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P0P al Goa Boa • Episodio I: Calcutta

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P0P al Goa Boa

 

Episodio I: Calcutta

– Indie, Eskimo e Acquagratis –

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VezBuzz: i Sex Pistols e “the great rock’n’roll marketing”

Uno dei buzz più conosciuti della storia della musica è quello che vede protagonisti i Sex Pistols. Era il Giugno del 1977, le strade di Londra venivano addobbate per la grande festa del Giubileo della Regina Elisabetta II e i Sex Pistols pubblicavano il loro dissacrante singolo God Save the Queen.

Non si può però parlare dei Pistols senza tirare fuori il nome di Malcom McLaren, la grande mente che architettava ogni provocazione della band di Johnny Rotten, Sid Vicious e compagni. McLaren riuscirebbe a vendere qualsiasi cosa – anche il classico frigorifero agli eskimesi – grazie alla sua dialettica.

Gli viene naturale, è la cosa più facile del mondo per lui. Questo spiega tante cose, soprattutto come abbia fatto grazie ad un pionieristico lavoro di marketing, a far diventare famosa in tutto il mondo una band che, di fatto, non sapeva suonare.

Passato alla storia come manager del gruppo, questa definizione risulta comunque essere riduttiva per descrivere quello che è stato davvero McLaren: un curioso, spregiudicato, irriverente anticipatore di tendenze ma soprattutto il burattinaio che ha mosso i fili della grande “truffa del rock’n’roll”.

Sì, perché i Sex Pistols, una delle band simbolo del movimento punk, furono in realtà il primo gruppo creato a tavolino con uno scopo ben preciso: promuovere gli abiti creati dall’allora semi-sconosciuta stilista Vivienne Westwood, fidanzata di McLaren, venduti nel negozio “Sex”, da cui appunto presero il nome i Sex Pistols. Una enorme operazione di marketing, una delle più grosse del mondo della Musica.

Quello che riuscì a fare McLaren insieme ai suoi Pistols in quella serata di Giugno ha dell’incredibile.

God Save the Queen era uscita il 27 Maggio di quell’anno e in pochi giorni era diventata il pezzo che nessuna radio voleva passare, che le televisioni si affrettavano a censurare e che, fin dai primi versi, scandalizzava i ben pensanti. Addirittura alcuni negozi di dischi si rifiutavano di mettere in vendita il singolo, a causa del contenuto ritenuto oltraggioso.

In God Save the Queen, i Pistols si facevano beffe della sacra monarchia inglese paragonandola al regime fascista, anche se Johnny Rotten, cantante della band, dichiarò diversi anni dopo che “non si scrive una canzone come God Save the Queen perché si odiano gli inglesi. Si scrive una canzone come quella perché si amano e si è stanchi di vederli maltrattati.”

Il pezzo originariamente doveva chiamarsi No Future, come ripetuto ossessivamente nel ritornello diventato poi un emblema del punk, ma McLaren decise di cambiarlo in God Save the Queen, proprio per la coincidenza della sua uscita con il Giubileo d’argento della regina.

God Save the Queen è l’inno del punk inglese, che in quel “no future, no future, no future for you” racchiude tutto il senso del movimento, che non è più solo una corrente musicale, ma una vera e propria sottocultura giovanile.

Il punk era arrivato a dare una vigorosissima spallata al mondo della musica rock e ad urlare parolacce nelle orecchie dell’imbolsita borghesia inglese, disinteressata ai problemi sociali ma sempre premurosa verso la propria Regina. Era la rivolta, l’elettricità, una musica che non voleva essere condizionata da niente ad eccezione di se stessa.

Nessun futuro, nessuna speranza per il sogno inglese, nessun desiderio: la generazione dei ragazzi della seconda metà degli anni Settanta nel Regno Unito poteva anche piantare i chiodi nella bara delle proprie illusioni e i Sex Pistols erano lì per ricordarglielo: il mondo non cambia, le cose non cambiano, tutto rimane uguale, quello che puoi fare è arrabbiarti e gridare.

Il punk era l’aperta e dichiarata contestazione di ogni regola e nessuno più dei Pistols riusciva a incarnare questo atteggiamento. La band nel giro di poche settimane collezionò contratti con case discografiche, firmati e stracciati alla velocità della luce, uno dopo l’altro.

McLaren però non è il tipo che si accontenta, serviva una delle sue inverosimili trovate per tenere sempre alto l’interesse generale sui Pistols. Probabilmente avrebbe desiderato che la sua band eseguisse God Save the Queen di fronte alla faccia impassibile di Sua Maestà, ma non potendolo fare si inventò qualcosa di diverso, ma altrettanto esplosivo.

Per promuovere il singolo venne organizzata un’operazione di marketing magistrale: il 9 Giugno 1977 McLaren noleggiò una barca, che ribattezzò “Queen Elizabeth River Boat”, ci fece salire sopra i Sex Pistols e la fece navigare sul Tamigi, fino ad arrivare di fronte al Palazzo di Westminster. Qui iniziarono a suonare, facendo inevitabilmente scalpore tra i presenti.

L’attitudine di un gruppo scalcinato e violento, come i Pistols, unita alla mente da agitatore di Malcom McLaren fecero il resto. Immaginate la scena: una chiatta scivola sul Tamigi, sopra i Pistols suonano – male – e urlano oscenità mentre a riva si festeggia il Giubileo. Lo sguardo allucinato di Lydon, le magliette strappate, il corteo di freak brutti, sporchi e cattivi di cui i Pistols si circondano.

La band è guardata a vista dalla polizia inglese, che ad un certo punto li accosta e sale a bordo. La festa in barca si interrompe tra gli insulti alla regina. Nel frattempo una rissa coinvolge Jah Wobble – amico dei Pistols e poi bassista nei PIL di Lydon – e un cameraman, così la barca viene fatta attraccare e undici persone vengono arrestate.

Il resto è storia: il giorno dopo i giornali riportano a caratteri cubitali l’evento scandalistico dei nuovi selvaggi del rock e God Save the Queen sale al secondo posto delle classifiche inglesi.

La leggenda vuole che in realtà fosse addirittura al primo, mai dichiarato perché l’industria radiofonica inglese cospirò contro il brano, censurandolo come poteva.

Nei giorni successivi il singolo venne poi bandito dalla radio della BBC e l’Independent Broadcasting Authority, un’associazione che controlla e regola le trasmissioni nel Regno Unito, vietò la messa in onda di qualsiasi sua esecuzione. Questo naturalmente non fece che alimentarne il mito, arrivato fino ai giorni nostri.

 

Daniela Fabbri

 

https://youtube.com/watch?v=tHrUleT8HTs

 

Stranger Mixtape

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 P0P

presenta:

Stranger Mixtape

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The Clash: white riot, black riot

Se parliamo di punk la mente corre a Londra, sul finire degli anni ’70, quando le strade della capitale britannica erano piene di giovani che volevano fare sentire la loro voce.

Il periodo storico non è dei più rosei: il razzismo è all’ordine del giorno e, in prossimità delle elezioni, il National Front il partito di estrema destra rischia di risquotere un grande successo.

