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VezBuzz: di quando Jack White lanciò Freedom at 21 con dei palloncini

Perché limitarsi ad un banale lancio “on air” radiofonico, quando si può letteralmente far prendere il volo alla propria musica?

Jack White deve aver pensato qualcosa del genere quando ha escogitato uno dei buzz più originali degli ultimi anni. Infatti, in occasione dell’uscita del singolo Freedom at 21, che precedeva l’album Blunderbuss si inventò qualcosa di davvero inconsueto, destinato a rimanere nell’imperitura memoria dei tanti che, come me, hanno imparato ad apprezzarlo con i White Stripes e hanno continuato ad amarlo in ognuna delle sue successive reincarnazioni. Infatti, che Jack White sia un genio della Musica, non c’è di certo bisogno che lo dica io. Non tutti però sospettavano fosse anche un genio del Marketing.

Correva l’anno 2012, i White Stripes si erano già sciolti l’anno precedente e Jack White aveva già pronti nel cassetto i pezzi che avrebbero poi dato vita a Blunderbuss, il suo primo album da solista.
Tra questi c’era Freedom at 21, un brano insolito per il musicista di Detroit, con elementi musicali che ricordano l’hip hop, una ritmica asfissiante e una chitarra che spettina. E poi c’è il testo, che si interroga su come un uomo possa diventare vittima di una donna.

Per il lancio di questo singolo la Third Man Records, l’etichetta discografica di White, fece qualcosa di particolare. Il 1° Aprile 2012 infatti il brano venne inciso in 1000 esemplari su disco flessibile e collegato ad altrettanti palloncini blu, gonfiati ad elio, che vennero liberati in aria nel cielo di Nashville.

Il flexi-disc è un supporto in vinile, molto sottile e leggero, che può essere arrotolato e piegato. Ai palloncini vennero poi attaccate anche delle cartoline con le indicazioni su come informare la Third Man Records del ritrovamento. Secondo le statistiche almeno un centinaio di persone sono entrate in possesso di uno di questi preziosi esemplari, diventati oggi dei veri e propri oggetti da collezione.

Molti sono atterrati nei pressi di Nashville, poco lontano dal luogo del lancio, il quartier generale della Third Man Records. Come era prevedibile, il lancio dei palloncini ha conquistato i fan e ha permesso di ottenere una grande visibilità.

Il 17 aprile di quello stesso anno, solo per darvi la dimensione di quello che ha potuto generare questa operazione, il sito della Third Man Records informava i gentili utenti che “in un’asta di eBay una copia del disco flessibile Freedom at 21 lanciata da un aerostato della Third Man è stata venduta ad un prezzo di $ 4.238,88. Il prezzo più alto mai pagato per un flexi-disc”. Pensate quindi che bella sorpresa per la famiglia Coker, in Alabama, che pare aver trovato un intero carico di palloncini aggrovigliati insieme, incastrati tra i rami di un albero all’interno della loro proprietà.

Freedom at 21 venne poi rilasciato anche per un download digitale e come singolo in vinile, nel mese di Giugno.

In questo video potete vedere il momento del lancio dei dischi.

 

 

So cosa vi state chiedendo: sì, belli i palloncini, ma la plastica? E all’ambiente, non ci ha pensato nessuno? Con buona pace degli ambientalisti, Jack White invece in quell’occasione pensò proprio a tutto. I palloncini utilizzati erano completamente biodegradabili. Così come le cordicelle, tutte prodotte con materiali naturali.

Quello di Jack White deve essere immaginato come un esperimento. Un tentativo di esplorare forme di distribuzione “non tradizionali”, in modo da far arrivare questo singolo anche nelle mani di persone che solitamente non frequentano i negozi di dischi. Oltre, naturalmente, a far parlare di sé.

Anche se, a dirla tutta, White non è estraneo a questo genere di operazioni, folli ma con una punta di poesia. Chi conosce un po’ la sua storia non sarà rimasto sorpreso. Infatti, prima della Third Man Records, prima dei White Stripes, prima dei Raconteurs, Jack White era solo un tappezziere di Detroit con una curiosa abitudine.

