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ReCover #3 – The Rolling Stones “Their Satanic Majesties Request”

• All’ombra dei cuori solitari •

 

Dopo le crisi esistenziali causate dai precedenti album ho deciso di dedicare il terzo numero di questa rubrica ad un album del 1967, che con i suoi colori e la sua atmosfera spensierata ci aiuta a smorzare la tensione del periodo natalizio (non mentite, so che anche voi elfi di Babbo Natale siete sull’orlo di una crisi di nervi): sto parlando dell’album più incompreso e forse meno amato dei The Rolling Stones: Their Satanic Majesties Request.

Già dal titolo possiamo coglierne una dichiarazione d’intenti, che nel caso degli Stones è sempre provocatoria ed irriverente.

La giovanissima band si lasciò candidamente ispirare, trasportare e avvolgere dalla psichedelia — e dal successo — di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles, il celebre capolavoro della band che nello stesso anno fece il boom di incassi.

In ogni fiaba che si rispetti c’è un antagonista che si oppone alla figura dell’eroe, ed ecco che i Rolling Stones erano perfetti per interpretarne la parte, in contrapposizione all’immagine candida dei Beatles.

Probabilmente fu anche a causa di questa narrazione conflittuale tra le due band, costruita ad hoc dai media, che TSMR venne visto come un tentativo fallito di rincorrere Sgt. Pepper.

Ma la realtà era ben diversa: la stampa continuava a dipingere la relazione tra i due gruppi come aspra e conflittuale, i ribelli contro i bravi ragazzi, e la gente ci credeva: per cui gli Stones stanchi della situazione decisero di comunicare tramite la cover come stavano le cose. 

Nascosti tra i fiori di TSMR ci sono i volti dei Beatles, come nel vestito della bambola di Shirley Temple nelle cover di Sgt. Pepper possiamo leggere “Welcome The Rolling Stones”: era il loro modo di esplicitare al pubblico con un dialogo silenzioso il profondo rispetto che provavano a vicenda.

Ulteriore prova ne è il brano Sing This All Together in cui possiamo sentire le voci di John Lennon e Paul McCartney.

E così dalle pennellate nere con cui Mick Jagger solo l’anno prima voleva ricoprire qualsiasi cosa passiamo ad un arcobaleno di colori accecanti e piuttosto acidi, conditi con una bella dose di esoterismo. 

La prima cosa che fa storcere il naso di tutti è la copertina: una copia spudorata? O semplicemente gli Stones vogliono fare il verso ai loro acerrimi nemici? 

La prima proposta per la cover (Mick Jagger nudo su una croce) venne scartata dalla produzione perché di cattivo gusto, ma evidentemente lo spirito kitsch era alla base di questo album: non solo interpretarono l’ispirazione lisergica in maniera del tutto sopra le righe, ma rimasero coerenti all’eccesso anche dal punto di vista visivo.

Infatti gli Stones optarono per contattare Michael Cooper, il fotografo che si occupò della celebre foto di copertina di Sgt. Pepper e gli chiesero di fare qualcosa di simile.

Il design del booklet è opera di Michael Cooper: all’interno troviamo un labirinto con al centro la scritta “It’s Here” che, riferita al titolo, risulta irraggiungibile se si prova a percorrerlo; lo circonda un densissimo collage fotografico che contiene dozzine d’immagini fra le più disparate, dai dipinti di Poussin a ritratti indiani, fiori e mappe.

La quarta di copertina fu invece affidata all’illustratore Tony Meeuwissen, che raffigurò i quattro elementi all’interno di una cornice.

Per quanto simili le due copertine vennero realizzate con uno spirito opposto: se i Beatles non fecero altro che posare in un set rifinito di tutto punto e in tre ore andarono via, i Rolling Stones lavorarono fianco a fianco col fotografo, occupandosi persino di andare a comprare i costumi e costruire il set, come testimoniano le foto di reportage che scattò Cooper.

Fu proprio lui a proporre la copertina 3D della prima versione, proprio per fare uno step oltre il suo lavoro precedente.

Una delle poche attrezzature per il 3D stava a New York per cui dovettero tutti trasferirsi negli States, aumentando ancor di più i costi di produzione che già erano piuttosto elevati, tant’è che finirono per lanciare 500 copie in edizione limitata che finirono tra amici e parenti: se inclinata, l’immagine lenticolare mostrava le facce dei membri della band che si girano l’una verso l’altra, ad eccezione di Jagger che posa con le mani incrociate sul petto aprendole nell’animazione. 

Andiamo a concludere la narrazione di questa fiaba acida: TSMR non ebbe il successo sperato, i fan accolsero tiepidamente questo improvviso cambio di rotta e Mick Jagger stesso nel ‘95 rinnegò l’album considerandolo un esperimento fallito, di cui si salvano solo due canzoni e il resto è privo di senso.

Alla classica domanda “Beatles o Rolling Stones?” ho sempre risposto coi primi, anche solo perché il fatto di averli approfonditi di più, ma in questo caso faccio un’eccezione: di fronte alla grandezza mastodontica di Sgt. Pepper nutro un affetto particolare per Their Satanic Majesties Request, che rimane un tassello importante della storia della musica. Mi piace pensarlo come una lunga e caotica jam session, una piccola parentesi liberatoria in un momento in cui le vicende personali si intrecciavano ad un periodo storico piuttosto movimentato: a tutta questa complessità l’unica reazione giusta sembrava la libertà di espressione.

E così, con la mia illustrazione ho voluto omaggiare questa piccola pausa dal blues prolungandone la jam session coi miei strumenti.

 

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Cinzia Moriana Veccia

0774: l’esordio di Puertonico accorcia le distanze tra Roma e Milano

Come suonerebbe una cena a base di spritz e carbonara? Suonerebbe esattamente come il primo EP di Puertonico 0774. Di origini romane e milanese d’adozione, riesce ad intrecciare queste due diverse realtà e realizzare un lavoro del tutto originale e personale: i suoi testi sono infatti un colpo alla pancia, espressivi e che arrivano dritti al punto senza troppi giri di parole. Il tutto è poi condito con un sound hip hop/r&b che smorza il cantato e rende i pezzi godibili e leggeri già dal primo ascolto.

Anche se oggi lo sentiamo cantare “ya ya ya” tra una barra e l’altra, Nicolò si porta alle spalle un passato nell’alternative rock con il suo ormai ex gruppo, i Blooming Iris. Il totale cambio di genere diventa quasi una sindrome di Zelig, dimostrandoci tutta la sua capacità di essere un artista camaleontico. 0774 è fuori da poco tempo, pubblicato con Thaurus Publishing e pronto per girare nelle nostre playlist di Spotify.

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere per farci raccontare qualcosa di più sul suo progetto e cercare di rubargli qualche anticipazione.

