magica. Ecco cosa ci ha raccontato.

 

Raccontaci un po’ qualche retroscena sulla nascita di questo pezzo. 

“Questo pezzo è nato esattamente un anno fa, in quel momento ero un po’ perso, sentivo di non riuscire a capirmi, non mi accettavo. Il “viaggio nel tempo” di cui parlo nel testo ha un duplice scopo: riconquistare una storia importante e ritrovare me stesso. Fortunatamente sono riuscito soltanto in uno dei due scopi.”

 

Il testo parla di una relazione conclusa con tutto ciò che ne consegue, quanto c’è di personale e quanto di romanzato? 

“Di solito cerco di romanzare poco perché non voglio che una storia venga percepita in maniera sbagliata. Questo pezzo è tanto personale, molto più di Super — il mio primo singolo — e credo che sia molto evidente in alcune frasi. Quando l’ho scritto le parole sono scivolate fuori da sole, senza che ci pensassi troppo ed è questa la parte che preferisco del brano: la spontaneità.”

 

Il sound è molto elettronico e curato, come hai lavorato in fase di produzione? 

“Ormai ho una sorta di pattern che seguo sempre per la produzione di un brano: inizialmente compongo un giro di piano con un suono che mi piace, aggiungo un beat e lo metto in loop finché non ho un primo mood a livello melodico. Conclusa questa fase, penso a raffinare le varie sezioni della canzone con bassi, suoni e plug-in vari, finché non rimango soddisfatto della struttura finale. Questa volta è stato fondamentale anche il contributo di Davide Foti, che ha alzato l’asticella con il suo lavoro di mix e master.”

 

È il tuo secondo singolo dopo “Super” pubblicato qualche mese fa, come valuti il nostro panorama musicale ora che ne fai parte da “insider”?

“Il contenuto dei brani sembra sia un optional ormai e lo scopo principale di un pezzo è di azzeccare il ritornello, anziché trasmettere qualcosa di reale e sincero. Tutto ciò porta a una corsa agli streams e alle classifiche che trovo imbarazzante, i numeri alimentano la popolarità e non la qualità musicale. In ogni caso, calo la testa perché conosco poco questo mondo ma, per quello che ho visto e percepito finora, credo quasi di odiarlo. Nonostante ciò non posso fare a meno di continuare a scrivere canzoni e sperare in un cambiamento il prima possibile.”

 

Ripercorrendo il tuo percorso, come ti sei avvicinato alla musica? Che esigenza ti ha spinto a scrivere? 

“Credo che mio fratello sia stata la mia maggior fonte d’ispirazione da ragazzino. Lui era il classico figo della scuola, amato da tutti — comprese le mie compagne di classe — e i suoi amici suonavano in gruppi pop/punk e ska. Vederli suonare dal vivo con gli occhi di un liceale, ha acceso qualcosa in me che per fortuna non si è ancora spento.”

 

C’è qualche ascolto che ti ha influenzato particolarmente e che ti sentiresti di consigliarci? 

“Non penso mai: “questo pezzo voglio che suoni come Flume”, perché vorrei provare a creare qualcosa di nuovo o almeno riconoscibile. Nonostante ciò sono sempre pronto a consigliare nuova musica e credo che gli ultimi album di Dua Lipa e The Weeknd siano incredibili, contornati da un’estetica pazzesca: non ascoltarli sarebbe un torto al buon senso.”

 

Svelaci un segreto dell’artwork: come mai proprio il delfino in copertina? 

“Non mi considero un appassionato di fotografia, ma sono solito portarmi una macchina analogica durante le mie vacanze o weekend fuori porta. L’immagine scattata dei delfini è una foto che ho fatto all’acquario di Genova quest’anno, mentre si esibivano in una danza che saprei definire soltanto “magica”. Il lavoro di Attico36, il grafico con cui ho lavorato, ha poi portato tutto a un livello superiore, creando un vero e proprio mood.”

 

Stai lavorando a qualcosa anche dal punto di vista video? 

“Assolutamente si, il video uscirà questo mese e sarà una vera e propria figata.” 

 

Sicuramente non è un periodo semplice per chi fa musica, dal tuo punto di vista come valuti le nuove forme di interazione a distanza, ovvero i concerti in streaming ed eventi simili? Credi che possano avere un impatto sul futuro dei live? 

“Credo che la comunità mondiale si sia mossa in maniera impeccabile in tutti i campi e sia riuscita a restare a galla nonostante il periodo non lo consentisse. Non sono un grande fan dei concerti in streaming e dubito che saranno riproposti in futuro — le vibes non sono le stesse — ma da appassionato di videogiochi, trovo che il concerto su Fortnite di Travis Scott sia stata una delle trovate più geniali di sempre.”

 

Filippo Duò

Endrigo “Anni Verdi”

Tre amici e la passione per la musica che dalla cantina di casa li ha portati a suonare per le feste di paese fino ad arrivare su palchi importanti. 

Si sono meritati il loro spazio nelle band alt rock italiane grazie alla malinconia che solo la voce delicata e grintosa di Gabriele Tura sa esprimere, al talento con chitarra, basso e tastiere di Matteo Tura e l’energia di Ludovico Gandellini alla batteria.

Il nuovo disco è anticipato dai singoli Infernino (affiancati dai Bologna Violenta), Smettere di Fumare e l’ultimo uscito Anni Verdi. 

Nonostante il titolo possa far pensare ad una rievocazione del passato, un racconto di una gioventù tra palchi, banconi del bar e casini, non è così. Come spiega Gabriele, questo pezzo è ambientato ai giorni nostri, nel presente. Rappresenta la vita passata un po’ allo sbando, tra concerti, interviste, birre. Sicuramente affascinante, ma col rischio di rimanere incastrati nell’adolescenza e di dover combatte per diventare adulti, per dimostrare a tutti di esser cresciuti, migliorati.

E puntualmente si ricade negli anni verdi, nelle sbronze e nelle cazzate.

Una nostalgica ballata alternative rock che esplode in un’accorata promessa.

È un lungo sabato sera, coi post sbronza, stanze di alberghi, gli imprevisti, le fan, le emozioni che solo il palco può regalare. Un trucchetto per sfuggire alla routine della vita “da grande”. Il lavoro, la famiglia, i rapporti imposti, le responsabilità vengono messi da parte, e per quella serata (o tour) esiste solo la musica; suonarla e farla vivere. 

Uno scambio di energie in eccesso. Loro esprimono, noi percepiamo, contraccambiamo e restituiamo. Benefici per entrambi le parti e s’abbracciamo. 

 

 

 

Endrigo

Anni Verdi

Garrincha Dischi / Manita Dischi

 

Marta Annesi

ReCover #7 – Pixies “Doolittle”

• Una scimmia andalusa •

 

Fu il mio professore di fumetto a consigliarmi di ascoltare i Pixies, un giorno a lezione.

All’epoca frequentavo l’università, e siccome non avevo un soldo in tasca lavoravo in un ostello come portiere notturno: in cambio di alloggio, s’intende, non di soldi.

Dovendo star sveglia tutta la notte avevo sette ore libere per studiare, guardare film e ascoltare musica, e Doolittle dei Pixies fu parte della mia colonna sonora di quell’anno folle e senza sonno.

Prima traccia, Debaser: iniziai a saltellare sulla sedia nel silenzio della reception; al secondo ascolto, che faccio sempre con testo alla mano, quasi non caddi dalla sedia: “I am un chien andalusia”.

E qua capisco che l’ambizione dell’album è grande, e la dichiarazione d’intenti limpida.

Quella frase in particolare fa riferimento al capolavoro cinematografico Un Chien Andalou del 1929, diretto da Luis Buñuel e Salvador Dalí, che definire solo come cortometraggio surrealista sarebbe sminuirne la grandiosità e l’importanza che ebbe nella storia dell’arte.

Le interpretazioni della pellicola son tante, ma ciò che è chiaro è la forza con cui s’impone nei confronti dello spettatore e nei confronti della settima arte stessa: nella prima scena il Buñuel-personaggio taglia l’occhio della sua compagna, e così facendo Buñuel-regista taglia l’occhio dello spettatore, che al tempo mai si sarebbe aspettato di vedere una scena simile.

Il frontman della band Black Francis, appassionato di cinema surrealista, in un intervista disse che “se provi a spiegare il mistero che c’è in qualcosa che hai scritto, ciò che prima sembrava destinato all’eternità in un attimo diventa stupido”.

Ad esempio Monkey Gone to Heaven all’inizio era solo una frase che Black Francis usava per il gancio, ma che poi decise di lasciare così perché funzionava. La stessa bassista Kim Deal ammise di non conoscere nemmeno le parole e il significato di molte canzoni.

La matrice surrealista è evidente e coerente nel lavoro che fecero Simon Larbalestier e Vaughan Oliver nella realizzazione della cover dell’album, pubblicato nell’Aprile del 1989. Cercarono di raccontare per immagini i testi sotto l’ottica grottesca e underground dei Pixies.

I due artisti ebbero accesso ai testi del nuovo album (opportunità rara per chi crea le cover) e ciò consentì loro di averne ben chiaro lo spirito prima di mettersi a lavoro sul booklet, cosa che a detta di entrambi fece la differenza.

Si può dire che la carriera dei Pixies sia cominciata insieme a quella del fotografo Larbalestier con l’uscita di Come On Pilgrim (1987), e da questo momento il suo lavoro si lega indissolubilmente per lungo tempo con quello del graphic designer Oliver, recentemente scomparso all’età di 62 anni.

Le foto per Doolittle racchiudevano un mix di interessi e tematiche care a Larbalestier, Oliver e Black Francis: macabro, surrealismo, angoscia ed esistenzialismo.