Qua e la si fanno sempre più forti i richiami alle ideologie naziste e per questo motivo iniziano a nascere associazioni per sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema.

E’ grazie a Rock Against the Racism e l’Anti Nazi League che il 30 maggio 1978 viene organizzato un grande concerto al Victoria Park di Londra ed è forse grazie a questo evento che la musica punk abbandona le tendenze nichilistiche degli albori per politicizzarsi sempre più.

Un gruppo più degli altri è riuscito a far sentire la sua voce, a usare la musica come un arma per combattere le proprie battaglie: The Clash.

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The Clash in Belfast – 1977 ©Adrian Boot

Forse, proprio per questo motivo, Ono Arte Contemporanea, nella sua sede di Bologna, ha deciso di ospitare una rassegna dedicata a Joe Strummer, Mick Jones, Paul Simonon e Topper Headon.

La mostra dal titolo Clash: White Riot, Black Riot racconta la band attraverso gli scatti di Adrian Boot e sarà possibile visitarla da 12 giugno al 15 settembre.

Nonostante siano passati più di 30 anni da quando i Clash incendiavano le scene musicali mondiali, da quando London Calling ha invaso le radio, oggi più che mai la loro musica e la loro ribellione sono attuali.

I Clash hanno fatto la storia, hanno messo a ferro e fuoco il mondo, incitando le persone a portare avanti le loro battaglie.

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The Clash – London Westway Photosessions – 1977 ©Adrian Boot

Fin al loro primo dingolo White Riot appare chiara la loro ideologia e la loro missione: dare una voce a tutti. Non si tratta solo di una canzone ma di una sorta di inno che incita i giovani a portare avanti una rivolta personale e collettiva.

Ma i Clash non sono solo punk, sono un misto esplosivo di generi diversi.

“Vorrei che non si dicesse che i Clash sono stati solo un gruppo punk. Il punk è uno spirito molto più ampio della musica grezza e semplice che solitamente si identifica con quella parola. I Clash sono stati un gruppo di fusione, non una band di genere. Abbiamo mischiato reggae, soul e rock and roll, tutte le musiche primitive, in qualcosa di più della somma dei singoli elementi. Soprattutto in qualcosa di pù del semplice punk di tre accordi.”

Strummer ci teneva a sottolineare questa cosa e quando la loro musica si è allontanata dal punk tradizionale i fan non sempre lo hanno apprezzato.

Non tutti, fin da subito, si sono resi conto della portata rivoluzionaria della loro musica. Eppure in 10 anni hanno lasciato il segno.

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The Clash ©Adrian Boot

La mostra ospitata a Bologna il cui ingresso è gratuto racconta i Clash visti dall’obiettivo non solo di Boot, fotografo che li ha seguiti nel corso della loro carriera dagli esordi al successo, ma anche di Syd Shelton e Pennie Smith. 

I 40 scatti in esposizione a Bologna ci raccontano questa band che ha fatto della musica un arma e ha smosso, e continua a farlo ancora oggi, la coscienza di milioni di persone. Ognuno deve farsi sentire, la voce di chiunque è importante.

“Questo è il lascito che i Clash hanno trasmesso alle generazioni che sono venute dopo: lo spirito, l’impulso a cambiare, per continuare a guardare in faccia al futuro.”

Questa per Mick Jones, il chitarrista della band, era l’eredità che i Clash hanno lasciato ai posteri.

E noi non vogliamo essere ricordati come la generazione che non ha colto il loro lascito.

Laura Losi

La Maledizione di Takagi & Ketra

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 P0P

presenta:

La Maledizione di Takagi & Ketra

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Van Gogh e i Maledetti

•Stefano Fake ci insegna come si racconta l’arte con l’arte•

 

Di norma, non occorrerebbe nessuna particolare motivazione per saltare su un treno per Firenze.
A Firenze ci vai e basta, ed ogni cosa che potrai portarti a casa sarà inestimabile bottino.

Ma quando la Chiesa di Santo Stefano, a due passi da Ponte Vecchio, diventa Cattedrale dell’Immagine, e si fa bella per ospitare una delle mostre più coraggiose e rivoluzionarie del momento,  il biglietto di questo treno si timbra da solo.

Siamo quindi sfrecciati verso una Firenze toccata e fuga, per un aperitivo maledetto con Van Gogh, Lautrec, Modigliani ed altri tormentati ragazzacci. Abbiamo sguazzato nelle loro vite tutt’altro che piacevoli e capito quanto l’arte, per loro, sia stata la vera salvezza. O forse no. 

Davanti ad una mostra come Van Gogh e i Maledetti ci si sente destabilizzati, poiché l’unica prerogativa è spogliare le opere da qualsiasi filtro di falsità, così che possano urlarci in faccia di non essere figlie predilette di divinità perfette, ma d’essere venute alla luce dalle menti esasperate di uomini soli, limitati, dannati, in un vorticoso travaglio senza gioia ne consolazione. 

A presentarci Van Gogh e i Maledetti è CROSSMEDIA GROUP, con un’esperienza multimediale progettata e diretta da Stefano Fake di THE FAKE FACTORY, artista visivo multidisciplinare che, con grande audacia e sensibilità, utilizza tecnologie di ultima generazione per raccontare l’arte con l’arte.
Abbiamo chiesto a Stefano di parlarci della mostra, dell’importanza delle nuove frontiere artistiche e del grandioso lavoro che c’è dietro allo straordinario risultato finale.

017A1205 min
La tua opera è colma della Parigi di fine ottocento e inizio novecento, fulcro del mondo bohemien, terreno fertile per le vite dissolute dei nostri Maledetti. Quali strade di Parigi ha percorso la tua ispirazione? 

Per questa esperienza immersiva ho lavorato su diversi binari estetici e narrativi.

Dal punto di vista storiografico ho voluto approfondire la descrizione dell’ambiente parigino a cavallo dei due secoli, usando diverse fonti cinematografiche e fotografiche.

Mi sembrava necessario far capire sin da subito come fosse importante l’ambiente di Parigi, in quel momento sicuramente la capitale mondiale dell’arte, e il motivo per cui era diventata la meta di tutti coloro che volevano vivere pienamente una vita e una carriera d’artista.

Per questo ho usato ampie scene di repertorio su Montmartre, Montparnasse, i caffè parigini, le sale danzanti, per concludere con l’apoteosi finale dei fuochi d’artificio all’inaugurazione della Tour Eiffel.

Parigi era il centro del mondo e sicuramente la meta di tutti gli artisti che volevano affermarsi nel mercato e magari nella storia dell’arte.

Quindi, oltre che per gli amici fraterni Van Gogh e Gauguin, Parigi era il punto di riferimento per tutta una serie di altri pittori molto eterogenei fra loro come stile e tecniche pittoriche.

La cosa che li accomunava era soprattutto l’aspirazione ad una vita bohémien completamente dedicata all’arte, chiaramente insaporita da vino, assenzio, hashish e sesso.

017A1153 min

Hai creduto fosse importante slegare le singole esperienze di questi artisti dalle vite rispettivamente intrecciate fra loro, per dedicare ad ognuna di esse un capitolo personale. Cosa ti ha spinto verso questa scelta?