 

Compresa la tua esperienza passata con i Blooming Iris, sono ormai più di dieci anni che sei nella scena, diciamo che non sei più di “primo pelo”. Raccontaci: cosa è cambiato da quando lavoravi ai pezzi col tuo gruppo a quando hai deciso di uscire come solista?

“La risposta sembrerà strana, ma è cambiato molto poco! Devo ringraziare gli anni passati in saletta con i Blooming, perché sono stati alla base della mia formazione musicale. Ho imparato a collaborare, arrangiare, scrivere parti per strumenti, cantare quando hai volumi altissimi nelle orecchie, sapere cosa serve dal vivo e in studio. L’approccio è cambiato perché negli anni inizi a conoscerti, capisci cosa vuoi dire e in che direzione vorresti portare la tua musica. La più grande differenza nel lavorare da soli l’ho riscontrata sicuramente nella maggiore velocità “decisionale”, anche se non è detto che le decisioni che prendi da solo siano le migliori. Per questo amo condividere la musica con gli amici che mi conoscono da tanti anni per avere feedback onesti e costruttivi.”

 

Prendersi un attimo per ascoltarsi il tuo EP in cuffia è come catapultarsi in uno dei primi videoclip di Usher con qualche “ya ya ya” che ti tiene incollato al 2019. Hai qualche artista di riferimento?

“Non ho artisti di riferimento. Sono affezionato a quello che da bambino stimolava la mia immaginazione, sia a livello visivo che sonoro. Cerco di mischiare queste suggestioni con ciò che amo della nostra epoca. Sono sempre alla ricerca di suoni stimolanti, sfidanti, che possano portare la mia visione un passo avanti. Per tenere vivo questo fuoco, lascio che siano le persone attorno a me ad ispirarmi.”

 

Il naturale bisogno di sfogare sensazioni pesanti accomuna tutti i tuoi testi e li rende autentici, mentre le sonorità orecchiabili pop aiutano poi a smorzarli e li addolciscono. Citandoti: “questo inchiostro è oro e mi salva dall’odio”, è così che nascono i tuoi testi?

“Nell’ultimo periodo devo dire che è stato così. La scrittura ha avuto un ruolo terapeutico, scrivere certe cose è stato complicato, perché mi sono scoperto molto. Quando cerchi la tua identità devi passare attraverso degli step, 0774 lo è, non so cosa avrò bisogno di raccontare o sfogare prossimamente, ma per suonare autentico dovrà farmi male ogni volta come la prima.”

 

Dai Blooming Iris a 0774 c’è un notevole salto di genere: si va da un alternative più impegnativo che strizza l’occhio agli Incubus a un sound pop e radiofonico. Quanta rincorsa hai preso prima di saltare?

“Tantissima! È stato un processo veramente lungo, soprattutto perché fino a qualche anno fa scrivevo in inglese e mai avrei immaginato di cantare in italiano. Ho attraversato una serie di fasi costruttive e distruttive che mi hanno portato ad avere la consapevolezza che ho oggi e penso che me ne aspetteranno tantissime altre!”

 

Tra Roma e Milano non ci sono solo cinquecento chilometri di distanza e qualche carbonara in meno, ma sono città che rappresentano due modi di vivere diversi. Come riesci a far coesistere queste due realtà e come influiscono sulla tua musica?

“Bella domanda, me lo chiedo spesso. La differenza tra le due città è abissale, hanno entrambe un impatto profondamente diverso su ciò che faccio, per modalità, vibe e altre mille cose. Diciamo che sto riuscendo a far coincidere aspetti molto eterogenei della mia personalità in ambienti che riescono a darmi sempre stimoli differenti e lontani.”

 

Solitamente quando si promuove un disco si pubblicano tante foto in posa e ci dimentichiamo di parlare di quanta fatica e sudore possano esserci dietro. Com’è stato per te far nascere questo EP? Hai lavorato solo o sei stato affiancato da qualcuno che ti ha aiutato con la produzione?

“È stato molto faticoso, per questo bellissimo. Ho lavorato da solo sia alla scrittura che alla produzione dei brani, è stato un processo molto intenso ma naturale. Si sono allineati gli astri e mi sono fatto trovare nel posto giusto al momento giusto. Devo ringraziare gli amici che hanno collaborato con me nella fase conclusiva del progetto per poterlo narrare al meglio, graficamente e sonoramente.”

 

Ho iniziato da qualche giorno a seguirti su Instagram ed ho subito notato come cerchi di coinvolgere chi ti ascolta nel tuo progetto: quanto è importante per te il rapporto con il pubblico e la promozione tramite i social?

“Penso che per un artista indipendente sia importante stabilire un contatto con il pubblico. Nonostante la tecnologia, i social ecc. l’arte è ancora fatta di persone e mi piace poter dialogare, coinvolgere. Lo faccio molto anche nei live, non riesco a farne a meno.”

 

Immagino che usciranno presto alcune tue date e siamo curiosissimi di sentirti e di scoprire il tuo live set! Sarai solo sul palco o qualcuno lo dividerà con te?

“Sto preparando due tipi di live set, uno da club e uno più soft, che sto iniziando a portare in giro. Sul palco non sarò solo, non lo trovo divertente, ma non posso sbilanciarmi più di così, altrimenti vi rovinerei la sorpresa!”

 

La tua poliedricità ti lascia carta bianca: aspetto di lasciarmi stupire o puoi farmi qualche anticipazione sui prossimi progetti?

“Sto scrivendo tantissimo, ho un sacco di canzoni che non vedo l’ora di far uscire, in più posso dirti che ho avviato un progetto con due amici conosciuti quest’anno e fra poco potremmo condividere il risultato della nostra collaborazione!”

 

Non ci resta che augurarti il meglio. Meno Ricky Martin e più Puertonico!

 

 

Sophia Lippi

Report Criminali

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P0P presenta:

 

Report Criminali

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Un report alternativo del concerto di Massimo Pericolo, Speranza e Barracano presso il Teatro della Concordia Venaria Reale di Torino del 21 Novembre 2019.

 

Un grazie di cuore a Shining Production

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Subsonica, diciamoci la verità: c’era davvero bisogno di Microchip Temporale?

I latini dicevano “ubi maior, minor cessat”, una frase che dovremmo ricordare sempre e che potremmo tradurre con “laddove ci sono i grandi, lì cadono i piccoli”. Ecco, quando ho ascoltato per la prima volta Microchip Temporale, il rifacimento in featuring con i grandi nomi della nuova scena per l’anniversario dell’arcinoto Microchip Emozionale, dei Subsonica, quella è stata la prima frase a venirmi in mente. Non un grande inizio, insomma, ma andiamo per ordine.

Quando nel 1999 è uscito Microchip Emozionale io avevo due anni, quindi va di conseguenza che questo album io l’abbia scoperto più tardi, capendolo e assimilandolo in una luce diversa ed estratto completamente dalla sua contemporaneità. Eppure l’ho amato dal primo ascolto, imparando sin da subito quale fosse stato l’impatto che un progetto come Microchip Emozionale aveva avuto sulla musica di quel periodo, cambiandola radicalmente.