La produzione chiese a Larbalestier di realizzare dei lavori a colori, per distanziarsi dai precedenti album monocromatici, ma il fotografo ignorò totalmente le raccomandazioni e scattò tutte le foto in bianco e nero.

La richiesta venne soddisfatta dall’intervento di Olivier, che aggiunse texture e geometrie rimanendo comunque fedele allo spirito decadente degli scatti: ottennero così il mix di surrealismo e grunge perfetto per raccontare visivamente l’album.

Una tecnica utilizzata dagli artisti surrealisti era quella del Cadavre Exquisit, una sorta di staffetta creativa in cui ognuno aggiunge il suo contributo all’opera attingendo dall’inconscio, e il modo in cui si è lavorato all’album mi ha ricordato molto questa tecnica.

Infatti una volta ricevuti i testi via fax da Black Francis, Larbalestier lavorò da solo agli scatti, realizzando set specifici per ciascun’immagine, e usando un solo rullino per set, in modo da ottenere un risultato preciso.

Una volta conclusi gli shooting passò il materiale a Oliver, che diede il tocco di colore richiesto.

Fu un lavoro di squadra ma soprattutto di fiducia reciproca, grazia alla quale diedero vita ad una cover unica.

“Se qualcuno ha avuto una grande influenza su di me è stato proprio David Lynch. Lui ti mette davanti qualcosa ma non te la spiega”.

Fu un altro cineasta dunque ad ispirare fortemente Black Francis, che con Eraserhead conquistò la sua attenzione tanto che i Pixies fecero una cover di In Heaven, la canzone della celebre Lady In The Radiator del film.

Non a caso anche il cinema di Lynch ha una forte influenza surrealista, sebbene incasellarlo in un’unica corrente artistica sia impossibile.

L’interesse principale di Lynch è infatti quello di scavare al di sotto della realtà delle cose, andando oltre l’apparenza: ce lo dice chiaramente all’inizio di Blue Velvet (1986), con una scena che è entrata nei libri di storia del cinema. 

Curioso come questo viaggio sia iniziato con un occhio tagliato e si concluda con un orecchio mozzato; due pellicole in cui tutto è in contrasto: luce e ombra, sonno e veglia, realtà e sogno. 

Esattamente come in Doolittle, esattamente come il mio anno in Ostello.

 

recover

 

Cinzia Moriana Veccia

Bartolini e l’importanza di non allontanarsi mai davvero

La settimana scorsa abbiamo avuto il piacere e la fortuna di occupare il tempo ascoltando in anteprima il primo album di Bartolini, Penisola, in uscita il 3 Aprile. In parte delicato, in parte sfrontato, sempre sincero: ogni pezzo sembra una lettera, prima scritta e poi cantata, e tutte insieme creano una corrispondenza carica di intuizioni, prese di coscienza e confessioni per undici persone collegate dal bisogno di sentirle vicine, mai distanti, mai isole. 

Abbiamo chiesto un po’ di cose a Giuseppe riguardo l’album e più in generale riguardo la sua carriera e le sue scelte, ecco cosa ci ha raccontato.

 

Ciao Giuseppe! Nessuna presentazione nelle info di Spotify, né su Facebook, allora perché non farla qui: chi è Bartolini e qual è la sua storia?

“Sono un ragazzo di 25 anni, nato in Calabria e vivo a Roma da svariati anni. Ho iniziato a suonare all’età di dieci anni la chitarra, sia per passione sia per evadere dalle situazioni che ho vissuto durante la mia adolescenza. Nell’ambiente dove sono cresciuto mi sono trovato spesso da solo e non del tutto accettato a causa degli interessi che avevo e per questo motivo ho avuto sempre difficoltà a trovare persone come me, motivo per cui non ho mai avuto una band e non sono mai riuscito a tirare fuori del tutto quello che avevo dentro, neanche con la musica. L’esperienza musicale era un pianeta molto lontano per me a quei tempi. Ho avuto la fortuna di avere due figure fondamentali che mi hanno cresciuto musicalmente facendomi scoprire i dischi che hanno accompagnato la mia “evasione”, cioè mio padre e mio zio materno. Grazie a loro mi sono appassionato alla musica new wave, punk, post-punk e indie rock. Dopodiché ho smesso di suonare per tre anni e di ascoltare musica, perché ero nauseato da me stesso e volevo essere un’altra persona. Volevo cercare di diventare quello che gli altri intendevano per “persona normale”.
Ho ricominciato a suonare a Roma dove mi sono liberato della mia nuvola di timidezza ed ho iniziato a sperimentare il canto, iniziando a scrivere prima in inglese e poi in italiano.
Nel 2016 ho vissuto a Manchester per un anno, città a cui mi sono sentito sempre legato da un punto di vista spirituale e musicale e in cui ho capito che volevo essere un artista. Qui ho iniziato a suonare le mie primissime canzoni in italiano e a scrivere. Tornato in Italia ho preso parte al collettivo Talenti Digital con cui ho fatto uscire le prime canzoni e sono cresciuto artisticamente. L’anno scorso è uscito il mio primo EP BRT Vol.1 e sono stato in tour per tutta l’estate. Nel frattempo, ho scritto tutto il nuovo album che uscirà con distribuzione Carosello Records.” 

 

Da Penisola non traspare solo una tua crescita musicale ma anche un cambiamento personale. “Cercare di non chiudermi nel mio guscio, di non essere un’isola” è uno dei tuoi propositi per questo nuovo inizio, se possiamo chiamarlo così. Ci sono stati però finora dei momenti in cui hai avuto bisogno di rimanere solo e lontano dal resto? Per esempio, per concentrarti su di te e tirar fuori quello che avevi dentro?

“Si, ci sono stati molti momenti in cui ho avuto bisogno di isolarmi da tutto, anzi è una condizione necessaria quando scrivo o registro. Non riesco, purtroppo, a lavorare o a scrivere se qualcun altro è nella mia stanza, mi inibisco. Sono sempre in quarantena quando scrivo. Il mio proposito fa riferimento al fatto che negli anni passati contenevo dentro di me strascichi di una rabbia post-adolescenziale e questo mi portava ad allontanarmi anche dalle persone care mentre adesso vorrei essere una penisola, vorrei stare più vicino quotidianamente a chi è presente per me.”

 

L’album infatti è caratterizzato da testi che ricordano quanto siano importanti le relazioni e i contatti e in questo momento più che mai capiamo quanto siano necessari i rapporti umani. Che influenza hanno gli altri (le relazioni, le sensazioni, le esperienze condivise) sulla musica che scrivi?

“L’influenza degli altri è fondamentale nella scrittura delle mie canzoni.”

 

Appena uscita, Lunapark ha ricevuto un bel po’ di commenti positivi e tanti ascolti su Spotify. La traccia è davvero bella, ma non ha nulla da invidiare alle altre dell’album, ognuna speciale a modo suo. Ero curiosa di sapere, perciò, qual è il processo che ti ha portato a scegliere di pubblicare dei pezzi tipo Lunapark e Non dirmi mai, piuttosto che altri.

“Ti ringrazio molto per aver apprezzato le altre canzoni del disco. Abbiamo deciso di fare uscire la canzone che fosse più vicina allo stile dell’EP (quindi Non dirmi mai) e che rappresentasse, però, una sorta di evoluzione di quel suono. Lunapark è il suo opposto per certi versi e rappresenta, forse, il pezzo più maturo dell’album.”

 

Quali sono gli artisti italiani o stranieri che hai ascoltato di più nel periodo in cui hai scritto questo album?

“Considerando che quest’album è stato scritto durante tutto il 2019 ho ascoltato diversi artisti italiani tra cui Battisti e Dalla e molti internazionali della nuova scena inglese come per esempio i Fontaines D.C., Idles e Shame. Poi Toro y moi, Foxwarren, Wild Nothing, Foxygen, Ross From Friends per citarne alcuni.”

 

Volendola allontanare dalla situazione particolare che descrive, Iceberg potrebbe essere la canzone che fotografa perfettamente questo periodo: “a quanto pare non posso più restare da te/ sono solo stanotte/ mi butto in un canale della televisione/ […] quando finisce il vento andiamo a festeggiare o no”. Tu come lo stai vivendo e cosa farai appena sarà finito questo periodo?

“Hai ragione, ed è assurdo perché questa canzone è stata scritta un anno fa per parlare di una situazione di solitudine estrema. A me piace molto stare a casa e come ti ho detto prima sto spesso in quarantena per scrivere e suonare. Adesso, però, sto iniziando ad accusare questa situazione. Avere la mia famiglia lontana e non poter vedere i miei amici è frustrante e, purtroppo, è un periodo in cui non riesco a scrivere né ad essere produttivo come vorrei.” 

 

Qual è, se c’è, la canzone di Penisola alla quale sei più legato?

“Dipende dal periodo, ultimamente mi sento molto legato a Sanguisuga forse perché è stata l’ultima canzone che ho scritto per l’album. Non so darti una risposta precisa perché le canzoni sono come i figli.”

 

C’è una persona alla quale fai ascoltare tutto in anteprima per avere dei consigli, dei giudizi o semplicemente per la curiosità di sapere cosa ne pensa riguardo i pezzi che scrivi?

“Si, alle persone che lavorano con me, alcuni amici e mio cugino.” 

 

Chiedere cosa ti aspetti da quest’anno è un po’ azzardato, quindi formuliamola così: qual è l’augurio che oggi Bartolini fa a sé stesso e alla sua musica?

“Mi auguro che questo disco possa arrivare in qualche modo alle persone e che queste si rivedano a modo loro nelle mie storie. Spero di essere un esempio per chi viene da una situazione simile alla mia, per trovare la forza di far uscire fuori le proprie passioni e di cercare quelle persone con cui condividerle.”