Si divertiva a nascondere all’interno dei divani che riparava foglietti con piccole poesie. Da qui alla più recente operazione denominata “vinile nello spazio”, dove, per festeggiare il quindicesimo compleanno della sua etichetta discografica, è stata lanciata oltre l’atmosfera una navicella spaziale con a bordo una speciale apparecchiatura, la Icarus Craft, in grado di far suonare un vinile, il nostro eroe non si è più fermato, inanellando una trovata pubblicitaria creativa dopo l’altra.

Jack White infatti non è solo uno degli artisti più dotati della scena contemporanea, ma è anche uno dei musicisti che ha contribuito maggiormente al ritorno del vinile.

Lo ha fatto grazie alla sua Third Man Pressing, un luogo dove il vinile prende forma, tra macchinari tedeschi antichi ed altri nuovissimi, ma anche con operazioni come il lancio di Freedom at 21, o realizzando una versione del singolo Sixteen Saltines per veri maniaci, stampata su vinile trasparente pieno di liquido traslucido e con un’incisione riproducibile del logo Third Man.

Per come lo vedo io, quello di Freedom at 21 è un bel modo di promuoversi e sostenere un po’ di sano “feticismo” del vinile, oltre che aggiungere un nuovo tassello alla leggenda di Jack White, ogni giorno più genio sregolato del mondo della Musica.

 

Daniela Fabbri

Come scegliere un Festival Estivo

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Come scegliere un Festival Estivo

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La magia del Prado

•Quando l’arte incontra la musica•

 

Madrid è una delle mie città preferite, sembra avvolta da una patina magica che la rende unica al mondo. Ovunque ti giri non puoi fare a meno di sgranare gli occhi perché in ogni angolo puoi trovare una chiesa, un palazzo o una fontana che catturano la tua attenzione.

Madrid per me è sinonimo di arte e musica.

Tra i tanti musei che la città ospita ho deciso concentrare la mia attenzione sul Museo del Prado. Non solo perché nel 2019 vengono celebrati i suoi 200 anni ma perché raccoglie una collezione di opere da lasciare senza fiato.

L’imponente museo, costituito da un dedalo di stanze in cui è facile perdersi, ospita dipinti di alcuni degli artisti più importanti della storia: Tiziano, Durer, Bosch, Raffaello…elencarli tutti sarebbe impossibile.

Passeggiando per le sale, armata di cartina, passando da un quadro ad un altro mi sono accorta che moltissimi artisti nelle loro opere inseriscono riferimenti al mondo della musica.

Ci sono autori che decidono di celebrare i musicisti intenti a fare il loro lavoro, altri che immortalano momenti di festa, altri che celano dietro l’immagine di un musico i potenti del loro tempo e altri ancora che nelle loro opere a volte in primo piano, a volte celati in disparte, inseriscono degli strumenti.

Dopotutto la musica, una forma d’arte antica quasi quanto l’uomo, è parte fondamentale della vita di tutti e quando due arti così importanti si incontrano non possono nascere che dei capolavori.

In questa breve carrellata vedremo insieme alcune opere che contengono dei richiami al mondo nella musica e come i loro artefici hanno deciso di rappresentarla.

Partiamo dal tedesco Hans Baldun Grien che nella sua opera Le Tre Grazie decide di trattare un soggetto di matrice classicheggiante molto caro ai rinascimentali. 

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Hans Baldung Grien, Armonia o Le tre Grazie, 1541-1544 

Al Prado possiamo ammirare anche l’opera di Rubens, che tratta lo stesso soggetto ma lo fa in modo totalmente diverso.

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Pieter Paul Rubens, Le tre Grazie, 1636 ca., olio su tela

Osservando i due dipinti, infatti, più che le somiglianze possiamo soffermarci sulle differenze.

Grien vive in un periodo turbolento, caratterizzato da scontri religiosi che sconvolgono gli stati tedeschi. L’artista si inserisce in un filone che viene denominato arte della riforma in cui le opere si caricano di una forte carica morale. 