Ecco, potremmo dire che esistono dei momenti di trasformazione e che questi momenti, talvolta, vengono sanciti da album. Microchip Emozionale e i Subsonica stessi sono stati esattamente questo: una sorta di incoronazione, uno spartiacque nella musica italiana. 

Insomma, per riassumere, Microchip Emozionale è stato e tutt’ora è, per moltissimi, una sorta di testo sacro. E i testi sacri non si toccano. Mai. 

Microchip Temporale è stato pensato come una sorta di album di duetti in cui gli ospiti sono quelli che ancora ci ostiniamo a definire i “nuovi” nomi della scena musicale, e che invece ne sono protagonisti da un bel po’, sia rap che elettronica che nel nuovo cantautorato. Quelli, insomma, che fino a qualche anno fa avremmo definito indie rap e che ora sono quelli che riempiono i palazzetti. In ordine di comparsa e senza bisogno di grandi presentazioni troviamo: Willie Peyote, Nitro, ComaCose e Mamakass, Elisa, Motta, Lo Stato Sociale, Coez, Cosmo, Achille Lauro, Ensi, FASK, Myss Keta e Gemitaiz. Un ventaglio di possibilità che avrebbe potuto davvero rendere quello che è stato un album di culto per la scorsa generazione, un album di culto per quella nuova, che sta scoprendo la faccia di Samuel sui banchi della giuria di X-Factor.

Partendo con queste premesse, posso dire che l’attesa di un progetto come Microchip Temporale è stata più curiosa che scalpitante per me, ma ero pronta a far sì che il genio (perché di genio si tratta) della band rivoluzionasse tutte le mie aspettative; che ribaltasse il risultato, per dirla alla Borghese. Così è stato perché io ero pronta ad arrabbiarmi, infastidirmi, aggrottare le sopracciglia e innamorami ancora di più grazie all’apporto di alcuni tra gli artisti che popolano maggiormente le mie playlist. Invece l’unica cosa che ho fatto è stato rimanere impassibile, sopportare un solo ascolto, skipparne alcune al secondo. Per farla breve, il giorno dopo, per me, eccetto alcune rarissime eccezioni, Microchip Temporale non era mai esistito.

Perché il grande difetto di questo progetto è che strizza troppo l’occhio alle nuove generazioni, ma poi effettivamente non lo fa abbastanza. Gli ospiti del disco, invece di regalare qualcosa di nuovo e superarsi, danno la spintarella che non ti sposta granchè, non ti fa volare, una via di mezzo.

Certo le mie aspettative erano molto alte, tanto che il confronto con il precedente muore nel momento stesso in cui viene fatto. La mia apertura mentale in questo caso si riduce per affetto, ma la verità è che le aspettative dovevano essere troppo alte, il confronto doveva essere vincente e queste chiusure mentali dovevano essere distrutte e spalancate al primo ascolto. In questo progetto bisognava osare al massimo, usare la massima reverenza, esattamente come si fa nei confronti di un capolavoro, non utilizzare soltanto questo remake per rilanciare l’immaginario di una band sull’onda dell’attenzione televisiva. 

Ammetto che ci sono dei momenti di grande bellezza, in particolare grazie a Motta a cui viene affidata Tutti i Miei Sbagli, che riesce a rendere il manifesto di una generazione ancora più grande, ancora più bello. Inoltre, grazie a Cosmo, che si consacra ancora come il Dio indiscusso dell’elettro pop, Disco Labirinto rinasce completamente. Giusta Myss Keta che in Depre si trova nella sua comfort zone e che alla fine si porta a casa in scioltezza un brano adatto a lei e chapeau anche per i Fast Animals and Slow Kids su Albe Meccaniche, la voce di Aimone regala quel quid in più.

Grande delusione per Willie Peyote (il cui talento e la cui capacità espressiva non vengono qui messe in discussione) che, dopo un tour con la band, in Sonde rende molto meno delle aspettative. Per gli altri rapper ci si aggira intorno alla sufficienza, a volte risicata. Non fanno gol nemmeno i Coma Cose, Lo Stato Sociale e – per assurdo – Coez, nettamente surclassati dall’imponenza delle canzoni.

Microchip Temporale è un album da sufficienza, sufficienza che c’è tutta, non fraintendetemi. Certo che la sufficienza, quando viene presa dal più bravo della classe, alimenta più delusione di un due e alla fine quello che torna è che forse tutti avevano una paura reverenziale nei confronti di questo gigante, tanto che, stavolta, su Davide ha vinto Golia. Forse, ancora, ricordavamo troppo bene il capolavoro e questo rifacimento resta troppo abbozzato. Quello che sappiamo per certo è che se questo album doveva rubare il posto al suo genitore ovvio,  non ce l’ha fatta. Perché non toglie, certo, ma non da’ quanto dovrebbe. E noi, dai più bravi della classe, volevamo la lode.

 

Mariarita Colicchio

 

Visual Journal vol.3: Spinelli

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• Spinelli @ Serraglio (Milano) // 16 Novembre 2019 •

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Questo mese abbiamo deciso di parlarvi di un nostro amico, Spinelli.

Siamo stati alla terza serata del Culture Club al Serraglio, in cui il primo a salire sul palco è stato proprio Marco Spinelli, accompagnato dal suo immancabile batterista Emanuele Farina.

Con due singoli già fuori, Non Ti Vedo Più e Dopo Una Vita, Spinelli è entrato da poco nella scena indie italiana; prima di essere un cantautore, però, è un videomaker a tutti gli effetti e, ispirandosi a registi come Xavier Dolan e Wes Anderson, cerca di mettere questa sua passione per il cinema anche nella sua musica, realizzando video musicali con una fotografia perfetta e dalla narrazione fantastica.

Il 3 dicembre uscirà il suo nuovo singolo, Paradosso, che possiamo già dirvi essere la vostra prossima nuova canzone indie preferita.

Spotify: link
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Testo e Foto: Elisa Hassert

 

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La riscoperta del territorio come forma di creatività

La Linecheck Music Week ha offerto la possibilità di assistere a panel di approfondimento senza dubbio unici e in grado di mostrare prospettive nuove sul mondo musicale.

Uno di questi è stato l’incontro avvenuto sabato 23 Novembre in una delle learning rooms di BASE Milano, il cui tema è stato il turismo culturale e la costruzione di una comunità come occasioni per rilanciare un territorio. A intervenire alla discussione, moderata da Alessandra Di Caro di Butik, erano presenti Maurizio Carucci, cantante degli Ex-Otago, con la sua compagna Martina Panarese, proprietari di Cascina Barban e promotori del Boscadrà Festival, Daniela Frenna di Farm Cultural Park e Federica Verona del Festival delle Periferie di Milano.