 

Marika Falcone

ReCover #6 – The Velvet Underground “The Velvet Underground & Nico”

• La banana sospesa nel tempo •

 

“È solo l’ennesima provocazione”.

Queste sono le parole di chi cerca una logica nell’opera dell’artista contemporaneo, e anche di chi rimanendone spiazzato rimpiange i bei tempi dell’arte contemplativa, quella “vera”.

Perché qua si tratta solo di una banana decontestualizzata e c’è sempre qualcuno che ripete con sdegno “lo so fare anch’io”.

Un attimo, ma di quale banana sto parlando esattamente? 

Beh, liberi di scegliere il soggetto, visto che nonostante siano passati più di 50 anni il dibattito si ripropone sempre uguale a se stesso.

Lo scorso dicembre Maurizio Cattelan ha esposto Comedian su una parete dello stand di Emmanuel Perrotin ad Art Basel Miami Beach, ovvero un’installazione costituita da una banana incollata alla parete con del nastro adesivo.

Nel marzo del 1967 The Velvet Underground debuttarono con The Velvet Underground & Nico che sarà ricordato come il “banana album” proprio per la sua iconica cover realizzata da Andy Warhol. 

L’album non fu un gran successo al momento dell’uscita, ma si guadagnò un posto nella storia col tempo, e i Velvet Underground furono d’ispirazione per la nascita di generi come il punk, l’alternative rock, la new wave, il noise rock, e molti altri ancora.

Testi irriverenti, tematiche scandalose per l’epoca e le sonorità ben lontane da ciò che si trovava in cima alle classifiche: uno spirito provocatorio che ben si concilia con la cover creata da Warhol, che nelle prime copie in edizione limitata presentava una banana adesiva che poteva essere sbucciata veramente, come invita a fare la scritta “peel slowly and see”, rivelando una banana rosa poco equivocabile.

Purtroppo come spesso succede nei progetti più ambiziosi i costi erano eccessivi, per cui solo i più fortunati possono vantarsi di poter veramente interagire con l’artwork.

È curioso come il re della Pop Art abbia prodotto una band underground, e proprio come con qualsiasi altra sua opera d’arte si sia limitato a metterci una firma sopra, intervenendo il mimino indispensabile: è proprio grazie a questa libertà che il gruppo poté esprimersi appieno, e godere della visibilità data dal proprio mecenate.

Dunque abbiamo un frutto che viaggia nella storia dell’arte, diventa un pezzo d’immaginario collettivo, icona pop, rimando palese ad un tabù e quindi trait d’union fra cultura bassa e alta: un significante estremamente ricco di significati insomma, rivisitato nel corso della storia dell’arte da Botero e De Chirico, per citarne alcuni, e come abbiamo visto il mese scorso particolare folle aggiunto all’illustrazione di Grandville nella copertina di Innuendo dei Queen.

Warhol e Cattelan hanno in comune alcune caratteristiche: entrambi giocano con gli strumenti forniti dai mass media, e sono perfettamente consapevoli della percezione che ne hanno le persone.

Entrambi icone pop che in quanto tali mettono in crisi i concetti stereotipati di arte e artista, proponendo al mercato dell’arte opere che chiunque può trovare al supermercato, e fondendo insieme l’idea di merce con quella di opera.

Entrambi considerati da molti quanto di più lontano e superficiale ci possa essere nel mondo dell’arte, ma entrambi specchio della contemporaneità ed esponenti di un nichilismo totalizzante.

Opere d’arte, esseri viventi, oggetti d’uso comune, animali in tassidermia: tutti simulacri senza referente, tutti allo stesso livello, tutti sospesi nel tempo grazie all’Arte.

È difficile guardarsi allo specchio ed essere sinceri con se stessi, ed è proprio questo che fa la Pop Art: ci descrive senza mezzi termini o censure.

Ma, chi più chi meno, cerchiamo di proteggerci da questo ritratto troppo schietto da digerire, troppo vuoto e senza un fine ultimo. La dismorfofobia è una brutta bestia.

Molto più semplice crearci sopra dei meme, ironizzare sull’assurdità dell’intera vicenda, fuggire dal disagio latente che ci provoca per poi accendere la TV o qualsiasi social, e farci tutti insieme una bella risata: qualcuno su cui ridere si trova sempre, ci fa sentire migliori di quanto sappiamo di non essere realmente.

O come ha fatto l’artista David Datuna, diventato un “meme nel meme”, che ha dato sfogo al desiderio di molti nel mangiare la banana da 120.000 dollari di Cattelan in quella che ha definito una performance artistica, Hungry Artist.

D’altronde si riduce sempre ad una dimostrazione di potere, no?

 

velvet underground recover

 

Cinzia Moriana Veccia

Gulliver spicca il volo con “Terranova”

Gulliver è il nome che rappresenta il nuovo percorso artistico di un nome già noto ai più: Giò Sada. L’artista ha deciso di presentarsi con una inedita veste sonora, dall’immaginario preciso e ampio, convogliando il tutto nel suo nuovo album Terranova, pubblicato il 28 febbraio scorso. 

Gulliver ha deciso di ripartire da zero, con coraggio e determinazione, facendo scelte estremamente personali e libere da condizionamenti del mercato discografico attuale. Questo lavoro rappresenta un nuovo inizio per il cantautore pugliese che vuole riportare la musica all’esperienza dell’ascolto svincolandola dal legame con l’immagine, l’esteriorità, dal rapporto col pubblico attraverso il “personaggio” e non il contenuto. L’obiettivo è ritornare a una dimensione più autentica, come esperienza di condivisione.

È effettivamente un cambio di rotta, quello fatto da Giò Sada, l’anima rock a cui eravamo stati abituati, infatti, ha lasciato spazio a toni più pacati, dolci, il cui filo comune è la volontà di trovare e dare pace.

Per l’uscita del suo nuovo lavoro non abbiamo potuto esimerci dal fargli qualche domanda, dal chiedere di raccontarci che percorso lo abbia portato a questi nuovi porti.

Ecco cosa ci ha raccontato. 

 

Raccontaci il tuo nuovo album Terranova, focalizzandoti su quelle che secondo te sono le sue “pietre angolari”.

Avevo in mente come sottotitolo per l’album Elogio al naufragio, perché attraverso un naufragio, spesso conseguenza di una scelta azzardata hai la possibilità (se non prevale il solito piangersi addosso) di spingerti oltre quello che la tua immaginazione può concepire e di avventurarti inevitabilmente verso ciò che non conosci e poi il rifiuto di naufragare va a braccetto con il rifiuto di mettersi in gioco che è tutto il contrario di quello che si dovrebbe fare per poter poi raccontare una storia. La seconda pietra è il ritrovarsi, ossia ritrovare la motivazione alla base del viaggio intrapreso, il naufragio passeggero si sgretola e diventa materiale per costruire la propria strada. La terza è continuare a credere ciecamente alla possibilità di poterci immaginare un avvenire migliore della prospettiva decadente che non riusciamo ad abbandonare.

 

Come è cambiato il tuo percorso artistico in questi ultimi anni?

Sono cambiate principalmente le domande che mi faccio, sono cambiati i miei interessi sonori, la ricerca si è spostata da un approccio musicale più istintivo ad uno più attento ai particolari, ho cominciato a dare fiducia alla fragilità e alla delicatezza che fanno parte di me come la capacità di gridare. Avevo ed ho ancora bisogno di sentire e dare pace.

 

Parlando di nomi, come mai la scelta di Gulliver come pseudonimo?

Gulliver è stato scelto perché in me genera dei ricordi esotici, legati alle immagini che accompagnavano i racconti che ho letto da bambino, allegoricamente avendo attraversato mondi sonori molto distanti tra di loro sia musicalmente che a livello organizzativo mi sono sentito come lui quando passo dopo passo si addentra in terre sconosciute e ci resta fino a quando non sente il bisogno di ripartire.

 

Se dovessi trovare 3 canzoni, italiane e non, per descriverti, quali sarebbero?

Dunque, direi: Bandiera Bianca di Franco Battiato; Conquest of Paradise di Vangelis; E se ci diranno di Luigi Tenco.

 

Ci sono stati degli ascolti che ti hanno particolarmente influenzato nella scrittura del disco?

Dato che non sono solo in questo progetto ma c’è anche Marco, che è colui che ha curato tutta la produzione del disco, diciamo che c’è stato un incrocio di gusti abbiamo cercato una chiave tra i nostri ascolti e continueremo a farlo. Ci ha influenzato il mondo delle colonne sonore, del nuovo e del vecchio utilizzo dell’elettronica e il buon cantautorato moderno e passato.

 

Quale è stato il processo creativo e di produzione che ti ha portato a questo album? Svelaci qualche aneddoto dallo studio!

Il processo creativo è partito nel 2017 in seguito all’arrivo di canzoni che, come ho detto all’inizio, sono volute venire allo scoperto attraverso di me a distanza anche di mesi l’una dall’altra, ognuna di queste in seguito a un evento specifico ed ho usato l’attesa e la fiducia per raccoglierle. Il lavoro in studio è stato invece costante e attento, a tratti estenuante. Abbiamo provato vari vestiti per ognuno dei brani ed è stato centrale in questo anche Pasquale Pezzillo, fondatore dei JoyCut, produttore nel disco dell’ultima traccia.

 

Mi ha colpito molto la copertina, l’artwork ha un significato particolare?

Volevo che la copertina fosse molto suggestiva, che spingesse ognuno a credere che quella sagoma in controluce potesse in qualche modo rappresentarli. Una figura umana che si eleva dalle macerie di un mondo in lontananza (inteso principalmente come mondo interiore) per andare verso “Terranova” ossia una nuova idea di se stesso. Più consapevole.