Si, la narrazione visuale è fatta di brevi capitoli monografici, diversi fra loro come composizione e grafica animata.

Dal punto di vista registico per me era fondamentale mostrare questa eterogeneità stilistica e tematica, questa ricchezza di colori e forme. Una frammentazione narrativa legata profondamente allo spirito del tempo.

Gli artisti maledetti dipingevano in modo differente e molto personale; rappresentavano Parigi ciascuno con la propria matrice stilistica, ma ne erano tutti figli e ciascuno ne raccontava una parte, e tutte queste porzioni ne danno una visione sicuramente più completa.

Il tutto collegato da un avvolgente fil rouge,  proprio come nei capitoli di un romanzo.

Nel corso dei quaranta minuti di video-installazione a 360°, passiamo da Modigliani a Toulouse-Lautrec da Soutine, a Gauguin e Van Gogh, senza che questa frammentazione possa sembrare dissonante. Perché tutti loro, in definitiva, stavano rappresentando in modo molto personale lo spirito del tempo.

Con la scelta musicale ho seguito lo stesso schema: grande varietà ed eterogeneità, passando da Verdi a Vivaldi da Schubert a Beethoven e Hoffenbach, stando attento unicamente a tenere alta la temperatura emotiva dell’esperienza immersiva, lavorando sull’alternanza ritmica e sulle sonorità.

Un’esperienza più che immersiva. Era tua intenzione farci rivivere l’ipotetico percorso di maledizione ed espiazione di Van Gogh ed i suoi colleghi?  

Per far viaggiare l’opera dentro un binario simbolico molto strutturato ho costruito, su un secondo livello, una narrazione che procede come un viaggio di purificazione.

Partiamo dall’inferno a cui questi artisti dalla vita dissennata erano destinati, per portarli fino al cielo, all’elevazione in paradiso, spinti dalla grandezza e dalla purezza della loro arte.

Per questo il primo capitolo inizia con il Dies Irae di Verdi e ci troviamo fra le fiamme dell’inferno e all’interno di una scena vandalizzata da scritte rosse spalmate sulle pareti dell’ambiente. Tanto forti da sembrare scritte col sangue.

Interessante la contrapposizione che hai creato ambientando una scena infernale all’interno di una chiesa sconsacrata. 

In questa scena suggerisco al pubblico la mia interpretazione del girone dantesco che ghermisce questi pittori dalla vita estrema: una chiesta sconsacrata vandalizzata come uno squot abbandonato e graffitato centimetro per centimetro.

017A1182 min

Abbiamo colto qualche citazione a Disney, qualcuna addirittura all’animazione giapponese. Affermazione troppo azzardata?
Assolutamente no. In questo primo capitolo c’è una citazione diretta di uno dei capolavori del cinema d’avanguardia, Fantasia di Walt Disney del 1940, così come avevo fatto per Klimt Experience.

In particolare mi sono ispirato alla scena iniziale di Fantasia, realizzata sotto la direzione artistica di Oskar Fishinger, uno dei maestri dell’animazione astratta che ha aperto le porte all’idea di film astratto all’inizio del ‘900.

Chiaramente, essendo figlio del mio tempo, ho dato un tocco manga alle animazioni astratte e ho potuto ottenere, grazie al montaggio digitale, una perfetta sincronia audio-visiva.

Hai lavorato molto sui contrasti. Lo spettatore non può che sentirsi parte di qualcosa di grande. Non possiamo chiedere ad un padre di identificare il figlio preferito, ma sicuramente c’è un “capitolo” di cui vai particolarmente fiero.
Uno dei momenti visivamente più belli e riusciti dell’opera, che fa da contrappunto a questa prima scena infernale, è il finale dell’opera immersiva, con la contemplazione del paradiso: la notte stellata di Van Gogh.  Apprendiamo affascinati come da una vita maledetta possa nascere un’arte celestiale e sublime. E’ in definitiva un inno alla forza catartica dell’arte che salva tutti, artisti e pubblico.

Per quanto riguarda la progettazione dell’ambiente immersivo non mancano strumenti che stanno aprendo le porte ad un nuovo concetto di “istallazione artistica”.

Per Van Gogh e i Maledetti ho potuto portare due tecniche che da anni utilizziamo con successo nei festival e nelle mostre immersive: il videomapping, sulle nude pareti della chiesa che ci ospita, e la Mirror Room, che dagli inizi degli anni duemila cerco di inserire sempre nelle esposizioni di cui sono autore, negli eventi e nei festival d’arte digitale.

Dopo alcuni anni in cui la Chiesa di Santo Stefano era rivestita di schermi, siamo riusciti a lavorare con la produzione di Crosserai per farla tornare alla sua forma originale.

La perfetta visione delle opere è comunque garantita dalla forma stessa dell’architettura, che ha ampie pareti intonacate sopra gli altari.

Per migliorare la visione ho fatto inserire uno schermo centrale, che non è altro che la parete portante della terrazza costruita appositamente per avere anche una visione dall’alto dello spazio.

Il balcone ospita anche una mia Mirror Room, dove il concetto di immersive art experience, che da anni è la cifra stilistica di THE FAKE FACTORY, è portato alle sue estreme conseguenze.

La mostra è completata da una parte didattica tradizionale e da un viaggio tridimensionale con Oculus.

Questi ambienti sono curati direttamente da Crossmedia, così come il bookshop, rinnovato anch’esso per questa esposizione.

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Da anni sei parte attiva di questo nuovo fenomeno chiamato “crossmedialità”. L’arte sta cambiando, così come il suo pubblico. Sperimentare è inevitabile e necessario, perché stiamo assistendo all’alba di una nuova era della comunicazione. Dopo aver parlato della tua ultima creatura, parlaci un po’ di te, della tua esperienza e della tua personale rotta.

Questa per noi  è la quinta produzione per Crossmedia Group (dopo Klimt, Monet e gli Impressionisti, Modigliani e Magritte) e consolida un rapporto che ha portato il gruppo a diventare un importate player nel mondo delle mostre multimediali.

Devo dire che la fiducia e la libertà creativa che il produttore Federico Dalgas mi ha sempre lasciato è sicuramente stata una delle chiavi del successo di questo nuovo modo di rappresentare l’arte del passato con linguaggi e tecniche contemporanee.

Se da un lato perdiamo, per così dire, la materia pittorica (non ci sono opere originali in mostra), dall’altra possiamo utilizzare la luce digitale per creare mondi fantastici, illusioni ottiche, immersioni visive sorprendenti.

Osservazione da sottolineare, perché molti storgono ancora il naso quando si tratta di mostre senza opere originali. Raccontare l’arte con l’arte, soprattutto se si trattano opere classiche e celebri, non è ancora un concetto così immediato ed accettabile, a quanto pare. Occorre avere coraggio, il nuovo pubblico sembra in continua crescita.

Proprio così. Per un artista che lavora con i new media è importante sentirsi libero di sperimentare e di reinterpretare i classici del passato senza sentirsi limitato e avendo la possibilità di sperimentare ogni volta soluzioni visive nuove, sapendo che lo sforzo economico che il produttore sostiene sarà ripagato sia in termini economici che di visibilità.