Il focus del panel era volto a comprendere come poter riqualificare meglio una zona geografica tramite attività culturali capaci di coinvolgere gli abitanti e non solo. A tal proposito sono degli ottimi esempi quelli portati da Daniela Frenna e Federica Verona. La prima si occupa di Farm, una vera e propria galleria d’arte e residenza per artisti situata a Favara, in provincia di Agrigento. È il risultato del recupero di un quartiere fortemente colpito dalla criminalità e dall’abbandono sociale, in cui si è inserita una realtà nuova, con l’obiettivo di raggiungere una rigenerazione urbana. Il luogo è caratterizzato da una serie di edifici collegati tra loro in cui sono ospitati workshops, installazioni e attività di vario tipo pensate anche e soprattutto per i giovani. Dopo alcune diffidenze iniziali il progetto si è rivelato vincente portando un ottimo flusso turistico nel paese, favorevole per l’indotto economico.

Simile è ciò che è accaduto con il Festival delle Periferie di Milano, nato con la speranza di dare voce alle zone più periferiche e marginali della città, permettendo uno scambio di prospettive, idee e influenze tra coloro che ci abitano grazie a eventi interdisciplinari. I promotori del festival hanno girato per due anni Milano quartiere per quartiere, intervistando i residenti e scoprendo una grande varietà di storie troppo spesso ignorate. Il tutto in un’ottica che possa far ragionare sul tema della gentrification, sempre più d’attualità.

Maurizio e Martina hanno raccontato della loro esperienza di agricoltori e produttori di vino in una realtà come quella della Val Borbera, in Piemonte, al confine con la Liguria, dove si sono trasferiti da Genova, loro città d’origine, una decina di anni fa. In Val Borbera non sono presenti infrastrutture moderne e si respira un’atmosfera ancora piuttosto rurale, che permette loro di mantenere il contatto con la gente del posto. La cascina in cui vivono è appunto la Cascina Barban, che nel corso del tempo ha spinto in maniera significativa per una riscoperta della lentezza tipica della vita quotidiana sull’Appennino. Maurizio ha posto un’interessante riflessione, secondo cui bisognerebbe ripensare a cosa si intende per “tutto” e “niente”, dato che molto frequentemente ai due termini viene attribuito un significato univoco ben preciso, che, però, può essere rimodulato. Per portare avanti questa idea il cantautore ha così promosso la realizzazione di un documentario di prossima uscita, intitolato Appenino Pop, con il desiderio di mostrare il grande numero di meraviglie naturali e di sentieri presenti in Val Borbera, valorizzando una zona d’Italia dimenticata e sottovalutata in molti casi. A tutto questo si aggiunge il Boscadrà Festival, organizzato dalla coppia il primo fine settimana di Luglio ogni anno dal 2012, da loro definito come “festa rurale”, dove i loro ospiti si riuniscono per stare insieme, bere buon vino e ascoltare la musica sotto le stelle immersi nella natura. Un’esperienza decisamente significativa che negli anni si è ingrandita sempre di più fino ad arrivare a quasi 1000 presenze nell’ultima edizione. Maurizio e Martina hanno sottolineato come la loro non sia stata una fuga volontaria dal mondo urbano, non rifiutano affatto la città, hanno semplicemente trovato un modo nuovo di affrontare la modernità, riscoprendo le cose semplici di tutti i giorni. Maurizio non ha dubbi nel considerare tale contesto favorevole per la sua creatività, la quale riesce ad essere maggiormente stimolata dal contatto umano più profondo e dall’assenza delle distrazioni talvolta eccessive tipiche delle metropoli. Molte canzoni degli Ex-Otago sono nate tra le pareti della Cascina, dove il cantante della band ha anche un piccolo studio casalingo attrezzato per la registrazione. Infatti, tutte le voci degli ultimi dischi le ha registrate lì, dimostrando, dunque, che vivere in provincia non sia necessariamente un fattore negativo per un lavoro come il suo.

Ascoltandoli parlare si ha la netta impressione che l’arte possa vivere ed essere florida ovunque si creda, basta soffermarsi sulla realtà con maggiore attenzione, cogliendo un possibile grado poetico in qualunque cosa. Significativa, allora, una frase di Maurizio, perfetta per sintetizzare l’idea alla base del panel: “In questi luoghi apparentemente non c’è nulla, ma proprio per questo forse c’è tutto.”

L’incontro è stato la prova che la musica e le produzioni artistiche non hanno vincoli spaziali e geografici, mettendo in luce un prezioso sguardo laterale. Insomma, come ogni anno il Linecheck si conferma essere un raccoglitore di prospettive non scontate e utili per immergersi nel mondo musicale con punti di vista inediti.

Filippo Duò

A EMERGO il live multisensoriale di Mr Everett

Mr Everett rappresenta un elemento di assoluta innovazione e diversità nel panorama italiano e non solo. La sua particolarità è quella di essere un progetto ibrido, dall’identità collettiva che sfugge alla tradizionale definizione di “band elettronica”, identificandosi piuttosto come live show performativo. 

Il concept alla base del progetto ruota attorno alla storia del cyborg Rupert e dei suoi compagni Mr Owl, Mr Fox e Mr Bear, Umanimals un po’ animali e un po’ umani. La compiutezza della loro proposta artistica si raggiunge prendendo parte ad un live: dal vivo sono in grado di creare un’esperienza audiovisiva, sensoriale e immersiva a 360°. L’interazione fisica di Rupert e il pubblico è uno dei momenti più forti e coinvolgenti delle performance. L’impianto scenico del progetto stravolge lo spazio del palco trasformandolo in una vera e propria dimensione parallela, tra il dancefloor del club e lo spettacolo audiovisivo completo di proiezioni, fumo e luci.

Il loro primo lavoro è l’EP Uman, del 2017, dalle sonorità sperimentali e internazionali, dove già possono scorgere i semi del futuro dei Mr Everett. Nel 2018 è uscito il primo album Umanimals, che ha portato avanti il loro racconto visivo e sonoro, ribadito in seguito anche nel nuovo brano Keep Breathing, ideale prosecuzione del disco. 

Il 27 novembre si esibiranno con Daykoda e Venerus nell’ultima giornata di EMERGO – Correnti per cambiare rotta, festival di installazioni, performance artistiche e musica che si terrà a Cesena nel corso di tutto il mese di novembre. EMERGO vuole dare la possibilità di organizzare attività culturali, di esplorare luoghi e spazi in apparenza decadenti o, al contrario, percepiti come inviolabili, un’attività intergenerazionale per cercare nuove rotte o, almeno, abbandonare un porto sicuro, non troppo al largo e guardando sempre il proprio faro. 

Per l’occasione abbiamo deciso di parlare un po’ con loro, approfondendo l’immaginario alla base del progetto e la loro personalissima idea di live. Ecco cosa ci hanno detto. 

 

Ciao, ci raccontate un po’ come è nato e come si è evoluto il progetto Mr Everett?