 

gulliver disco

 

Dici che i tuoi testi parlano di “resilienza”, termine molto usato in questi anni, ci spiegheresti il suo significato nelle tue canzoni?

Forse il tema centrale è proprio questo, ogni canzone di questo disco affronta a modo suo la tematica del ritrovare lo slancio nel superare i propri limiti, spesso emotivi, perché se nella realtà abbiamo l’impressione di essere liberi, siamo poi internamente ancora troppo schiavi delle emozioni, che non sono sempre da preservare.

 

Sappiamo del tuo passato rock, come ti identifichi all’interno della scena musicale attuale e cosa ne pensi dei nuovi fenomeni itpop?

Non saprei come definirci come progetto, cantautorato influenzato da vari mondi sonori che ci piacciono, dall’acustico alle colonne sonore più orchestrali, all’elettronica da sintetizzatore modulare diciamo, cantautorato curioso.

 

Cosa dobbiamo aspettarci dal punto di vista live? Puoi anticiparci qualcosa?

Poche parole e un bel viaggio da fare.

 

Mariarita Colicchio e Filippo Duò

I Deux Alpes e l’eleganza dell’elettronica

Siamo agli sgoccioli di questo inverno indubbiamente difficile e non c’è niente che possa aiutarci a stare meglio più della musica, in particolare quella che ti fa ballare e alla fine dell’ascolto ti scorre nelle vene.

Non sembra, quindi, essere un caso che proprio a fine Febbraio esca Casa Mia, il nuovo singolo dei Deux Alpes, duo elettronico di Milano.

Se, tuttavia, dall’elettronica ci aspettiamo un sound da discoteca, con un brano che gira tutto intorno alla propria esplosione, non è questo quello che troveremo in Casa mia, che sin dal primo ascolto si presenta come un brano introspettivo, quasi intimo, che incanta grazie al basso e alla batteria e, soprattutto, alla voce di Marta Moretti dei Tersø. 

La prima parola che viene in mente ascoltando il pezzo è “ipnosi”, intesa come allontanamento dalla propria dimensione per immergersi nella scoperta del ricordo e di se stessi. Insomma, Casa mia trasporta chi l’ascolta in un limbo in cui i suoni che compongono la melodia scandiscono una serie di immagini incisive ma semplici, senza troppi fronzoli.

La cosa che, a mio parere, contraddistingue il mood dei Deux Alpes (così come la loro musicalità) è sempre stato l’essere unici. È difficile, almeno per me, trovare qualcuno che in questo momento, nel panorama italiano, usi e manipoli la musica come fanno loro. Questa unicità rende certamente più difficile la piena comprensione del loro progetto al primo ascolto perché crea, sicuramente, una sorta di straniamento tale per cui è necessario non solo un secondo ascolto, ma anche una certa attenzione.

 Forse già dal nome è evidente, come lo è sempre stato, che i Deux Alpes appartenessero ad un immaginario d’oltralpe, ad una musicalità nordica. Ma con questo brano hanno definitivamente sancito il loro essere europei tanto che neppure la lingua distrae dal fatto che starebbero davvero benissimo sul palco di un festival francese o danese. Non è infatti distante dall’eleganza che caratterizza le produzioni nordiche, così come la voce di Marta suona quasi come un inno su cui perdersi, sognare ed entrare nell’immaginario onirico tipico di quei luoghi.

I Deux Alpes, anche in lingua italiana, sono quindi un progetto sicuramente ricercato e intelligente, certamente non pop. Il che, sia ben chiaro, nel loro caso non può essere che un pregio. 

Casa Mia, infatti, è un gioiellino intenso ed espressionista, più adatto ad un ascolto intimista e solitario che ad un viaggio in macchina con amici. Ma, nella sua componente essenziale, resta un brano bello, puro, attento e ragionato. Uno di quelli da mettere per impressionare, uno di quelli che, alla lunga, entrano di merito nel bagaglio musicale di un ascoltatore.

È, quindi, ben lontano dalla musica di alto consumo, dalle rotazioni continue in radio accanto a Gabbani o dall’essere adatto a tutti, ma è sicuramente questa la sua dote più accentuata, il suo asso nella manica.

In questo momento in cui tutto è adatto a tutti e davvero poco resta, infatti, sono certa che i Deux Alpes, con questo brano, siano riusciti a creare qualcosa che rimanga, forse non a tutti, ma sicuramente a chi sarà disposto ad ascoltarlo davvero.

 

Mariarita Colicchio

ReCover #5 – Queen “Innuendo”

• A ritmo di una danza surreale •

 

È all’incirca l’una e mezzo del pomeriggio, sto tornando a casa da lavoro col solito carico di pensieri e stanchezza palpebrale: non mi accorgo che il DJ alla radio ha annunciato la mia canzone preferita dei Queen, Freddie Mercury comincia a cantare e in automatico le lacrime scendono. 

Il perché succeda questo ogni volta che sento i Queen, nei miei quasi trent’anni non l’ho mai capito: avevo qualche mese quando l’album uscì, per cui ero troppo piccola per ricordare quando il 24 Novembre dello stesso anno Freddie scomparve; sebbene abbia stampato nella memoria il ricordo di me a circa 4 anni, inginocchiata sui sedili posteriori dell’auto e la testa incastrata tra i poggiatesta, mentre nelle casse risuonava una voce celestiale. 

La silhouette di Freddie Mercury nella cover della cassetta di Made in Heaven lasciava spazio alla mia fantasia: lo immaginavo alto, moro, coi capelli lunghi e senza baffi: mia mamma me l’aveva sempre descritto come bellissimo e con gli stessi baffi di mio padre, ma per me aveva più che altro un “carattere” che mi trasmetteva una forza indescrivibile, aveva la forma della sua voce.

Questa piccola digressione basta a giustificare l’emozione che provo ogni volta che sento i Queen? No. Sia chiaro, ho fatto le mie ricerche ed è un’esperienza condivisa. La mia migliore amica tempo fa mi disse “è tutto normale: è Freddie!”.

Forse è vero, è semplicemente Freddie.

Ma non è della mia amata cover blu di Made in Heaven di cui dobbiamo parlare oggi, ma di quella di Innuendo, uscito il 5 Febbraio del 1991, a soli 20 mesi di distanza da The Miracle: musicalmente un ritorno alle origini, per la felicità dei fan di lunga data. Il titolo stesso alludeva ai fasti di A night at the opera, e il singolo omonimo all’album ne ricalca il tono solenne.

Il processo di registrazione fu lungo a causa della malattia di Freddie Mercury, ancora nascosta al pubblico: ad ogni tre settimane di lavoro ne seguivano due di stop. 

Per la prima volta in copertina non troviamo i volti dei membri del gruppo, ma un’illustrazione di metà Ottocento riadattata e colorata da Richard Gray e Angela Lumley, che si occuparono dell’intero artwork.

L’idea fu del batterista Roger Taylor, che vide l’illustrazione in un vecchio libro e la propose come copertina. 

Jean Ignace Isidore Gérard, noto con lo pseudonimo di Grandville, è l’autore dell’ormai celebre illustrazione. Scomparso anch’esso giovane a soli 43 anni, Grandville ebbe una carriera estremamente prolifica. Si divideva fra caricatura e satira politica, illustrazione editoriale, grafica, ma fu molto di più che un eccellente illustratore: la sua mente, come fa quella dei grandi artisti guardava oltre il suo tempo, e le sue opere divennero fonte d’ispirazione per il movimento Surrealista.

Charles Baudelaire, che scrisse numerosi saggi sugli illustratori più influenti del proprio secolo, non aveva molta stima di Grandville: davanti ai lavori dell’artista provava disagio e inquietudine “come in un appartamento in cui il disordine è sistematicamente organizzato, dove bizzarre cornici poggiano sul pavimento, dove i dipinti sembrano distorti da una lente ottica, dove gli oggetti vengono deformati se spinti insieme, angoli in cui i mobili hanno i piedi in aria e in cui i cassetti spingono invece di estrarsi”.

I commenti del tutto percettivi, sono stranamente superficiali sebbene pronunciati dal padre del Simbolismo, ed estremamente classicisti per provenire dal padre della Modernità.

Nell’intera produzione artistica di Grandville c’è una forte disgiunzione fra le opere di maggior successo e quelle che passarono in sordina. Il critico contemporaneo Charles François Farcy, nel cercare di spiegare i vari tipi di graphic design ha stabilito una scala gerarchica di qualità: il primo livello è quello del piacere derivante dall’apparenza fisica del soggetto; il secondo livello riguarda i lavori che trattano questioni filosofiche e morali.

Ne consegue che alla prima categoria appartengono le opere più “facili” e pop, mentre alla seconda quelle di più difficile lettura, ma più valide artisticamente.

Per cui i lavori su commissione come Le Fiabe di La Fontaine, Don Chisciotte, I Viaggi di Gulliver, Robinson Crusoe, riscossero un grande successo, ma erano progetti editoriali estremamente rigidi dal punto di vista creativo: non lasciavano spazio ad un illustratore come Grandville di poter intervenire liberamente, poiché il lungo processo di produzione non consentiva sgarri e l’illustrazione era subordinata al testo.

Per cui la necessità di creare un libro del tutto “suo” lo portò a mettere nero su bianco Un Altro Mondo, il libro illustrato da cui i Queen trassero la cover per Innuendo.