La prima esperienza che abbiamo realizzato per loro, Klimt Experience, è stato un successo mondiale che ha aperto molte porte a questa nuova forma di immersione nell’arte.

Il pubblico del terzo millennio ha voglia di vivere diverse esperienze estetiche e le immersive exhibitions sono sicuramente una proposta culturale interessante proprio perché complementari alle mostre tradizionali. Sono sicuramente anche un buon modo per introdurre all’arte bambini e teenagers.

Già, troppo spesso si parla dei giovani e della loro incapacità di mostrare interesse per la cultura e per il loro futuro. Noi crediamo invece che ogni generazione abbia il suo linguaggio e che questo linguaggio, come ogni altro, vada studiato, ascoltato, accolto. Siamo stati felici di vedere la mostra popolatissima di ragazzi e ragazze.

Penso che le strade che abbiamo aperto porteranno ad una crescente attenzione verso le mostre immersive, con la nascita di nuovi artisti visivi e nuovi produttori interessati ad investire in questo mercato.

Lo ripeto da anni: siamo come a inizio ‘900 quando nacque il cinema. Nel giro di pochi decenni le sale cinematografiche si sono moltiplicate, e c’è stato spazio per nuovi registi, nuovi autori, nuovi produttori.

Per questo penso che da parte del pubblico e della critica sia anche venuto il momento di superare la dicotomia mostra con quadri veri versus esperienza immersiva di arte digitale. 

Per usare una metafora facilmente comprensibile, le mostre immersive stanno alle mostre tradizionali come il cinema sta al teatro?

Esattamente, nessuno va al cinema sperando di trovare attori in carne ed ossa.

Oggi, se vai al cinema è normale sapere che vedrai degli attori e delle scene riprese e poi proiettate su schermi.

E’ un segno dei tempi, e la riproduzione dell’arte partendo da una foto in digitale è il modo più comune con il quale il pubblico entra in contatto con le opere d’arte del passato.

Inoltre oggi abbiamo una qualità riproduttiva eccellente, con una qualità di riproduzione molto definita e fedele all’originale. Manca la materia pittorica, certo, e le dimensioni sono riportate su grandi schermi.

Ma questo per me è un vantaggio, perché possiamo rafforzare la potenza visiva delle opere riprodotte ed esaltarne le trame e i dettagli.

017A1171 min
Negli anni l’arte cinematografica si è sviluppata come linguaggio e tecnica fino ad essere definita la settima arte. Oggi l’arte digitale immersiva potrebbe rappresentare l’ottava forma d’arte? 

Sicuramente è quella che maggiormente si avvicina all’idea di Arte Totale di cui si parla da quasi due secoli.

Un’esperienza immersiva, nella forma in cui la concepisco e la realizzo, è un’insieme di architettura, pittura, musica, danza, poesia, cinema… L’arte digitale immersiva è un’esperienza totalizzante.

Per questo spero che una nuova generazione di critici, divulgatori e storici dell’arte ne prenda atto e inizi ad analizzarla e a descriverla per quella che è: una forma d’arte a se stante che ha un proprio linguaggio e una propria ricerca.

E spero che si inizi a capire che dietro ad ogni mostra immersiva ci sono autori e artisti visivi con il proprio stile e la propria capacità non solo di rileggere il passato, ma anche di creare nuove estetiche. 

Partiamo da qui, il pubblico ed i lettori devono sapere quante interessanti sfaccettature, quanta progettazione e quanta ricerca creativa si celano dietro ad una mostra immersiva. Capita spesso che il vostro lavoro non venga capito?

Mi piacerebbe che un giorno si smettesse di fare domande agli autori di esperienze immersive  sul tipo e sulla quantità di proiettori utilizzati, perché sarebbe come chiedere a Fellini che tipo di cinepresa ha usato per girare il film o che proiettori utilizzano nei cinema per proiettare i suoi film.

Nessuno chiede a Bob Wilson che fari utilizza per fare i suoi enormi fondali retroilluminati a teatro. Gli viene chiesto il perché crea scene con architetture fatte di luce.

Chi chiede a James Turrell se per creare le sue stanze immersive usa Led o luci con gelatine colorate?

Noi artisti digitali ci dobbiamo preoccupare solo di creare esperienze d’arte belle e culturalmente significative. Ognuno con il proprio punto di vista e la propria visione, cosi che il pubblico possa un giorno andare a vedere un’esperienza immersiva sapendo quale autore l’ha realizzata, esattamente come accade quando si sceglie un film.

Lo si fa per vedere l’opera, non per vedere una sala dove la tecnologia permette di proiettare delle immagini su una parete bianca.

Italia, patria dell’arte, luogo dove alla domanda “che lavoro fai?” la risposta “l’artista” segue svariate e raramente benevole reazioni. Sei sicuramente un grande esempio per i giovani che sognano un futuro nel campo artistico.

Sì, e spero che quello che stiamo facendo serva come guida per gli studenti d’arte e i nuovi creativi digitali.

Ci sono enormi possibilità di esprimersi come artisti e come narratori digitali, è un mondo tutto da creare e scoprire. Ma siamo agli inizi e la definizione di un’arte nuova richiede tempo. 

Ma noi artisti andiamo avanti, sperimentando e creando, così come fecero altri prima di noi.

20190412 173203 min

Articolo di Valentina Gessaroli

Dale: la rivincita del pop made in Italy

A volte trovare musica italiana dal respiro internazionale sembra essere un vero e proprio rompicapo. Eppure, il nostro bel paese è pieno di giovani artisti pronti ad affacciarsi al mercato d’oltre oceano. Noi di Futura 1993 ne abbiamo scovata una in particolare: si chiama Dale ed è una promettentissima cantautrice pop dalle origini italo canadesi. Il suo nuovo singolo autoprodotto “Yes, I Will”, uscito martedì 30 aprile, ci parla di rinascita tramite sonorità pop che rimandano ai primi anni 2000. Fresca di questa nuova uscita, abbiamo deciso di farle qualche domanda per scoprire la sua storia, la sua musica e le sue ispirazioni.

 

Ciao Dale! È appena uscito il tuo ultimo singolo “Yes I will”, ci racconti cosa significa questo brano per te? 

Ciao! È appena uscito e ne sono molto contenta. Sono stata lontana dalla scena inedita per un anno e questo brano segna il mio “ritorno sulla scena” con conseguente e decisivo cambio di rotta sul piano artistico. Ho variato il team, provato nuove collaborazioni e ho tirato fuori un brano che nessuno si sarebbe aspettato da me con un testo che racconta tutti i rifiuti che mi hanno frenata molte volte e il perché non succederà mai più.

 

E come sta andando l’accoglienza da parte del pubblico?

Con “Yes, I Will” ho deciso di complicarmi le cose: a differenza dei singoli precedenti non ho

potuto contare su collaborazioni o partecipazioni di enti/persone per la diffusione del brano: in questo caso sono solo io e ogni consenso che sto ricevendo per me vale il doppio perché è stato ottenuto con le mie sole forze. È stata una piacevole sorpresa vedere apprezzato questo mio nuovo sound, mi sta permettendo di allargare il mio pubblico e mi ha chiarito ancora di più le idee sulla strada da seguire.