“Mr Everett è un progetto performativo a 360 ° che nasce dalla nostra idea comune di raccontare il rapporto tra umano, tecnologia e ambiente circostante (inteso come natura). Tutto è nato dalla macchina: il cyborg Rupert è stato costruito nel 2015 e da li tutto è cominciato. Mr Everett è figlio anche delle nostre esperienze pregresse nella danza, nella musica e nel teatro. Durante questi quattro anni di attività abbiamo collaborato con moltissimi artisti nei campi più disparati: dal design, alla danza contemporanea, all’illustrazione e persino la pittura. Come Mr Everett abbiamo sempre voluto far coesistere i numerosi input che ci dava il rapporto con la tecnologia.”

 

Il vostro immaginario visivo è senza dubbio di forte impatto, cosa lo ha ispirato?

“Gli immaginari visivi di riferimento sono numerosi, ma principalmente legati alle graphic novels: dai manga giapponesi come Ghost in The Shell, Neon Genesis e Akira, ai fumetti di Moebius e Dylan Dog. Non a caso in Umanimal – il nostro primo album – ogni pezzo è accompagnato da una tavola specifica, realizzata da Fabio Iamartino (in collaborazione con Grifo Dischi e Dischirotti), che rappresentava graficamente il racconto del brano. Durante i nostri live, i visuals, curati da Mr Bear sono parte integrante della storia: permettono a Rupert e gli Umanimals di ‘entrare’ in un ambiente diverso per ogni canzone.”

 

L’anno scorso, come avete anticipato, è uscito il vostro primo album, Umanimal, basato su un concept narrativo molto particolare, ce lo spieghereste?

“Umanimal contiene alcuni concetti che vorremmo comunicare come Mr Everett: il rapporto tra umano e natura, come quello tra umano e tecnologia, evitando di mettere l’uomo al centro. I brani parlano del viaggio di Rupert, un cyborg. In un mondo martoriato da un’umanità confusionaria e parassita, il cyborg Rupert viene inviato in un’altra dimensione per scoprire una via alla vita differente. Si risveglia qualche tempo dopo, incontrando gli Umanimals, suoi discendenti diretti, che decidono di riportarlo sulla terra. In questo viaggio Rupert ri-esplora se stesso, la natura umana e la natura terreste, tentando di capire il suo posto nel mondo.”

 

Ascoltando i pezzi è netta la prevalenza di un sound elettronico ma è possibile individuare anche molte varietà stilistiche, come avete lavorato in fase di produzione?

“Ci hanno definiti ‘post-club’: la nostra musica prende le atmosfere da club e le porta da qualche altra parte. Ogni brano ha una sua coscienza stilistica, che sicuramente si basa su delle sonorità elettroniche. Il lavoro è partito principalmente dalla voce, artificiale e umana. Mr Owl e Rupert comunicano con due vocalità apparentemente sconnesse, ma che si arrampicano l’una sull’altra. La maggior parte dei campionamenti che abbiamo utilizzato sono vocalizzi, originali e registrati. Allo stesso modo abbiamo cercato sonorità orientali, che richiamassero l’immaginario visivo dei manga come in Japanese Safari e Gamelan.”

 

Quali sono state le principali influenze sonore alla base del vostro lavoro?

“Numerose, chiaramente. La dolcezza pop di James Blake, la garage contemporanea dei Disclosure, così come FKA Twigs e The XX, dei quali abbiamo pubblicato una cover mash-up.”

 

È uscito da poco il nuovo singolo Keep Breathing: di cosa parla e come è stato realizzato?

“Keep Breathing è una sorta di saluto a Umanimal e un’apertura verso un nuovo corso di Mr Everett. Rupert è più introspettivo, nuota nel ‘wetware’, un ammasso di liquido e dati che rappresenta la sua mente confusa, e tenta di salvarsi continuando a respirare, tenendosi stretto alle cose che crede di sapere. Nel tempo non lineare di Mr Everett, Keep Breathing può trovarsi prima, dopo o persino durante Umanimal, non ha una collocazione storica precisa. Lo abbiamo mixato e masterizzato con Andrea Suriani, all’Alpha Dept Studio di Bologna, con il quale avevamo anche lavorato per Umanimal.”

 

La vostra forza è sicuramente il live: nei concerti create un’esperienza multisensoriale innovativa. Cosa volete comunicare al vostro pubblico?

“Nell’ottica di unione tra umano e altro, l’artista e il pubblico partecipano a Mr Everett. Il nostro viaggio non è soltanto musicale, come già detto, ma anche visivo e performativo. Rupert si muove tra il pubblico, balla con il pubblico e può essere persino suonato dagli spettatori. La danza, i visuals, la performance e la musica collaborano per rendere l’esperienza più coinvolgente.”

 

Quali sono i vostri progetti artistici per il futuro?

“Dopo quasi quattro anni di concerti abbiamo deciso di prenderci un periodo di pausa – uno stop dalle performance live, per ricaricarci e ricaricare Rupert. Non vogliamo svelare i piani futuri, per il momento preferiamo aspettare in silenzio.”

 

Il 27 novembre suonerete a Cesena in occasione del festival EMERGO. Cosa dobbiamo aspettarci da voi?

“Sarà l’ultimo live del 2019 e poi, come detto, ci prenderemo una meritata pausa. Siamo entusiasti di poter condividere il palco con due artisti speciali come Daykoda e Venerus, come siamo contenti di tornare a Cesena, dove abbiamo un rapporto duraturo con i ragazzi del Vista Mare che organizzano EMERGO. I nostri live sono sempre pieni di sorprese, quindi vedere per credere!”

 

Filippo Duò 

ReCover #2 – Pink Floyd “The Wall”

• Diario di un fallimento (?) •

 

Lavorare su un album come The Wall significa soffrire insieme a Pink, il suo protagonista. Una sofferenza che nel mio caso si è dilatata anche per la reinterpretazione della copertina.

Gerald Scarfe è un artista prolifico, in quanto nasce come vignettista e il suo tratto nervoso ne è la prova: graffia la carta creando personaggi folli, l’inchiostro diventa espressione di satira.

Scarfe non era affatto un fan dei Pink Floyd, fino a quando dopo averli visti in concerto a Finsbury Park nel ‘72 per il The Dark Side of the Moon Tour non se ne innamorò.

E così iniziarono a collaborare per video musicali, tournée e animazioni teatrali fino ad approdare a The Wall, il concept album più intimo di Roger Waters in cui si riversavano tematiche sull’isolamento e l’abbandono, e Scarfe sembrava essere la persona più adatta a dare vita all’universo visivo di The Wall creandone una mitologia ben precisa: abbiamo personaggi come la mamma, il maestro, l’ex moglie, il giudice, i martelli che abitano un paesaggio totalmente artificiale e oscuro.