Quanto di più vicino al concetto di albo illustrato contemporaneo ci possa essere, Un Altro Mondo mette in scena una vicenda in cui le immagini, protagoniste, mandano avanti una meta-narrazione accompagnata da pochissimo testo, un viaggio in cui gli antieroi scoprono un mondo altro, del tutto ribaltato ma spietato specchio di quello reale. La vera satira la fece proprio con questo libro, riuscendo a mettere in luce le assurdità della realtà tramite inversioni di ruolo che di norma hanno il compito di rafforzare lo status quo nel mostrare l’assurdità dei contrari, ma che in questo caso sortiscono l’effetto contrario: mettere tutto in discussione.

Con l’illustrazione Il Giocoliere, Grandville ci mostra la nostra insignificanza con un immagine apparentemente giocosa, che però dopo qualche secondo ci lascia un sorriso amaro.

È curioso come proprio questa illustrazione sia finita casualmente per essere la copertina di Innuendo: la band sapeva che sarebbe stato l’ultimo album con Freddie, e l’intero progetto rimane avvolto da un’atmosfera inquieta ma distesa, serena ma malinconica.

Ho trovato lo spirito di Un Altro Mondo estremamente in linea con I’m Going Slightly Mad: anche il videoclip ne condivide l’atmosfera surreale, con Freddie che indossa un casco di banane, Brian May con un becco da pinguino, Roger Taylor con un bollitore in testa e John Deacon con un cappello da giullare; per non parlare delle analogie tra il testo di Innuendo e Il Giocoliere di Grandville, il Matto, colui che danza al ritmo della sua melodia interna; libero di essere se stesso, consapevole della sua brevità su questa terra.

Nessuna maschera, non è più The Great Pretender, ma “anything you want to be”.

 

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Cinzia Moriana Veccia

Le Ore: un duo tra sacro e profano

Le Ore, duo romano pop composto da Francesco Facchinetti (solo un caso di omonimia) e Matteo Leva, dopo essersi fatti conoscere sul web con alcune cover, hanno raggiunto milioni di ascolti con singoli come La Mia Felpa È Come Me, brano che li ha fatti arrivare nella rosa dei finalisti di Sanremo Giovani 2018. Si sono fatti sentire con Oh Madonna! che è il loro brano con più ascoltatori e salvataggi nelle prime 24 ore. Come tutti i loro brani finora, la traccia è scritta dal duo capitolino, prodotta dal binomio Federico Nardelli/Giordano Colombo (già al lavoro con Gazzelle, Fulminacci e Ligabue) e distribuita Artist First. Il loro piccolo repertorio, ma che punta ad allargarsi, è costellato da un’atmosfera genuina e da una musica che si presenta nuova e rassicurante allo stesso tempo. Le Ore hanno fatto quattro chiacchiere con noi proprio dopo due esperienze importanti come i concerti al Monk di Roma in aperura di Clavdio e all’Apollo di Milano per Spaghetti Unplugged, avvenute lo scorso dicembre, ecco cosa ci hanno raccontato.

 

Presentatevi ai nostri lettori e spiegateci chi sono Le Ore.

Le Ore: “Piacerebbe spiegarlo anche a noi stessi chi sono Le Ore, ma negli anni c’abbiamo rinunciato, “limitandoci” a fare tutto quello che ci facesse esprimere. Quasi subito abbiamo capito che, raccontandoci in maniera schietta sui social, avrebbe potuto non esserci differenza tra Francesco e Matteo e Le Ore, quindi la nostra avventura partita (pubblicamente) dal web con foto e video, si è poi ricongiunta con la musica che offline facevamo già da tempo, anche se non insieme. Da quel momento cover ed eventi, fino ad arrivare a un punto in cui è stata necessaria una disintossicazione da social network, fondamentale per dedicarci completamente alla scrittura della musica nostra. Siamo tornati quasi un anno dopo col nostro primo singolo La Tenerezza ed è stato uno spettacolo. Solo a quel punto chi ci seguiva ha capito davvero chi fossero Le Ore.”

 

Le Ore era anche una famosa rivista pornografica italiana che ha fatto diventare famosi personaggi come Cicciolina e Moana Pozzi. Quanto è casuale la scelta del nome e quanto questo immaginario può avere influenzato la vostra musica?

Le Ore: “Sarebbe bello dire che il nostro fosse un tentativo di aprirci una strada nel mondo del porno, ma in realtà quando abbiamo pensato a Le Ore non sapevamo proprio dell’esistenza della rivista. Ovviamente quando abbiamo comunicato il nome ai nostri genitori, i sorrisetti maliziosi si sono sprecati, allora abbiamo capito che dovevamo tenerlo, e che anche gli over 40 se lo sarebbero ricordato facilmente. L’immaginario relativo alla pornografia probabilmente influenza chiunque, anche chi nella vita non scrive canzoni o non ha a che fare con la creatività, a maggior ragione influenzerà chi racconta sensazioni, esperienze e con una pausa, un respiro o con la voce rotta interpreta il verso di un brano.”

 

Il vostro ultimo pezzo si chiama Oh Madonna!, che può essere considerato sia un’imprecazione che una preghiera, mentre il pezzo prima era dedicato a Radio Maria. Che rapporto avete con la religione, con il sacro e soprattutto con la Madonna?

Matteo: “Sono figlio di un pastore evangelico e da sempre Dio fa parte della mia vita, quando riesco ancora oggi suono la batteria in chiesa la domenica e vivo la religiosità molto serenamente, tanto che quando Francesco mi ha portato il testo di Radio Maria ho appoggiato da subito le provocazioni che c’erano dentro, perché parlano della vita di tutti noi, senza nascondersi dietro a ipocrisie o bigottismi.”

Francesco: “A me non piace bestemmiare nonostante non sia cresciuto in una famiglia particolarmente credente, sono però cresciuto rispettando gli altri che, anche se può sembrare scontato, non lo è, anche nelle migliori famiglie “credenti”. Proprio per questo motivo non avrei mai scritto un brano (o due in questo caso) contro la chiesa, ma non avrei fatto neanche una sviolinata. Radio Maria parla di una notte di merda in cui, tra l’altro, in macchina parte Radio Maria. Non è altro, quindi, che un semplice giudizio sulla stazione radio in sé che parte nei momenti meno opportuni, di conseguenza la frase “se sento un altro prete che canta da domani cambio mestiere”. Oh Madonna! invece è una delle esclamazioni più usate, l’accezione dipende dal contesto, ma in entrambi i casi è soft, quindi no problem: “Oh Madonna! Quanto sono felice quando sei felice. Oh Madonna! Quanto sono triste quando sei felice senza di me…”.”

 

Il vostro sound e la vostra scrittura potrebbero tranquillamente essere associati al cosiddetto it-pop ma si sentono anche molte influenze del cantautorato dello scorso secolo. Poi siete prodotti dal duo Federico Nardelli/Giordano Colombo, che hanno già lavorato con artisti come Gazzelle, Fulminacci e persino Ligabue. Quanto vi sentite vicini a questa corrente musicale e quali sono le vostre principali influenze?

Matteo: “Se cominciassimo a parlare delle nostre influenze musicali servirebbe una rubrica a parte, quindi ci limiteremo a citare i background che ci rendono diversi ma (forse) complementari. Francesco è la persona musicalmente più acculturata che abbia mai conosciuto, il suo genere preferito fin da piccolo è la musica black, quindi dal blues all’RnB più moderno, ma l’ho conosciuto già ferratissimo su tutta la musica pop internazionale e italiana del secolo scorso, oltre alla musica alternative, quella sperimentale, generi e sottogeneri che faticherei ad elencare. Io invece ho ascoltato veramente tanto rap, italiano e oltreoceano da piccolo, passando per il punk, pop punk, pop rock crescendo, costruendo inevitabilmente un mio bagaglio più “da band”, che unito allo stile più solista e cantautorale di Francesco ha dato vita a un bagaglio unico più ricco. Per quando riguarda la scena it-pop, se fatta con onestà intellettuale e libertà creativa, è una scena che lascia molto spazio alla musica ispirata da correnti e influenze tra le più disparate, perciò ci fa piacere essere accostati ad artisti che stimiamo, poi ci sono anche quelli che ci sembrano un po’ meno onesti e un po’ troppo atteggiati, ma non è questa la sede per parlarne.”

 

Siete un duo romano e non lo nascondete. Quale è il vostro rapporto con la città eterna e con la sua tradizione musicale?

Francesco: “Io sono di Viterbo, ma mi sento parte di questa scena romana anche perché Le Ore sono nate a Roma e sono diventate quelle che sono, a livello umano e creativo, nelle notti insonni in giro per la capitale, che senza dubbio è la città più bella al mondo. Proprio per l’amore che proviamo per Roma, frequentiamo sempre di più Milano, per lavoro, per le opportunità che offre e soprattutto per la qualità della vita là. Roma la amiamo al punto da non poterla vedere così, al punto da volerla vivere come i nostalgici che tornano e la abbracciano dopo due settimane passate fuori, perché gestita male, pensata male, perché inchiodata e stanca, stancata dagli stessi romani che troppo spesso non si rendono conto delle responsabilità che hanno, per non parlare poi dell’amministrazione.”

 

Nelle vostre canzoni sentiamo synth, autotune, assoli di chitarra e break elettronici, con un cantato e una scrittura di testi che ruba da vari generi, come fosse un ponte fra diverse epoche e diversi modi di concepire la musica. Vi sentite un progetto senza tempo?

Le Ore: “Una domanda bellissima che ricorderemo per sempre, seriamente. Sarà che ci chiamiamo Le Ore, che si sa possono passare (e oggettivamente passano sempre), ma possono anche restare in testa, su una pellicola o su un hard disk. Nonostante ci sia un’evoluzione nel sound dai nostri primissimi singoli, effettivamente gli elementi digitali non schiacciano mai del tutto quelli analogici e viceversa, così come le frasi più retoriche o d’impatto non sono mai da sole, ma affiancate da discorsi più quotidiani scritti (e pronunciati) come faremmo ogni giorno nel parlato. Più che una domanda, a cui oggettivamente è impossibile per noi rispondere, prenderemo questa questione come un complimento e siamo felici così.”