 

Ora parlaci un po’ di te. Quando e come nasce la tua passione per la musica?

Da che ne ho ricordo, sono sempre stata attratta da tutto ciò che avesse a che fare con la musica. Non c’è stato, dunque, un particolare momento che ha segnato l’inizio di questo grande amore. Sin da piccolissima ho sempre ballato e cantato in giro per la casa seguendo il mio personale concetto di “performance” appreso in primis attraverso lo schermo dalle principesse dei grandi classici Disney. Nel corso degli anni ho poi coltivato la mia passione attraverso studi di danza, canto e recitazione.

 

Domanda di rito ma necessaria, quali ascolti hanno maggiormente influenzato il tuo percorso artistico?

Quand’ero bambina, in macchina durante il tragitto casa-scuola, ho sempre ascoltato le maggiori hit anni ‘80 presenti nelle playlist di mio padre e credo di aver assorbito molto da quei brani. Quando ho cominciato ad ascoltare musica per conto mio, mi sono riconosciuta subito nel pop amando poi sopra tutti Britney Spears. Sono influenzata in generale da tutto il pop dei primi anni 2000 sia femminile che maschile (ad esempio Justin Timberlake) e dalle produzioni di Timbaland e Max Martin.

 

Hai un sound decisamente internazionale e scrivi brani in inglese. Sei italo-canadese ma so che vivi in Italia, cosa ha condizionato questa scelta linguistica?

Ho doppia cittadinanza e doppia nazionalità, sono nata in Italia, parlo in italiano, vivo, mangio e penso in italiano, mi piace l’idea di potermi avvicinare alle altre mie radici esprimendo i miei sentimenti attraverso la musica. È una scelta personale, ma non troppo ponderata perché mi è molto più facile scrivere in inglese. Non nego comunque che un domani potrò sperimentare di cantare in italiano o in francese sempre per restare fedele al mio background familiare.

 

E invece come valuti l’attuale settore discografico in Italia? 

Chiuso, improntato quasi esclusivamente sulla lingua italiana e poco incline all’internazionalità. È un settore che rischia poco, che investe solo su progetti identici tra di loro perché ormai si punta solo su ciò che saprai già di poter vendere, che si alimenta solo tramite personaggi (spesso anche validi) che emergono dai talent o contenuti virali. Secondo me si potrebbe fare molto di più e con ottimi risultati.

 

Con chi ti piacerebbe collaborare, sia in Italia che all’estero?

Sinceramente non saprei scegliere di preciso qualche artista italiano perché non ho ancora

individuato qualcuno che possa avere una visione musicale simile alla mia, in ogni caso sto continuando a monitorare il panorama e magari presto avrò una risposta anche a questa domanda. Per una collaborazione estera… ultimamente mi ha conquistata Ava Max quindi ammetto in tutta sincerità che adorerei collaborare con lei. In ogni caso una collaborazione con una qualsiasi artista pop d’oltreoceano sarebbe sempre e comunque accolta a braccia aperte!

 

Ultima domanda, cosa dobbiamo aspettarci dal tuo progetto? Puoi anticiparci qualcosa?

Sicuramente un altro brano a breve (credo di aver già deciso quale), sto lavorando a delle demo per un progetto parallelo in cui credo molto e lavorando a un featuring che mi vedrà protagonista di una canzone dove probabilmente non canterò solo in inglese… non vedo l’ora!

 

Alice Lonardi

 

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VezBuzz: di quando Jack White lanciò Freedom at 21 con dei palloncini

Perché limitarsi ad un banale lancio “on air” radiofonico, quando si può letteralmente far prendere il volo alla propria musica?

Jack White deve aver pensato qualcosa del genere quando ha escogitato uno dei buzz più originali degli ultimi anni. Infatti, in occasione dell’uscita del singolo Freedom at 21, che precedeva l’album Blunderbuss si inventò qualcosa di davvero inconsueto, destinato a rimanere nell’imperitura memoria dei tanti che, come me, hanno imparato ad apprezzarlo con i White Stripes e hanno continuato ad amarlo in ognuna delle sue successive reincarnazioni. Infatti, che Jack White sia un genio della Musica, non c’è di certo bisogno che lo dica io. Non tutti però sospettavano fosse anche un genio del Marketing.

Correva l’anno 2012, i White Stripes si erano già sciolti l’anno precedente e Jack White aveva già pronti nel cassetto i pezzi che avrebbero poi dato vita a Blunderbuss, il suo primo album da solista.
Tra questi c’era Freedom at 21, un brano insolito per il musicista di Detroit, con elementi musicali che ricordano l’hip hop, una ritmica asfissiante e una chitarra che spettina. E poi c’è il testo, che si interroga su come un uomo possa diventare vittima di una donna.

Per il lancio di questo singolo la Third Man Records, l’etichetta discografica di White, fece qualcosa di particolare. Il 1° Aprile 2012 infatti il brano venne inciso in 1000 esemplari su disco flessibile e collegato ad altrettanti palloncini blu, gonfiati ad elio, che vennero liberati in aria nel cielo di Nashville.

Il flexi-disc è un supporto in vinile, molto sottile e leggero, che può essere arrotolato e piegato. Ai palloncini vennero poi attaccate anche delle cartoline con le indicazioni su come informare la Third Man Records del ritrovamento. Secondo le statistiche almeno un centinaio di persone sono entrate in possesso di uno di questi preziosi esemplari, diventati oggi dei veri e propri oggetti da collezione.

Molti sono atterrati nei pressi di Nashville, poco lontano dal luogo del lancio, il quartier generale della Third Man Records. Come era prevedibile, il lancio dei palloncini ha conquistato i fan e ha permesso di ottenere una grande visibilità.

Il 17 aprile di quello stesso anno, solo per darvi la dimensione di quello che ha potuto generare questa operazione, il sito della Third Man Records informava i gentili utenti che “in un’asta di eBay una copia del disco flessibile Freedom at 21 lanciata da un aerostato della Third Man è stata venduta ad un prezzo di $ 4.238,88. Il prezzo più alto mai pagato per un flexi-disc”. Pensate quindi che bella sorpresa per la famiglia Coker, in Alabama, che pare aver trovato un intero carico di palloncini aggrovigliati insieme, incastrati tra i rami di un albero all’interno della loro proprietà.

Freedom at 21 venne poi rilasciato anche per un download digitale e come singolo in vinile, nel mese di Giugno.

In questo video potete vedere il momento del lancio dei dischi.

 

 

So cosa vi state chiedendo: sì, belli i palloncini, ma la plastica? E all’ambiente, non ci ha pensato nessuno? Con buona pace degli ambientalisti, Jack White invece in quell’occasione pensò proprio a tutto. I palloncini utilizzati erano completamente biodegradabili. Così come le cordicelle, tutte prodotte con materiali naturali.

Quello di Jack White deve essere immaginato come un esperimento. Un tentativo di esplorare forme di distribuzione “non tradizionali”, in modo da far arrivare questo singolo anche nelle mani di persone che solitamente non frequentano i negozi di dischi. Oltre, naturalmente, a far parlare di sé.