Per contro la cover, definita da lui stesso un doodle, è quasi minimale, il muro di mattoncini bianchi che avvolge l’intero album è sporcato da una scritta aggiunta frettolosamente in via provvisoria solo per le pressioni della produzione, ma che alla fine è rimasta così, diventando iconica. 

Ma Scarfe non si è limitato al booklet: ha espanso questo mondo, che oscilla tra il surreale e il grottesco, occupandosi delle animazioni di Pink Floyd The Wall, il film del 1982 diretto da Alan Parker.

Ed ecco che per me le cose iniziano a complicarsi: come fare a racchiudere in una sola illustrazione tutto questo?

Come rielaborare un panorama visivo già così ricco, di cui è stato già detto tutto?

Come posso approcciarmi ad un animo così lontano dal mio dal punto di vista creativo?

“Is there anybody out there?”

Questa è l’eco che ha risuonato dentro di me per settimane: un vuoto densissimo mi ha paradossalmente imprigionato dentro a The Wall.

Ogni volta che guardo la cover un senso di angoscia mi assale: nell’osservare ogni mattoncino bianco penso a Pink, a come inesorabilmente, brano dopo brano, questi tasselli si siano posati l’uno sull’altro, fino a creare una parete così candida e ordinata da nascondere alla perfezione il mondo corrotto e sofferente in cui vive il protagonista, un ossimoro che ne amplifica la risonanza emotiva.

Ogni volta che ho tra le mani l’album mi chiedo da che parte del muro io stia: ma dalle prime note mi è subito chiaro.

La mia testa, piena di stimoli e informazioni, stava per esplodere senza riuscire a produrre alcunché, mentre la scadenza si avvicinava insieme al mio fallimento.

Ogni sketch corrispondeva ad un mio “no”, tutto troppo teatrale, tutto troppo tragico, troppo diverso da me o troppo uguale a ciò che già esisteva. 

Gerald Scarfe, un visionario iper-produttivo mi guardava dall’alto soffrire della sindrome opposta. 

Così mi sono fermata un attimo a pensare a cosa veramente mi è rimasto dentro di The Wall: ed è proprio il misto di impotenza, inquietudine e speranza delle parole “is there anybody out there”. 

Ho pensato allo stato d’animo di Pink che cerca la presenza di qualcuno sebbene sappia di essere solo.

Solo con un se stesso in subbuglio, irriconoscibile sia internamente che esternamente, e che mi ha subito riportato alla mente gli autoritratti di Francis Bacon e Edvard Munch, artisti che hanno esplorato largamente i territori della depressione esistenziale.

E così nella mia mente hanno iniziato a sovrapporsi alle illustrazioni di Scarfe le figure dei due artisti tormentati e le pennellate espressive dei loro dipinti, così come il volto di Pink interpretato da Bob Geldof, e quello di Syd Barrett, che come un fantasma aleggia per tutta la durata dell’ascolto.

La mia illustrazione non rappresenta affatto The Wall nella sua interezza, men che meno ha la pretesa di replicare lo stile di Scarfe: è solo una mia interpretazione di una dalle tante sfaccettature dell’album.

Però credo sia giusto ricordarsi più spesso, di questi tempi così affannosamente sempre di corsa, che fermarsi, talvolta fallire rispetto alle proprie aspettative è umano.

E va bene così.

 

recover 2 the wall

 

Cinzia Moriana Veccia

La nuova sfida di Funk Shui Project & Davide Shorty

Squadra che vince non si cambia: i Funk Shui Project tornano sulla scena, di nuovo in collaborazione con Davide Shorty, con un nuovo disco, La Soluzione, che sembra, già a partire dal nome, la naturale evoluzione del precedente lavoro, Terapia Di Gruppo. Nella pausa fra un album e l’altro, la formazione ha consolidato questa affiatata collaborazione, ha messo a fuoco alcune delle tematiche messe in luce fino ad oggi e approfondito argomenti, come quello dell’incertezza che ci riserva il futuro e quello dell’attenzione alla salute mentale, che fungono da spunto di riflessione e immedesimazione per chiunque si approcci a questi nuovi pezzi. Li abbiamo incontrati a Milano poco prima dell’uscita de La Soluzione, e ci hanno raccontato parecchie cose sulla genesi di questo nuovo lavoro e sulla vita che conducono come musicisti. 

 

Ciao ragazzi, come state? Com’è andata l’apertura a Daniel Caesar? Avete avvertito la responsabilità di salire su quel palco?

Jeremy: “Sicuramente è stata un’esperienza pregevole, esibirsi su un palco importante come quello del Fabrique è sempre bello. Daniel Caesar è un artista super valido, l’emozione è stata fortissima.”

Natty Dub: “Sì, abbiamo notato che appena saliti sul palco eravamo emozionati, che è una cosa che non ci capitava da un po’.”

Davide: “Sì, io per la prima volta da tempo, poco prima di salire sul palco ho avuto proprio la tachicardia, il cuore in gola, come si suol dire. Per me Daniel Caesar è una delle più grosse influenze dell’ultimo anno sicuramente, sia Freudian che Case Study sono due dei dischi che ho ascoltato e riascoltato.”

 

Quindi ve lo siete goduti anche come spettatori. 

Natty Dub: “Certo. È stato piacevole poi, al termine di tutto, poter avere a che fare con lui e la sua band, che tra l’altro si sono pure complimentati con noi per il nostro show, hanno apprezzato molto.”

Davide: “Daniel si è fermato a parlare con noi, ci ha chiesto cosa pensavamo del suo live e di come suonasse. Addirittura ci ha chiesto se avremmo aperto anche un’altra data delle sue (ridono).” 

 

Faccio un passo indietro: leggo ovunque che il vostro nome ufficiale è “Funk Shui Project & Davide Shorty”. È così che vi sentite? Vi rispecchiate in questo nome, quindi in due entità separate?

Natty Dub: “Mah, in realtà inizialmente volevamo uscire come Funk Shui Project e basta, proprio perché questo progetto prevede cambi di formazione o cambi di sonorità. Determinati vincoli discografici che avevamo all’epoca ci hanno portato a dover distinguere i due nomi, ma questo non toglie il fatto che noi ci sentiamo un unico gruppo, un’unica band, un’unica realtà, e probabilmente non è detto che continueremo a usare questa nomenclatura anche in futuro, vedremo.”

Davide: “Ma sì, poi rigirata non suona neanche male, ricorda tipo gli Sly & The Family Stone, George Clinton and The Parliament Funkadelic (ride). Perché no?!”

 

Come nascono i vostri pezzi? Qual è il vostro processo creativo?

Jeremy: “È una filiera corta: Dub fa il beat, io il basso, poi finisce a Davide. Poi chiaramente si va in produzione con tutti i disegni del resto degli strumenti.”

Davide: “La definirei quasi una catena di montaggio poetica, perché in questo caso non è un processo meccanico come quello tipico della fabbrica.”