 

Proprio recentemente avete iniziato con i live in delle cornici molto speciale per questa scena musicale, cioè il Monk di Roma il 13 Dicembre e l’Apollo di Milano il 15. Come sono andati questi concerti?

Le Ore: “È stato bello e sembra scontato dirlo, ma non lo è, soprattutto per chi ha sempre fatto tutto da sé: da rimediare gli eventi in cui suonare live con le cover a fare le grafiche o i montaggi dei video per i social, quindi poter (per la prima volta) non inserire nemmeno un brano di altri in scaletta è stato per noi una soddisfazione. Roma è casa ed è stato bello vedere facce nuove che ci hanno conosciuti su Spotify e sapevano le canzoni a memoria, idem a Milano, dove siamo stati felici di portare la nostra musica all’Apollo, club in cui negli ultimi mesi abbiamo visto (e conosciuto) alcuni dei nostri artisti preferiti.”

 

Con il vostro precedente singolo La Mia Felpa È Come Me vi ha fatto arrivare fra i finalisti di Sanremo Giovani 2018. Cosa vi ha lasciato questa esperienza?

Francesco: “Adesso sono passati tre singoli da La Mia Felpa È Come Me, dopo aver fatto Sanremo Giovani sono passati nove mesi prima di tornare con Ci Metti Il Resto e non è stato un caso. Quello che raccontiamo in quel pezzo ha tanto a che fare con l’esperienza sanremese, con il mondo intorno che ti forma, ti sforma, ti arricchisce o ti deruba, ma per rendercene conto dovevamo necessariamente far spegnere un po’ i riflettori (una cosa che periodicamente ritorna nel nostro percorso) e capire chi fossimo noi, più che come persone come artisti. Quando sei a Sanremo l’emozione è tanto grande, soprattutto per chi come me è cresciuto attaccato alla tv sbavando per Pippo Baudo [ride], sentirsi presentare in diretta su Rai1 proprio da lui è una cosa che porterò dentro finché morte non mi separi da questo mondo. La band della Rai, gli amici, i colleghi, mai visti come avversari, ma come compagni di una gita privilegiata e inaspettata che ci ha dato e lasciato tanto. Dico sempre che in quei dieci giorni siamo cresciuti di due anni, ed è vero: la prima volta in tv, la prima volta con gli ear monitor, la prima volta di fronte a tanti addetti ai lavori con cui, tra l’altro, siamo in contatto ancora adesso. Questo è uno di quegli aspetti che, se non sei abbastanza in grado di gestire te stesso, ti si può anche rivoltare contro, perché in tanti sembrano avere la ricetta per il tuo successo in quella situazione, ma, se ci pensi un attimo, il vero successo è continuare a mettere un piede davanti all’altro come hai fatto fino a quel momento. Perciò abbiamo preso tutto il bello di Sanremo e ne siamo fieri, l’esperienza, la musica, chi la ascolta, chi la fa, chi ci aiuta a farla meglio, il resto l’abbiamo lasciato là, perché non ci interessava e non ci interesserà mai, vedi la competizione o le varie logiche per voler apparire più di faccia che di musica.”

 

Quali sono i vostri progetti futuri? Cosa avete pronto nel cassetto?

Le Ore: “Tanta musica, ne scriviamo di nuova ogni giorno, sperimentiamo coi suoni e con i testi, ci spingiamo laddove riusciamo a sorprendere noi stessi, con il pensiero a quella musica sui palchi di tutt’Italia. Vorremmo solo questo, ma non per il 2020 ma per il 2000 e sempre.”

 

Per concludere, consigliateci un libro, un disco ed un film per conoscervi meglio.

Le Ore: “Se la domanda numero quattro avrebbe avuto bisogno di una rubrica a parte, questa avrebbe bisogno di un blog tutto suo. Siamo malati di cinema, evidentemente anche di musica e sappiamo apprezzare i buoni libri, anche se per mancanza di tempo spesso si accumulano sul comodino. Saremo brevi e concisi con i primi che ci passano per la mente: libro Il Cardellino di Donna Tartt, disco Modern Vampires of The City dei Vampire Weekend, film Parasite di Bong Joon-ho.”

 

Gianni Giovannelli

La potenza dell’autenticità e il coraggio di mostrarsi fragili nell’album d’esordio di Scrima

Il 17 gennaio è uscito Fare Schifo, primo album di Scrima, giovane cantautore romano, già noto per i singoli Sofia ed Elisa. L’album è segnato da un sodalizio particolare: quello con Alessandro Forte (già produttore di Galeffi e Aiello), il quale ha anche avviato l’artista al suo percorso musicale.

L’album contiene nove brani e vede il suo filo rosso nell’amore, che plasma tutte le tracce dell’album, non esclusivamente nella forma di una storia finita; contiene un featuring con Mameli (Come quella sera) e un brano, Zanetti, realizzato a quattro mani con Riccardo Zanotti (Pinguini Tattici Nucleari). 

Ho ascoltato l’album di Scrima il giorno in cui è uscito: le nove tracce non hanno richiesto molti sforzi per poterne apprezzare tutte le sfumature. Mi hanno colpito al primo ascolto, sorprendendomi traccia dopo traccia. I brani emergono dalla scena it-pop e da quella pop in senso più classico: è un lavoro che riesce ad inserirsi nella perfetta via di mezzo, senza pendere verso nessuna delle due direzioni in particolare.

Le canzoni nascono tutte da un’esperienza autobiografica: forse il dono di Scrima è quello di saper trasformare in parole l’esperienza che sta raccontando, nella totalità della sua forma. 

Le tracce dell’album sono tutte cariche di emozioni e sensazioni diverse, probabilmente perché frutto di un’esperienza autentica. È proprio la loro autenticità che permette a chi le ascolta di identificarsi in ognuna di quelle parole, anche al primo ascolto. 

L’album rappresenta un lavoro in cui l’artista non ha avuto paura di mostrarsi nudo davanti al suo pubblico: è questa la sensazione che le sue canzoni mi hanno trasmesso. Dalla semplicità toccante di brani come Milano alla delicatezza del ritratto Tommaso.

Non c’è bisogno di dilungarsi ancora: credo sia un album da ascoltare. Nel frattempo leggete cosa ci ha raccontato, sul suo album e il tour che si avvicina. 

 

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Fare schifo è il titolo che hai scelto per l’album. Devo rivelarti che prima di ascoltarlo ho pensato agli Skiantos, e al loro “imperativo morale”. Sono due cose abbastanza lontane, questo album e la loro musica. Mi è rimasta però comunque la curiosità, c’è un piccolo riferimento a loro?

“Conosco molto bene gli Skiantos e devo dire che apprezzo la loro musica, però non è collegato a loro. Il mio “fare schifo” è legato all’amore, alla sofferenza che ti porta la mancanza fino al punto di lasciarti andare completamente. Vuoto incolmabile che ti porta a fare schifo.” 

 

Parliamo di Lei. Quando l’ho ascoltata ho avuto la sensazione che fosse una canzone che in realtà ho sempre conosciuto. Penso sia quella che mi ha colpito prima di tutte. Ci vuoi parlare un po’ di questo brano, di come è nato, e il legame che ha con gli altri dell’album? C’è uno storytelling abbastanza preciso dietro i primi pezzi. 

Lei è per me un po’ un piccolo gioiello all’interno dell’album . È una canzone in cui il lieto fine c’è. Lieto fine di un vero e proprio storytelling che parte dalla traccia numero uno Meno Male e attraverso il quale i protagonisti superano ogni tipo di avversità legata all’amore, fino a riconciliarsi proprio in Lei. Dico chiaramente “ancora tu, ancora lei” proprio per descrivere il riavvicinamento tra i protagonisti del pezzo. Parlando di stile sicuramente è meno indie rispetto ad altri brani nel disco ma forse è quello di cui sono più innamorato.”

 

Le canzoni che compongono l’album le ho sentite molto a fuoco, focalizzate bene verso una direzione, pur essendo diverse le une dalle altre. Mi sembra un lavoro dotato di molta personalità, probabilmente perché ti rispecchia molto. Vedi queste canzoni come piccole parti di te? Quanto c’è di te stesso all’interno di ognuna? 

“All’interno di ogni singola canzone c’è tutto me stesso perché non riesco a scrivere di cose inventate. Parlo sempre ed esclusivamente di quello che mi succede in prima persona, cercando con immagini semplici ma profonde di far rispecchiare più persone possibili in quello che dico. Vi ringrazio poi per il complimento perché aver un disco che segue un certo stile significa essere distinguibili dalla massa e per un cantautore essere ben riconoscibile è una cosa fondamentale. Vorrei che un domani accendendo la radio, l’ascoltatore possa riconoscermi dopo 5 secondi di canzone.” 

 

Nell’album c’è un featuring con Mameli in Come quella sera. Come vi siete conosciuti? Vuoi raccontarci come è nata questa collaborazione?

“Con Mario ci siamo conosciuti tramite la nostra etichetta, ma eravamo in contatto già mesi prima perché aveva collaborato anche lui con il mio attuale produttore Alessandro Forte.
Una volta entrati con la stessa etichetta ci siamo messi a lavoro e abbiamo pensato di scrivere delle cose insieme perché c’è molto rispetto tra noi, umano ma soprattutto artistico. A parte il featuring, insieme ci scambiamo sempre provini e bozze di brani nuovi. I suoi consigli e il suo parere per me sono sempre indispensabili.”