Anche se, a dirla tutta, White non è estraneo a questo genere di operazioni, folli ma con una punta di poesia. Chi conosce un po’ la sua storia non sarà rimasto sorpreso. Infatti, prima della Third Man Records, prima dei White Stripes, prima dei Raconteurs, Jack White era solo un tappezziere di Detroit con una curiosa abitudine.

Si divertiva a nascondere all’interno dei divani che riparava foglietti con piccole poesie. Da qui alla più recente operazione denominata “vinile nello spazio”, dove, per festeggiare il quindicesimo compleanno della sua etichetta discografica, è stata lanciata oltre l’atmosfera una navicella spaziale con a bordo una speciale apparecchiatura, la Icarus Craft, in grado di far suonare un vinile, il nostro eroe non si è più fermato, inanellando una trovata pubblicitaria creativa dopo l’altra.

Jack White infatti non è solo uno degli artisti più dotati della scena contemporanea, ma è anche uno dei musicisti che ha contribuito maggiormente al ritorno del vinile.

Lo ha fatto grazie alla sua Third Man Pressing, un luogo dove il vinile prende forma, tra macchinari tedeschi antichi ed altri nuovissimi, ma anche con operazioni come il lancio di Freedom at 21, o realizzando una versione del singolo Sixteen Saltines per veri maniaci, stampata su vinile trasparente pieno di liquido traslucido e con un’incisione riproducibile del logo Third Man.

Per come lo vedo io, quello di Freedom at 21 è un bel modo di promuoversi e sostenere un po’ di sano “feticismo” del vinile, oltre che aggiungere un nuovo tassello alla leggenda di Jack White, ogni giorno più genio sregolato del mondo della Musica.

 

Daniela Fabbri

Come scegliere un Festival Estivo

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 P0P

presenta:

Come scegliere un Festival Estivo

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La magia del Prado

•Quando l’arte incontra la musica•

 

Madrid è una delle mie città preferite, sembra avvolta da una patina magica che la rende unica al mondo. Ovunque ti giri non puoi fare a meno di sgranare gli occhi perché in ogni angolo puoi trovare una chiesa, un palazzo o una fontana che catturano la tua attenzione.

Madrid per me è sinonimo di arte e musica.

Tra i tanti musei che la città ospita ho deciso concentrare la mia attenzione sul Museo del Prado. Non solo perché nel 2019 vengono celebrati i suoi 200 anni ma perché raccoglie una collezione di opere da lasciare senza fiato.

L’imponente museo, costituito da un dedalo di stanze in cui è facile perdersi, ospita dipinti di alcuni degli artisti più importanti della storia: Tiziano, Durer, Bosch, Raffaello…elencarli tutti sarebbe impossibile.

Passeggiando per le sale, armata di cartina, passando da un quadro ad un altro mi sono accorta che moltissimi artisti nelle loro opere inseriscono riferimenti al mondo della musica.

Ci sono autori che decidono di celebrare i musicisti intenti a fare il loro lavoro, altri che immortalano momenti di festa, altri che celano dietro l’immagine di un musico i potenti del loro tempo e altri ancora che nelle loro opere a volte in primo piano, a volte celati in disparte, inseriscono degli strumenti.

Dopotutto la musica, una forma d’arte antica quasi quanto l’uomo, è parte fondamentale della vita di tutti e quando due arti così importanti si incontrano non possono nascere che dei capolavori.

In questa breve carrellata vedremo insieme alcune opere che contengono dei richiami al mondo nella musica e come i loro artefici hanno deciso di rappresentarla.

Partiamo dal tedesco Hans Baldun Grien che nella sua opera Le Tre Grazie decide di trattare un soggetto di matrice classicheggiante molto caro ai rinascimentali. 

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Hans Baldung Grien, Armonia o Le tre Grazie, 1541-1544 

Al Prado possiamo ammirare anche l’opera di Rubens, che tratta lo stesso soggetto ma lo fa in modo totalmente diverso.

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Pieter Paul Rubens, Le tre Grazie, 1636 ca., olio su tela

Osservando i due dipinti, infatti, più che le somiglianze possiamo soffermarci sulle differenze.

Grien vive in un periodo turbolento, caratterizzato da scontri religiosi che sconvolgono gli stati tedeschi. L’artista si inserisce in un filone che viene denominato arte della riforma in cui le opere si caricano di una forte carica morale. 

Nel dipinto possiamo notare due strumenti, un liuto e una viola da braccio, e un putto che tiene tra le gambe uno spartito. L’opera, che a prima vista potrebbe sembrare di matrice puramente classica, nasconde in realtà un significato più profondo.

Sullo sfondo, attorcigliato al tronco di un albero, possiamo notare un serpente, nella cristianità simbolo per eccellenza del male e della corruzione. A questo punto, vista anche la presenza di un Cigno (che potrebbe rimandare alla seduzione di Leda ad opera di Giove) potremmo vedere nell’opera una critica negativa alla musica profana, tematica molto in voga nella patria dell’artista.

Diverso invece è il caso del nostro connazionale Tiziano Vecellio che ci propone un’opera dal titolo Venere con Organista e Cupido.

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Tiziano Vecellio, Venere con Organista e Cupido, 1540-1550

Anche quest’opera riprende un soggetto classico: la Dea della bellezza nuda distesa su un letto.

L’italiano però rispetto all’iconografia più tradizionale inserisce un musicista, abbigliato con indumenti del 500 e armato, che osserva quasi con desiderio il corpo di Venere.

Nelle sue fattezze possiamo facilmente riconoscere Filippo II, committente dell’opera.

Tiziano riesce a fondere alla perfezione il tema classico alla sua realtà inserendo nell’opera un giardino rinascimentale, carico di riferimenti simbolici.

Ma la musica entra anche nei quadri spiccatamente religiosi.

Antiveduto della Grammatica nella sua opera Santa Cecilia rappresenta la donna intenta a a suonare un organo, mentre sullo sfondo, in penobra, un angelo la ascolta rapito.

 

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Antiveduto Della Grammatica, Santa Cecilia, Olio su tela, 1611

Alle spalle della santa possiamo anche scorgere un violino e un liuto poggiato su un tavolo.

Il fatto che la santa stia suonando proprio un organo non è casuale dal momento che, secondo la tradizione, sarebbe stata proprio lei ad inventare questo strumento.

Inoltre il suo essere circondata da strumenti è dovuto al fatto che Santa Cecilia è, per la fede cristiana, la patrona della musica degli strumentisti e dei cantanti.

Ma andiamo a vedere un quadro pensato per essere esposto in un monastero situato a meno di cinquanta chilometri da Madrid: L’Adorazione dei Pastori di Juan Bautista Mainò. 

 

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Maino Juan Bautista, Adorazione dei Pastori, olio su tela, 1610 ca.

Nell’opera, che riprende la natività secondo il Vangelo di Luca, vengono rappresentati un gruppo di pastori e di angeli che venerano il bambino, appena nato. Il dipinto si articola su tre livelli e in quello inferiore, più vicino allo spettatore, possiamo notare un pastore intento a suonare.

In questa tela possiamo notare non solo l’influsso di Caravaggio ma anche quello di El Greco, che operava proprio a Toledo.