 

I generi a cui attingete e a cui vi ispirate si basano spesso sull’ispirazione: quanto di questo accade anche durante la creazione dei pezzi e durante i vostri live? 

Davide: “Io personalmente amo fare freestyle, infatti in ogni live c’è uno spazio dedicato, mi piace interagire con il pubblico in maniera call and response. Sicuramente in studio c’è una buona dose di improvvisazione; senza quella non riusciremmo a creare. La prima cosa che faccio ogni volta che si crea un beat nuovo è improvvisare delle linee melodiche per capire cosa potrebbe starci bene. È tutto un go with the flow, lavoriamo in maniera molto naturale, quando una cosa non suona forzata significa che è quella giusta.”

Jeremy: “Se invece intendi l’improvvisazione jazzistica, certo ci ispiriamo tanto a quel tipo di musica, io personalmente poi ascolto tantissimo jazz… però non sono un jazzista. Live quindi non concepiamo tanto l’improvvisazione, anche perché amiamo, in termini di genesi del progetto, poter riprodurre quello che effettivamente produciamo.”

Davide: “È molto bello perché costruiamo il live insieme, e fino ad oggi è stato naturale riuscire a trovare un compromesso per cui tutti siamo soddisfatti di quello che mostriamo al pubblico. Non è sempre così, parlando con tanti colleghi ci rendiamo conto che non è semplice trovare un organico in cui si riesce a collimare tutte le teste, facendole andare d’accordo. Da questo punto di vista siamo davvero fortunati.”

Jeremy: “Io però vorrei comunque essere un jazzista, ma questo è un altro discorso, un’altra intervista (ride).”

 

Essendo le vostre sonorità molto internazionali, siamo spessi abituati a sentirle abbinate a un cantato in lingua inglese: avete mai incontrato difficoltà nell’adattare la lingua italiana al vostro sound?

Natty Dub: “Ascolto pochissime cose in italiano, e quelle che scelgo non sono contemporanee. Questo influenza il nostro modo di fare musica: in questo nuovo disco ci sono dei sample di musica italiana, di musica d’altri tempi, forse poco conosciuta, di compositori tipo Piero Umiliani e Ennio Morricone, quindi musicisti italiani che già all’epoca si affacciavano più ad un pubblico internazionale.”

Davide: “Anche perché penso sia d’obbligo inserire qualcosa che fa parte della nostra tradizione e della nostra storia, per mantenere qualcosa delle nostre radici mentre facciamo un genere che per background culturale in realtà non ci appartiene, ma che abbiamo studiato talmente tanto che in un modo o nell’altro è diventato anche nostro. Per quanto mi riguarda, ho scoperto il soul, il funk e il jazz a partire dall’hip hop, perché quando ho iniziato a fare rap mi sono trovato a dovermi fare le basi da solo e ho dovuto cercare dei campioni proprio nei dischi soul, funk, jazz. In ogni caso, penso sia importante essere specchio di quello che è il proprio tempo, nel modo più genuino possibile, nei confronti della musica e della cultura, che è una cosa che purtroppo in Italia non siamo abituati a fare. Per quanto riguarda l’utilizzo della lingua italiana, sicuramente tutti noi che abbiamo collaborato con questa formazione abbiamo una propensione alla selezione delle parole: scadere nel già sentito in italiano è molto facile, perché è una lingua estremamente dettagliata, e fare poesia e musica in italiano richiede dei suoni e delle parole ben precise per non sembrare scontato e banale, noi non vogliamo fare qualcosa che esiste già traducendolo in italiano, ma creare qualcosa di propriamente italiano che si ispira ad altro, ed è sottile la differenza.”

 

Il vostro nuovo album si intitola La Soluzione, e arriva dopo il vostro lavoro Terapia Di Gruppo. Questo album è un’evoluzione del precedente, come suggerisce il nome?

Jeremy: “Beh, è voluto, anche se non a tavolino. È stato un processo naturale.”

Natty Dub: “Ci sono tante cose, in questo disco, che mostrano un percorso di predestinazione, a partire dalla grafica. Abbiamo affidato entrambe le copertine ad Ale Giorgini, il nostro illustratore, e lui per realizzarle ha voluto semplicemente ascoltare le canzoni. Ne è emerso un primo disco dalle atmosfere più notturne, sul blu, e un secondo che ricorda il crepuscolo, sui toni dell’arancione, come dalla notte al giorno. Anche per quanto riguarda la musica, abbiamo puntato all’essenzialità, c’è meno arrangiamento dell’album precedente e meno sovraincisioni. Anche i testi, in “Terapia Di Gruppo” erano più simili a un flusso di coscienza, mentre qui certi messaggi sono più a fuoco. C’è più chiarezza e consapevolezza di quelle emozioni che trattavamo nell’album precedente.”

 

Una delle tematiche che mi ha colpito è quella dell’incertezza del futuro. Voi fate un lavoro che, più di altri, espone al rischio di precarietà, come vi sentite a riguardo?

Jeremy: “Arrivando da quindici anni in cui sono stato costretto alla subordinazione lavorativa per poter guadagnare uno stipendio che mi consentisse di coltivare questo sogno, ora me la godo con tutte le ansie del caso, penso “ben venga!”. Possiamo dire di farlo di professione, ed è una cosa che non scambierei con tutte le certezze di questo mondo.”

Natty Dub: “Certo è che bisogna fare dei sacrifici, perché nel caso di me e Jeremy, per portare avanti questo progetto abbiamo dovuto abbandonare tutti gli altri, musicali e non, che ci supportavano economicamente. Io consiglierei quindi a chi vuole intraprendere questa strada di concentrare tutte le proprie energie su un unico progetto, quello che più si sente proprio.” 

Davide: “Dal canto mio, posso dire che psicofisicamente è veramente dura. A livello psicologico devi imparare a volerti bene, perché non tutte le date vanno bene e ti danno la stessa soddisfazione. Devi ricordarti perché lo fai. È importantissimo anche riposarsi, soprattutto per me che uso la voce, tutte le mancanze che ho dal punto di vista fisico e lo stress psicologico si riflettono immediatamente sul modo in cui canto.” 

 

A proposito di tour: come imposterete i prossimi live? Ci sarà qualche cambiamento?

Jeremy: “Ci sarà Johnny Marsiglia, e questo già presuppone un’innovazione allo show. Porteremo il disco nuovo più qualche grande classico (ride) di Terapia Di Gruppo. Cercheremo di fare sempre di più. Quello che possiamo dirti è che varrà sicuramente la pena di venire a questi live. Abbiamo una voglia matta di suonare i pezzi nuovi.”

Davide: “Ci dicevamo ieri che tanto sappiamo già come andrà a finire, che alla fine di questo nuovo tour avremo in mano il prossimo disco.”

 

Anna Signorelli

Visual Journal vol.2: King Nun

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• King Nun @ Fabrique (Milano) // 29 Ottobre 2019 •

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Siamo stati al concerto de The Struts al Fabrique di Milano, ma, invece di parlarvi  di una delle rock band più famose del momento, abbiamo deciso di raccontarvi della loro band di supporto per il Young & Dangerous Tour: i King Nun.