 

Mentre Zanetti è stata scritta a quattro mani con Riccardo Zanotti. Mi chiedo spesso come nasca una canzone quando nel processo creativo sono coinvolte due teste, quattro mani, e tanti vissuti diversi. Avete scritto insieme tutto, dal testo alla musica, o vi siete divisi “i compiti”?

Zanetti è un brano che abbiamo scritto in due ore dentro la mia cameretta. Riccardo venne a Roma con l’idea di scrivere un brano insieme. Non sapevamo né come né in quanto tempo. Alla fine dopo due ore il pezzo era finito e il giorno dopo l’abbiamo prodotto insieme ad Alessandro Forte. Siamo stati abbastanza rapidi. Abbiamo scritto insieme tutto, musica e testi. Credo che nella versione finale ci siano ancora le chitarre che registrò Riccardo in studio nel provino. Erano perfette così.”

 

Sei nato e cresciuto nel quartiere popolare Giardinetti di Roma. Quanto ha influito, nella tua scrittura e nella tua musica, Roma? È punto di riferimento di un cantautorato ben preciso e anche di una nuova scuola, tra trap e rap. Cos’hai preso dalla tua città?

“Sicuramente la zona da cui provengo non è una zona facile. Posso dire che la musica mi ha creato l’alternativa alla monotonia della borgata e mi ha allontanato dalla cattiva strada. Quindi in un certo senso mi ha salvato. Roma poi, la città più bella del mondo. Ogni angolo ti offre spunti e piccoli dettagli che arricchiscono sicuramente in modo influente la penna di un’artista. Poi ovviamente bisogna saperli cogliere e anche quella è la bravura di un cantautore. Devo tanto alla mia città.” 

 

Manca meno di un mese a Sanremo, e ci troviamo già in quel vortice sanremese che attraversa un po’ l’Italia in questo periodo dell’anno. Hai mai pensato a una tua partecipazione al Festival? Ti piacerebbe? 

“Sono sincero. Non ci ho mai pensato ma sicuramente sì, mi piacerebbe moltissimo. È il sogno di ogni cantante o cantautore salire su quel palco e chi dice il contrario mente.” 

 

Ti vedremo impegnato in un tour? Se sì, cosa ti aspetti da questa esperienza? 

“Il tour sta per partire. Ci sono le prime tre date secche di lancio del disco. 21 febbraio Roma al Largo Venue, 20 Marzo Milano all’Ohibo, e il 21 Marzo Bologna al Club Mikasa. Voglio solo divertirmi tantissimo e cercare di divertire le persone. Vorrei regalargli l’emozione che ho io quando scrivo un brano e vederle uscire felici da un mio concerto.” 

 

Tempo fa invece hai aperto una data importante di Galeffi a Roma. Come hai vissuto l’esperienza dell’opening? Sei davanti a un gruppo di persone che non ti conosce, o ti conosce poco, e devi cercare di convincerle in pochi minuti, con una selezione di brani…

“È stata un’esperienza fantastica. Marco per me è un fratello e ci sosteniamo molto a vicenda. Quello è stato il regalo più bello che mi potesse fare ed anche una grande responsabilità per me.
Il live è andato bene. Sono sincero, ho chiuso gli occhi, ho attaccato Sofia chitarra e voce e la gente ha cantato, anche forte. Direi molto bene.” 

 

Allora, ti va di salutarci dicendoci quale brano dell’album sceglieresti, per presentarti a una persona che non ti conosce?

“Vi saluto e vi ringrazio per la bellissima intervista. Sicuramente per presentarmi sceglierei Lei perché è un brano immenso e potente che arriva dritto nel cuore delle persone.”

 

Chiara Grauso 

ReCover #4 – Led Zeppelin “Led Zeppelin”

• Tra archetipi e furti nell’epoca della riproducibilità tecnica •

 

“Mi ritrovo molto a trattenere il respiro”, dice George Hardie. “Ti chiedi perché sei così stanco alla fine di una giornata di disegno ed è perché quando ti concentri su come ottenere una linea perfetta, trattieni sempre il respiro.”

Purtroppo nella vicenda che lo lega ai Led Zeppelin Hardie dovette trattenere il respiro per motivi ben diversi.

Stimato illustratore e graphic designer, con una cinquantina di anni d’esperienza alle spalle, Hardie fa del suo metodo di lavoro una cifra stilistica: tramite composizioni pulite e linee perfette l’illustratore riesce ad andare diretto al fulcro della questione, con l’immediatezza comunicativa propria solo dei grandi professionisti.

Tutto rigorosamente realizzato con tecniche tradizionali, come un monaco Zen alla ricerca dell’enso perfetto.

Sulla sua lavagna luminosa sovrappone i vari disegni che ha creato per poi unirli in un unico disegno finale, un processo che va avanti finché non è soddisfatto del risultato, ripulito da ogni traccia di errore: un rituale che parte dal concetto per arrivare a comunicare l’essenziale.

Ma in che modo il percorso artistico di Hardie si lega a quello dei Led Zeppelin?

Era il 1969 quando l’illustratore venne contattato per occuparsi della cover del primo album della band emergente britannica, incarico che gli fruttò ben 60 sterline.

L’iconica copertina raffigura un fatto storico avvenuto nel 1937 in New Jersey, il cosiddetto “disastro di Hindenburg”: durante un volo il dirigibile Zeppelin prese fuoco e si distrusse nel giro di circa mezzo minuto, provocando la morte di 36 persone.

Fu un idea di Jimmy Page quella di usare l’immagine della tragedia come copertina del loro primo album, sfruttando l’impatto visivo che l’immagine del disastro rievocava ma usandone una sua reinterpretazione grafica. 

Un episodio drammatico, un album drammatico, una dichiarazione drammatica, disse Page.

Ma le prime proposte di Hardie vennero tutte scartate. 

Con un “no” secco Page aprì un libro e indicando una fotografia disse “ecco quello che voglio”: si trattava di una fotografia di Sam Shere che immortalava il dirigibile qualche secondo prima di esplodere.

Così l’illustratore si mise a lavoro e senza troppo entusiasmo riprodusse l’immagine con una tecnica mista, mezzatinta e rapidografo, riuscendo ad alterarla a sufficienza da non violare il copyright.

L’idea originale di Hardie venne usata comunque come logo sulla copertina posteriore dei primi due album, ma non riuscì mai ad andare fiero di quel lavoro creato senza una vera rielaborazione del concept.

Un concept che le parole dette da Page esprimevano alla perfezione: quella dei Led Zeppelin sarebbe dovuta essere una cover drammatica.

Venuta a conoscenza della storia dietro questa iconica copertina mi è stato immediato l’accostamento del simbolo della band alla settima carta dei Tarocchi, l’Arcano Maggiore Il Carro.

È infatti l’archetipo dell’equilibrio, che due forze opposte fra loro riescono a tenere in carreggiata nonostante le difficoltà incontrate sul loro percorso. 

E così fu per lungo tempo per la band, finché lo Zeppelin non si autodistrusse veramente, quasi come se quella prima cover fosse stato un triste presagio.

L’idea per l’artwork era così chiara per i Led Zeppelin da non ammettere alternativa, tanto che Hardie si ritrovò a copiare una fotografia.

Non è la prima volta nella storia dell’arte -nel suo senso più ampio- che ci troviamo di fronte ad un “furto”, tutt’altro ne è una componente fondamentale: ne sa qualcosa Molière, che si nutrì delle opere di Plauto, il padre della commedia latina. O ancora Collodi, che per il suo Pinocchio rubò parecchio dal primo romanzo della storia, Le metamorfosi di Apuleio.

Negli anni 60 Andy Warhol portò all’estremo il concetto di “riproducibilità tecnica nell’arte” teorizzato da Walter Benjamin, basandone la sua intera produzione artistica, rubando a piene mani dagli scaffali del supermercato e dalla cultura pop. E recentemente Cattelan, in collaborazione con il direttore creativo di Gucci Alessandro Michele, ha addirittura rubato il titolo e il manifesto della celebre performance di Marina Abramovich The Artist is Present, cosa che ha suscitato la solita irritazione generale quando si parla dell’artista.

L’ irritazione è un sentimento diffuso quando si associa l’arte al copiare: come se chi crea dovesse tirar fuori le idee dal suo personalissimo è originalissimo iperuranio, come se si ignorasse il fatto che senza l’Arte Giapponese non ci sarebbe stato Van Gogh, senza Manet nessun Impressionismo, senza Cézanne nessun object trouvé di Duchamp, per cui niente ready made di Warhol, e niente Cattelan.

Senza Steve Marriott forse la voce di Robert Plant non sarebbe esplosa, senza Muddy Waters il genio di Jimmy Page non si sarebbe potuto esprimere appieno, e senza la sua arroganza e determinazione la cover del primo album dei Led Zeppelin non avrebbe avuto lo stesso impatto. 

“I veri geni copiano” diceva Federico Fellini, e a questo punto immagino che si possa concordare con lui su tutta la linea. 

Ma quindi… questi Greta Van Fleet?

 

 

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Cinzia Moriana Veccia

Cogito Ergo Amo: una rivoluzione d’amore tra synth e basso

Classic stay classy: di questi tempi affidarsi al vintage è praticamente una sicurezza. E allora J Milli, producer di Cogito, disegna un pattern che profuma di Stranger Things e Stand By Me ma che racchiude, nella propria essenza, una struttura digitale in salsa di synth e loop. Il cantante, dal lato suo, strozza il dondolo del basso e le sortite digitali con una voce graffiata e disincantata, una voce ferita e per questo ancora più viva. Risultato? Una bella bomba. O meglio, una Molotov. Come in una Primavera di Praga amorosa i due lagunari ricamano su una tela di vissuto giovanile situazioni che sono “un po’ come quando ti sbucci un ginocchio, se lasci che la ferita si rimargini e faccia la crosticina poi passa anche se lascia il segno. Però se ti gratti sanguina.”.