Ma la musica si inserisce con naturalezza anche nelle rappresentazioni dei paesaggi e della vita quotidiana. L’opera di Brueghel il Vecchio, Matrimonio in Campagna, ci fornisce uno spaccato su quella che era la vita nel primo 1600.

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Jan Brueghel Il Vecchio, Matrimonio in Campagna, olio su tela, 1612 ca.

L’autore, nonostante voglia porre l’accento sulla processione nuziale, da una grandissima importanza al paesaggio che viene rappresentato con grandissima cura.

La musica, allora come oggi, alle nozze rivestiva una grandissima importanza e quindi Brueghel inserisce i musicisti proprio nella processione. 

Notiamo infatti un uomo con un tamburo che precede lo sposo (vestito di nero con il collare), mentre tre uomini armati di strumenti a corda separano il gruppo degli uomini da quello delle donne, dove possiamo notare la sposa (anche lei in nero).

Oltre a Brueghel sono molti gli autori che hanno deciso di trattare un tema simile, basti ricordare Teniers o Snyders.

Chiudiamo questa carrellata con uno degli artisti più presenti al museo del Prado: Francisco de Goya y Lucientes.

Nonostante molti lo conoscano per opere cupe come Saturno che divora i suoi figli o Il sonno della ragione genera mostri, nel corso della sua lunga vita Goya ha attraversato diverse fasi influenzate dal suo vissuto personale, dagli artisti con cui è entrato in contatto e da una sorta di dualismo tra sentimenti e ragione.

Analizzeremo qui un’opera appartenente a quella che spesso viene definita la maniera chiara,         , confrontandola con un dipinto di suo cognato Ramon Bayeu y Subias.

In questa prima fase Goya prende spunto da persone comuni e dal folclore spagnolo e i suoi dipinti sono caratterizzati da colori chiari e da una sorta di spensieratezza.

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Francisco de Goya y Lucientes, Un uomo cieco suona la chitarra, olio su tela, 1778

In Un uomo cieco suona la chitarra Goya rappresenta uno straniero il cui ruolo è quello di spostarsi di città in città  portando notizie. In quest’opera possiamo notare anche altri personaggi come il nero, il cui ruolo tradizionale era quello di vendere acqua, il venditore di meloni e e il pescatore.

Nell’opera di Bayeu, Il musicista cieco, l’uomo è accompagnato da un ragazzo che gli fa da guida e lo aiuta a richiamare l’attenzione, grazie anche all’aiuto di un cagnolino.

 

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Ramon Bayeu y Subias, Il cieco con la chitarra, olio su tela, 1786 ca.

Nonostante il soggetto trattato sia il medesimo le due opere si discostano molto per la struttura, i colori e la composizione. L’opera di Goya ci restituisce uno spaccato della società spagnola mentre quella di Bayeu y Subias sembra quasi essere inserita un contesto pastorale.

Concludo qui il mio racconto sul Museo del Prado e lo faccio prendendo in prestito le parole di un grande artista, Pablo Picasso:

L’arte scuote dall’anima la polvere accumulata nella vita di tutti i giorni.

Questo è lo stesso compito che assolve la musica.

Nella vita frenetica e quotidiana di oggi spesso non troviamo il tempo di entrare in un museo, di soffermarci ad osservare un quadro, di godere della catarsi che certe opere sono in grado di offrirci. Spesso però la musica può sopperire a questa mancanza.

Musica e pittura sono due arti gemelle che vanno di pari passo, quando queste due si incontrano non possono che nascere opere importanti, in grado di toccare le corde della nostra anima

Laura Losi

FABER NOSTRUM | Una Recensione

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FABER NOSTRUM

Una Recensione

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Il musical e l’Italia: School of Rock

•Quando il teatro diventa una scuola per passato e futuro•

 

Ho una tradizione a cui non posso proprio rinunciare, quando faccio tappa nella bella Firenze: gustarmi una doverosa cena a base di specialità toscane. 

Dentro quella roba c’è il senso della vita, amici miei. 

Guarda caso l’osteria di fiducia si trova proprio davanti alla mia meta, il Teatro Verdi di Firenze.

Il cameriere, ormai fidato, è sbigottito quando ammetto di non esservi mai entrata così, offrendomi il dessert, mi avverte sogghignando: “te lo dico, desidererai tornare indietro nel tempo per indossare un abito tutto luccicante, con orecchini di perle ed il libretto della tua opera preferita in mano. Entrando, ti renderai conto che il Verdi offre, già di per se, uno spettacolo in tutto e per tutto”.

Buono a sapersi; dovrò davvero scegliere tra il mio chiodo di pelle ed un vestito da Charleston?

In effetti il Teatro Verdi citato anche da Collodi nel classico Pinocchio è un tripudio di raffinatezza e fastosità, una location che farebbe perdere la testa a qualsiasi fan di Downton Abbey, me compresa.

Per questo è così dannatamente splendido ed inaspettato trovarlo brulicante di un pubblico formato da tantissimi bambini, che scorrazzano senza sosta tra le seriose poltroncine di velluto rosso. 

Questa sera, infatti, saranno proprio loro i veri protagonisti dello spettacolo, poiché di bambini si racconta: bimbi pronti a dire la loro, che agli adulti piaccia o meno.

Lo School of Rock diretto da Massimo Romeo Piparo è, infatti,  la storia del rockettaro incallito Dewey Finn (personaggio cucito addosso a quel mattacchione di Jack Black per l’omonimo film diretto da Sam White e riscritto per Broadway dal maestro del musical Andrew Lloyd Webber).

 

foto gruppo SOR Antonio Agostini min
Il cast del musical sul palco

 

Finn per sbarcare il lunario si ritrova ad ingannare il sistema fingendosi un insegnante per una delle scuole più prestigiose del paese, la Horace Green Alma Mater. Nel costatare quanto i suoi giovanissimi alunni siano davvero dei tipi tosti, Dewey  insegnerà loro l’unica cosa che abbia mai conosciuto e amato davvero: il rock, ovviamente. 

Scoprendoli incredibilmente portati per la musica formerà una band, chiamata School of Rock, e l’iscriverà alla battaglia delle band. 

I giovani musicisti apriranno il loro cuore al rock, stanchi di aver a che fare con genitori rigidi, assenti e incapaci di ascoltare le loro passioni e necessità, riconoscendo in quel buffo ometto del Signor Dewey uno sgangherato mentore, del tutto differente da qualsiasi altra persona adulta mai incontrata nella loro vita.  

Lo spettacolo è senza dubbio un grandioso inno al rock, che cambia pochissime carte in tavola rispetto all’omonimo film del 2003 ed è un piacere applaudire, ancor prima che il sontuoso sipario si apra, alla super band dal vivo che, ai piedi del palco, è già agguerrita e pronta a scatenarsi tra i brani originali ed i classici del rock che compongono la colonna sonora di School of Rock.

 

Matteo Guma e Lillo Petrolo min
Il cast in scena.

 

Le scenografie dimostrano immediatamente d’essere quelle di una capace e sapiente produzione, per nulla mancante rispettò ai cugini del West End.