Nel dipinto possiamo notare due strumenti, un liuto e una viola da braccio, e un putto che tiene tra le gambe uno spartito. L’opera, che a prima vista potrebbe sembrare di matrice puramente classica, nasconde in realtà un significato più profondo.

Sullo sfondo, attorcigliato al tronco di un albero, possiamo notare un serpente, nella cristianità simbolo per eccellenza del male e della corruzione. A questo punto, vista anche la presenza di un Cigno (che potrebbe rimandare alla seduzione di Leda ad opera di Giove) potremmo vedere nell’opera una critica negativa alla musica profana, tematica molto in voga nella patria dell’artista.

Diverso invece è il caso del nostro connazionale Tiziano Vecellio che ci propone un’opera dal titolo Venere con Organista e Cupido.

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Tiziano Vecellio, Venere con Organista e Cupido, 1540-1550

Anche quest’opera riprende un soggetto classico: la Dea della bellezza nuda distesa su un letto.

L’italiano però rispetto all’iconografia più tradizionale inserisce un musicista, abbigliato con indumenti del 500 e armato, che osserva quasi con desiderio il corpo di Venere.

Nelle sue fattezze possiamo facilmente riconoscere Filippo II, committente dell’opera.

Tiziano riesce a fondere alla perfezione il tema classico alla sua realtà inserendo nell’opera un giardino rinascimentale, carico di riferimenti simbolici.

Ma la musica entra anche nei quadri spiccatamente religiosi.

Antiveduto della Grammatica nella sua opera Santa Cecilia rappresenta la donna intenta a a suonare un organo, mentre sullo sfondo, in penobra, un angelo la ascolta rapito.

 

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Antiveduto Della Grammatica, Santa Cecilia, Olio su tela, 1611

Alle spalle della santa possiamo anche scorgere un violino e un liuto poggiato su un tavolo.

Il fatto che la santa stia suonando proprio un organo non è casuale dal momento che, secondo la tradizione, sarebbe stata proprio lei ad inventare questo strumento.

Inoltre il suo essere circondata da strumenti è dovuto al fatto che Santa Cecilia è, per la fede cristiana, la patrona della musica degli strumentisti e dei cantanti.

Ma andiamo a vedere un quadro pensato per essere esposto in un monastero situato a meno di cinquanta chilometri da Madrid: L’Adorazione dei Pastori di Juan Bautista Mainò. 

 

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Maino Juan Bautista, Adorazione dei Pastori, olio su tela, 1610 ca.

Nell’opera, che riprende la natività secondo il Vangelo di Luca, vengono rappresentati un gruppo di pastori e di angeli che venerano il bambino, appena nato. Il dipinto si articola su tre livelli e in quello inferiore, più vicino allo spettatore, possiamo notare un pastore intento a suonare.

In questa tela possiamo notare non solo l’influsso di Caravaggio ma anche quello di El Greco, che operava proprio a Toledo.

Ma la musica si inserisce con naturalezza anche nelle rappresentazioni dei paesaggi e della vita quotidiana. L’opera di Brueghel il Vecchio, Matrimonio in Campagna, ci fornisce uno spaccato su quella che era la vita nel primo 1600.

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Jan Brueghel Il Vecchio, Matrimonio in Campagna, olio su tela, 1612 ca.

L’autore, nonostante voglia porre l’accento sulla processione nuziale, da una grandissima importanza al paesaggio che viene rappresentato con grandissima cura.

La musica, allora come oggi, alle nozze rivestiva una grandissima importanza e quindi Brueghel inserisce i musicisti proprio nella processione. 

Notiamo infatti un uomo con un tamburo che precede lo sposo (vestito di nero con il collare), mentre tre uomini armati di strumenti a corda separano il gruppo degli uomini da quello delle donne, dove possiamo notare la sposa (anche lei in nero).

Oltre a Brueghel sono molti gli autori che hanno deciso di trattare un tema simile, basti ricordare Teniers o Snyders.

Chiudiamo questa carrellata con uno degli artisti più presenti al museo del Prado: Francisco de Goya y Lucientes.