La cosa che preferisco del fotografare band emergenti è vedere la passione che emanano da tutti i pori, c’è qualcosa nei loro occhi, che molto spesso in una band affermata col tempo va a perdersi, ed è la voglia di realizzare il loro più grande sogno: fare musica.

I King Nun questa energia ce l’hanno tutta e sono pronti a schiaffarcela in faccia appena prendono in mano gli strumenti.

I quattro ragazzi londinesi in una quarantina di minuti di set sono riusciti a conquistare un Fabrique completamente sold out, regalandoci uno show da vera punk band, con tanto di corse tra il pubblico a petto nudo e chitarre finite in frantumi sul palco.

 

 

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Foto: Elisa Hassert

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ReCover #1 – The Smashing Pumpkins “Mellon Collie and the Infinite Sadness”

• Un’anti-recensione •

 

Non avevo mai ascoltato interamente Mellon Collie and the Infinite Sadness, e a dirla tutta gli Smashing Pumpkins non sono mai stati nella rosa delle mie band preferite, per cui quando mi venne proposto di illustrare quest’album la presi come una sfida verso l’ignoto: certo, conoscevo le canzoni più famose del gruppo, ma non li avevo mai approfonditi più di tanto. E così, conquistata dal booklet e dalla figura femminile in copertina iniziai ad immergermi nell’universo di Mellon Collie.
In realtà mi ci sono proprio tuffata di testa, taccuino alla mano, ascoltando di fila tutti e ventotto i pezzi del doppio album, e da subito mi resi conto di quanto sarebbe stato complesso e al contempo elettrizzante cercare di racchiudere il tutto in una sola illustrazione.

Ho impiegato giorni per inglobare ogni singola nota, ogni parola, emozione per riuscire poi a metabolizzare emotivamente e mentalmente l’abnorme quantità di materiale, rendendomi conto con mia grande sorpresa che questo mondo a me quasi sconosciuto in realtà già mi apparteneva. Il perché l’ho capito quando ho realizzato che la band è riuscita a raccontare un qualcosa di estremamente complesso come la fine dell’adolescenza e l’ingresso nell’età adulta, un qualcosa di così universale per cui mi son sentita trasportare indietro nel tempo, risucchiata in un vortice di rabbia e amore, disagio e desiderio, leggerezza e solitudine, luce e ombra. 

E ovviamente la malinconia, collante e chiave di lettura dell’intero album che ci viene suggerita dal gioco di parole del titolo.

Mellon Collie è un album pieno di dicotomie e contraddizioni stridenti, a partire dal concept che lo divide in due parti nette: Dawn to Dusk e Twilight to Starlight.

Per me è stato un viaggio a ritroso nei sentimenti provati a quell’età, un viaggio così denso da rendere semplice il processo di empatia con la me stessa di dieci anni fa, coi ragazzi che ascoltarono l’album nel ’95 (che ammetto di aver invidiato non poco) e quelli che ne godranno in futuro, tutti noi col cuore spezzato confortati dalla musica degli Smashing Pumpkins.

C’è chi ha definito quest’album inascoltabile tutto d’un fiato, troppo caotico e ambizioso per il suo cercare di toccare un’ampissima moltitudine di generi diversi.
Probabilmente invece, per il solo fatto di essere così ambizioso incarna uno spirito decadente, lo stesso di chi desidera lasciare un segno indelebile nella storia: un cuore pulsante che brucia di volontà di espressione. 

Billy Corgan parla ai suoi simili, a chi come lui vive immerso nei dualismi, in un caos di influssi sempre più complesso, in cui non si può fare a meno di assorbire tutto ed infine filtrarlo tramite il proprio io creativo.

È un processo assimilato dagli Smashing Pumpkins ma anche dall’illustratore John Craig, che nel creare il booklet ha attinto dalla storia dell’arte in maniera spudorata, rielaborando ogni elemento con gli stilemi del proprio tempo, come i colori estremamente saturi che contribuiscono a rendere il clima surreale, ma soprattutto l’influsso dirompente del kitsch.

Molti dei lavori di Craig hanno un aspetto vintage, e ciò non è un caso: l’artista collezionava vecchie foto e immagini che raccoglieva nel suo laboratorio, pronte per essere utilizzate alla prima occasione.
Quest’occasione sembrò arrivare proprio con Mellon Collie, sebbene Corgan non ne fosse convinto fin da subito: per la sua copertina voleva assolutamente un artista che dipingesse in stile vittoriano, per cui visionato il portfolio di Craig decise di continuare a cercare il candidato perfetto. 

Ma dopo che nessuno fu entusiasta degli altri candidati, Corgan si dovette ricredere e venne chiesto a Craig di occuparsi, inizialmente, solo dell’interno del booklet.
Nonostante questo, Corgan rimase dubbioso finché non vide il primo collage, i due bambini nel prato di papaveri, sicché convinse tutti ad affidare a Craig anche il progetto copertina.

La selezione degli elementi del collage è stata una collaborazione tra Corgan e Craig alla fine della quale si è giunti al risultato finale che tutti conosciamo: la figura femminile sulla stella.

L’immagine è apparentemente semplice, ma si tratta di un abile assemblaggio di vari elementi incastonati alla perfezione fra loro. 

Il viso della donna appartiene al dipinto La Fedeltà di Jean Baptiste Greuze, pittore francese del ‘700 famoso per le sue fanciulle rappresentate in un misto di innocenza ed erotismo.
Il corpo invece è stato preso dal celebre dipinto di Raffaello Santa Caterina d’Alessandria, e adattato alla perfezione al volto con un abile lavoro di scanner.
L’origine degli altri elementi, invece, è un po’ meno aulica: la stella proviene da una pubblicità di un whisky, mentre lo sfondo stellato è stato preso da un’enciclopedia per bambini.

È proprio questa mescolanza di elementi alti e bassi, provenienti da ambiti lontanissimi fra loro, che vanno a creare un’opera visivamente tanto ricca da esprimere quel gusto decadente che Corgan cercava nell’arte vittoriana, ma che è riuscito ad ottenere ugualmente grazie al genio creativo di Craig.

D’altronde l’arte non è altro che lo specchio della società: abbiamo un collage visivo per Craig e un collage musicale per gli Smashing Pumpkins, entrambi legati insieme dall’abbraccio dolce-amaro di Mellon Collie, a cui ho voluto rendere omaggio pensandola come protagonista dell’album, un po’ alter ego di chi ascolta, un po’ allegoria contemporanea della malinconia.

 

Opera senza titolo

 

Cinzia Moriana Veccia

Linea 77: cambia il gioco, ma le palle sono le stesse

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P0P

presenta:

Linea 77: cambia il gioco, ma le palle sono le stesse.

 

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