Uscito l’11 di Dicembre scorso a corredo del recente EP Come va?, il pezzo di Cogito si porta intrinseco il fascino dei canali veneziani, sua città d’origine, “vicina solo due fermate ma a volte così lontana”; si porta dietro quella confusione giovanile che più o meno tutti abbiamo provato almeno una volta, quell’essere spaesati con il mondo attorno che corre perché si ha una persona ferma in testa. Riprendendo stilemi compositivi e canori vicini a Gazzelle, Cogito racconta vividamente situazioni pervase da un’emotività spesso latente, sensazioni racchiuse e pronte ad esplodere, appunto, come una bomba carta. Con una scrittura interessante e un timbro profondo, il pezzo si eleva immediatamente a colonna sonora di stati d’animo sporcati di ferite fresche ma anche macchiati irrimediabilmente di nostalgia, un pezzo che va assaporato lentamente fino a che viene capito e fatto proprio, personale: e se questo avvenisse, sono sicuro che il ritornello, “con i miei perchè puoi fare/una molotov e buttarmela addosso/cosi esplodo per te/cosi esplodi anche te/cosi siamo io e te” sarà urlato nell’abitacolo della vostra macchina.

Ma veniamo a qualche domanda più specifica.

 

Mi soffermo subito sull’aspetto melodico di questo tuo nuovo pezzo: apertura da ballatona rock direttamente dagli anni ’80, poi attacca il synth. E i giri di basso in sottofondo sono ipnotici: come avete partorito tu e J Milli questa figata?

“Molto interessante come domanda. Questa canzone, come spesso capita, è stata partorita da J Milli a livello di produzione musicale; poi; una volta nata; io la coccolo. Abbiamo scelto una linea guida per quanto riguarda lo stile che volevamo per questo brano, quello appunto della ballatona rock dagli ‘80, proprio anche come stesura del testo, ma poi facciamo fatica a stare distanti dai synth. Questo anche perché inconsciamente quando produciamo pensiamo sempre alla dimensione live.
Per quanto riguarda i giri di basso si sente che arrivano proprio da quella dimensione reggae/funk che accompagna J Milli nel suo progetto musicale laterale al nostro. In più il ragazzo che ha suonato per noi in fase di registrazione, Timo Orlandi, ha toccato quelle corde del basso come se ci stesse facendo l’amore. Siamo stati davvero contenti di come sia usciti finito il brano.”

 

Lo stile ibrido di Molotov è un aspetto che mi incuriosisce molto: è il risultato di un’osmosi dei vostri gusti musicali o siete allineati come riferimenti?

“Io e J Milli abbiamo sia gusti in comune sia differenti. La cosa che però ci accomuna è che ci piace proprio la musica! Se gli faccio sentire un brano che mi piace, che magari non avrebbe mai ascoltato, non parte prevenuto ma anzi è subito pronto ad ascoltare ed apprezzare e così vale anche per me se è lui a farmi scoprire qualcosa.
Direi però che i nostri gusti musicali personali non sono proprio allineati nel nostro cervello. Io passo da ascoltare i NOFX (punk) a Harry Styles (pop)  e lui idem passa dai Twinkle Brothers (reggae) alle trappate americane fatte bene.”

 

A proposito di riferimenti, questa volta canori: l’indolenza della tua voce mi ricorda Gazzelle, il ritmo gli Psicologi.

“Apprezzo un sacco questi riferimenti! Per il brano ho scelto proprio uno stile alla Gazzelle come reference, ovviamente rimanendo me stesso al 100%. Psicologi credo possano essere un riferimento adeguato perché entrambi possiamo essere posizionati in quel mondo detto ‘’indie’’, anche se oggi non vuol dire!
Ascoltiamo parecchio hip-hop, se guardo il mio Instagram seguo moltissimi rapper e in macchina è più facile che faccia partire Marra piuttosto che Calcutta, ma poi quando scrivo spesso sto male e se sto bene non riesco ad affrontare tematiche street come quelle dei rapper perchè non mi appartengono davvero molto.
Sono un mix di tante cose, può sembrare un bel casino, ma io sono contento così.”

 

Dopo averti chiesto dell’aspetto melodico e dell’aspetto canoro, ora ti chiedo della scrittura: trovo molto azzeccato il senso metaforico che si sviluppa nel testo. Al pari dell’aspetto musicale, quello della scrittura è un mondo colmo di creatività: come lo coltivi?

“Credo che il modo migliore per coltivare questo aspetto sia quello di essere sé stessi. Quando uno scrittore scrive sta raccontando qualcosa quindi il migliore allenamento è vivere le cose, essere profondamente sé stessi e imparare a dirle.
Cerco di scrivere molto in maniera da poter dire sempre meglio le cose che penso e vivo, sto anche trovando la mia dimensione stilistica cercando di non farmi troppo influenzare da quello che è il modo di scrivere di altri artisti.
Leggo, anche se è difficile. Non so quanto possa essere un allenamento. Per il cervello sicuramente e anche per la creatività, ma come se sai scrivere non diventi automaticamente un poeta allo stesso modo se divori libri non diventi uno scrittore.
Scrivere, scrivere e ancora scrivere è secondo me l’allenamento migliore.”

 

Ok, pausa sigaretta e domanda personale. L’oggetto della canzone: ferita fresca?

“Io preferisco il caffè (ahah).
L’oggetto della canzone è una ferita che non si sa cucire. E’ un po’ come quando ti sbucci un ginocchio, se lasci che la ferita si rimargini e faccia la crosticina poi passa anche se lascia il segno. Però se ti gratti sanguina.
Diciamo che ho ancora un po’ di prurito che non va via.
L’amore è anche questo. Viva l’amore.”

 

Un particolare molto bello della tua canzone è la sua armonia, la sua fluidità: il flow cavalca le note in maniera dolce, la voce accarezza il synth e si fa guidare dalle linee ritmiche: quanto lavoro c’è dietro all’unione dei due aspetti?

“È una domanda a cui non so rispondere sinceramente. Non so quanto lavoro veramente ci sia dietro. Quando scrivi e vai sempre di più davanti il mic inizi a sentire cos’è più giusto fare sulla base. C’è un equilibrio, ad esempio le ripetizioni sono una scelta ma poi alcune melodie vengono semplicemente chiudendo gli occhi.
Se non funziona J Milli mi bacchetta e quindi iniziamo a fare versi sulla base e sistemiamo sopra le parole.
Spesso però capiamo che la melodia è quella giusta quando riascoltandola iniziamo a ridere.
Quando chiudi un bel brano lo senti, che sia triste o super happy, comunque tu sei felice.”

 

Hai racchiuso secondo me benissimo una situazione sentimentale che è capitata più o meno a tutte le persone: questa canzone mi riporta a situazioni e posti vissuti. Se ti chiedessi da quale città arriva questa tua canzone?

“Che bomba di domanda!
Sarò scontato ma così pensandoci dalla mia camera ti direi Venezia.
Proveniamo dalla provincia di Venezia, due fermate di treno dall’isola. Ti dico Venezia perchè è una città così unica e bella che per quanto sia a noi vicina a volte è tremendamente lontana. Quando sai di avere qualcosa tra le mani lo dai sempre per scontato, succede così anche in amore. Venezia è unica, come una persona che ami ma se non la vai a trovare non la vivi.
Venezia perchè tra quelle calli son successe cose intime ma allo stesso tempo mi sono ubriacato con gli amici in piazza.
In più è una città piena di amore e di ragazzi da tutte le parti del mondo ma allo stesso è davvero fragile tra quei canali che spesso la fanno piangere.
Venezia poi è dove ho assistito alle prime manifestazioni ai tempi del liceo.
Se Molotov è una rivoluzione d’amore Venezia è la città perfetta.”

 

Trovo davvero interessante il tessuto musicale che viene a crearsi. Hai saputo creare (o ricreare) delle situazioni: ipotizziamo allora un’atmosfera cinematografica, immagini e musica fuoricampo. Un piano sequenza della madonna, insomma. Come comporresti questa ipotetica scena con la tua canzone in sottofondo?

“Una manifestazione. Due ragazzi che si amano tenendosi per mano. Primi piani sui loro volti e sfocato dietro il caos di una manifestazione, fuoco, digos e scoppi.
Ad certo un punto scende una lacrima sul loro viso, le mani si lasciano e guardandosi si trovano sempre più distanti. Portati via dal mondo circostante, con cattiveria ma in slow motion. Dandosi alla fine le spalle.
Alla fine una molotov nel cielo che infuocata esplode.
Non l’hanno voluto ma è la vita.”

 

Ultima domanda: canzone emotiva, ritornello spinto. Immaginati sul palco: alienazione con il pubblico con mani dietro alla schiena come Liam Gallagher o braccia aperte e abbraccio simbolico alla folla?

“Ho una canzone che reputo la sorella minore di questo brano e la canto a braccia aperte come se stessi abbracciando il pubblico.
Questa canzone è molto più intima e per questo cercherei di stare più vicino al pubblico sedendomi sul bordo del palco come se fossimo vicini a chiacchierare.
Ma alla fine… chiuderei gli occhi e lascerei andare le cose come decide il cuore. La musica è di tutti, questa è una storia che come hai detto han vissuto tutti, speriamo che questa canzone diventi di tutti.
La canteremo assieme.
Grazie da parte mia e di tutta la crew per queste domande davvero interessanti. E’ stato bello rispondere.
Grazie anche a chi avrà letto l’intervista fino a qui.
Ci vediamo presto, un abbraccione!”

 

Alessandro Tarasco