Grazie ad istallazioni mobili curate nei dettagli, gli autori riescono a trasportarci nelle numerose location dello spettacolo: la caotica e sciatta camera da letto di Dewey, la sala prove incredibilmente convincente  e, vero fiore all’occhiello del reparto scenografico, la splendida Horace Green che sarà teatro di una vera rivoluzione, capitanata dai giovani e brillanti protagonisti.

Lo spettacolo prosegue ed il pubblico, abituato fino a quel momento alla vita scapestrata ed al mondo tutto pane e rock ‘n’ roll di Dewey, ha bisogno di qualcosa che lo ponga davanti alla dura realtà: non sarà facile ingannare la Horace Green dove regnano disciplina e contegno.

Con un brano che, in mezzo a tanti straordinari momenti di vero rock,  merita una menzione speciale per aver portato sul palco la  potenza della tradizione: insegnanti e studenti ci accolgono nella sala grande offrendoci una dimostrazione corale davvero emozionante, che ha il gusto del musical classico. 

Il contrasto tra la verve della nuova e vecchia Broadway e l’irriverenza del rock  è rafforzato dalle citazioni, più o meno evidenti, di spettacoli rappresentativi come Wicked, Annie, Matilda e Cats. 

Dopo un crescente susseguirsi di numeri che inneggiano al più sfrenato hard rock, entriamo nel vivo della rivoluzione con il brano melodico Se Solo Mi Ascoltassi, dove i piccoli rockers esternano tutto il loro dolore nel capire ogni giorno di più quanto i loro genitori, assuefatti dalla frenetica routine, non siano in grado di comprendere ed incoraggiare i loro sentimenti e sogni. 

Questo dovrebbe essere il momento “strappalacrime”, così viene chiamato nel musical e, data l’intensità trasmessa dalle voci, dagli occhi e dalle gestualità dai ragazzi lo sarebbe, se non fosse per la proiezione alle loro spalle, che va a sostituire l’asettico sfondo nero delle produzioni straniere. 

Difficile ammetterlo, ma la commozione e l’empatia sono totalmente smorzati da questo screensaver, caratterizzato da fiori e farfalle, un po’ pacchiano. La scelta  a noi non è piaciuta.

Niente panico, perché sul finale entra in scena il meta-teatro. 

Con un riuscitissimo espediente drammaturgico, il pubblico del teatro Verdi si trasforma in quello della battaglia delle band che, totalmente impazzito per lo spettacolare concerto interamente suonato dal vivo dai ragazzi canta, balla e salta, posseduto da quella frenesia che solo il dio del rock può regalare.

 Il risultato è la vittoria indiscussa  dei ragazzi con il brano The School of Rock.

La scelta di Pasquale Petrolo, in arte Lillo, per il personaggio di Dewey è inaspettatamente assennata, praticamente perfetta. 

 

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Pasquale Petrolo, in arte Lillo.

 

Inizialmente, alla vista della locandina dello spettacolo dal titolo Lillo – School of Rock la reazione non è stata del tutto positiva.

E’ lecito storcere il naso con pregiudizio quando un personaggio famoso come Lillo viene lanciato nella mischia di un progetto che non tratta propriamente il suo campo, con il solo apparente scopo di raccogliere audience da parte di un pubblico italiano troppo confuso e rinunciatario quando si tratta di musical. 

Si è portati a pensare che, nonostante le tante abilità e la grande esperienza che Lillo ha maturato nel mondo dello spettacolo, sarebbe più appropriato affidare una parte così significativa ad un performer che, per anni ed anni, ha dedicato la sua formazione in quel particolare ramo dello spettacolo che è il musical. 

Molti attori, ormai, vengono sacrificati a causa della volontà delle produzioni di inserire nel cast un famoso specchietto per le allodole. 

In questo caso però, dobbiamo ammetterlo, Lillo convince e conquista.

Occorre dimenticarsi delle performance di Jack Black e del suo “sostituto” nella produzione di Broadway, Alex Brightman: artisti dal carattere tanto esuberante quanto invadente. 

Un Lillo evidentemente emozionato, preparato nel suonare la chitarra, cantare e ballare, con la direzione di Piparo plasma il personaggio di Dewey a sua immagine e somiglianza, rendendolo meno seccante, più bonario, ma ugualmente capace di creare quel contrasto stilistico e generazionale tra il professore e gli studenti.

Già, gli studenti. Quel palco è totalmente ricoperto da quegli splendidi diamanti di talento che sono i ragazzi dell’Accademia Musical Sistina: appassionati, sensazionali, dinamite pura. 

 

foto gruppo Marco Rossi min
I piccoli protagonisti.

 

Cantando, suonando e ballando rigorosamente dal vivo, reggono lo spettacolo sulle loro giovani spalle, svalicando di gran lunga il qualificatissimo cast degli adulti e conquistando i cuori degli spettatori che, grandi o piccini, sono rapiti dall’improvvisa voglia di fare headbanging alzando con fierezza il calice del rock.

Una storia, quella di School of Rock, assolutamente perfetta per il pubblico italiano, poiché capace di trasformare un intero teatro in una scuola per passato e futuro. 

Siamo tutti inevitabilmente alunni quando si tratta di imparare dai nostri errori e quei ragazzi la, sul palco, sono insegnanti pronti a gridare che niente e nessuno deve frapporsi tra loro e la realizzazione di un sogno.

Il rock è una filosofia, uno stile di vita, questo spettacolo lo racconta perfettamente” afferma Lillo “Dewey non vuole proprio diventare una rock star, vuole solo essere libero di vivere rock. Il rock è farsi sentire, non abbassare la testa, è musica legata alla ribellione. Sono proprio i volumi alti del rock che ti portano a dire “Ascoltami!”, che è quello che vogliono i bambini della storia. Il rock è stato fondamentale per generazioni.”

Si percepisce fortemente, da parte di School of Rock e di quello che rappresenta, la grande volontà di trasmettere un messaggio potente a quei genitori che non trovano nella strada del musicista o del performer una valida alternativa a qualsiasi altro lavoro per il proprio figlio, perché di questo stiamo parlando. 

In Italia una carriera nel mondo dello spettacolo è troppo spesso sminuita, derisa, molto di più che nel resto del mondo, vi assicuro. 

Il pubblico italiano è così rapito da School of Rock perché tocca le corde giuste. Ci sentiamo chiamati in causa, proviamo empatia, ci affezioniamo e, alla fine, la speranza prende piede, rimanendoci aggrappata anche usciti da teatro, nonchè nei giorni successivi, mettendo profonde radici.

Ho passato il post show dietro le quinte con i ragazzi del cast ed è stato incredibile rendersi conto della devozione dei genitori (quelli veri) per la passione e la professionalità dei loro figli. 

 

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Questa sono io nel dietro le quinte con il cast.

 

Questo, è il caso di dirlo, è quello che vogliamo per le generazioni future: un mondo dello spettacolo sostenuto dalla società, un mondo dove gli artisti, quelli veri, avrebbero la possibilità di trovare la loro strada, senza il costante timore d’essere sottovalutati, maltrattati e di non essere ascoltati. 

La pagella di School of Rock è piena di bei voti, non perdetevi le prossime date!

Valentina Gessaroli