Nonostante molti lo conoscano per opere cupe come Saturno che divora i suoi figli o Il sonno della ragione genera mostri, nel corso della sua lunga vita Goya ha attraversato diverse fasi influenzate dal suo vissuto personale, dagli artisti con cui è entrato in contatto e da una sorta di dualismo tra sentimenti e ragione.

Analizzeremo qui un’opera appartenente a quella che spesso viene definita la maniera chiara,         , confrontandola con un dipinto di suo cognato Ramon Bayeu y Subias.

In questa prima fase Goya prende spunto da persone comuni e dal folclore spagnolo e i suoi dipinti sono caratterizzati da colori chiari e da una sorta di spensieratezza.

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Francisco de Goya y Lucientes, Un uomo cieco suona la chitarra, olio su tela, 1778

In Un uomo cieco suona la chitarra Goya rappresenta uno straniero il cui ruolo è quello di spostarsi di città in città  portando notizie. In quest’opera possiamo notare anche altri personaggi come il nero, il cui ruolo tradizionale era quello di vendere acqua, il venditore di meloni e e il pescatore.

Nell’opera di Bayeu, Il musicista cieco, l’uomo è accompagnato da un ragazzo che gli fa da guida e lo aiuta a richiamare l’attenzione, grazie anche all’aiuto di un cagnolino.

 

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Ramon Bayeu y Subias, Il cieco con la chitarra, olio su tela, 1786 ca.

Nonostante il soggetto trattato sia il medesimo le due opere si discostano molto per la struttura, i colori e la composizione. L’opera di Goya ci restituisce uno spaccato della società spagnola mentre quella di Bayeu y Subias sembra quasi essere inserita un contesto pastorale.

Concludo qui il mio racconto sul Museo del Prado e lo faccio prendendo in prestito le parole di un grande artista, Pablo Picasso:

L’arte scuote dall’anima la polvere accumulata nella vita di tutti i giorni.

Questo è lo stesso compito che assolve la musica.

Nella vita frenetica e quotidiana di oggi spesso non troviamo il tempo di entrare in un museo, di soffermarci ad osservare un quadro, di godere della catarsi che certe opere sono in grado di offrirci. Spesso però la musica può sopperire a questa mancanza.

Musica e pittura sono due arti gemelle che vanno di pari passo, quando queste due si incontrano non possono che nascere opere importanti, in grado di toccare le corde della nostra anima

Laura Losi

FABER NOSTRUM | Una Recensione

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FABER NOSTRUM

Una Recensione

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Il musical e l’Italia: School of Rock

•Quando il teatro diventa una scuola per passato e futuro•

 

Ho una tradizione a cui non posso proprio rinunciare, quando faccio tappa nella bella Firenze: gustarmi una doverosa cena a base di specialità toscane. 

Dentro quella roba c’è il senso della vita, amici miei. 

Guarda caso l’osteria di fiducia si trova proprio davanti alla mia meta, il Teatro Verdi di Firenze.

Il cameriere, ormai fidato, è sbigottito quando ammetto di non esservi mai entrata così, offrendomi il dessert, mi avverte sogghignando: “te lo dico, desidererai tornare indietro nel tempo per indossare un abito tutto luccicante, con orecchini di perle ed il libretto della tua opera preferita in mano. Entrando, ti renderai conto che il Verdi offre, già di per se, uno spettacolo in tutto e per tutto”.

Buono a sapersi; dovrò davvero scegliere tra il mio chiodo di pelle ed un vestito da Charleston?

In effetti il Teatro Verdi citato anche da Collodi nel classico Pinocchio è un tripudio di raffinatezza e fastosità, una location che farebbe perdere la testa a qualsiasi fan di Downton Abbey, me compresa.

Per questo è così dannatamente splendido ed inaspettato trovarlo brulicante di un pubblico formato da tantissimi bambini, che scorrazzano senza sosta tra le seriose poltroncine di velluto rosso. 

Questa sera, infatti, saranno proprio loro i veri protagonisti dello spettacolo, poiché di bambini si racconta: bimbi pronti a dire la loro, che agli adulti piaccia o meno.

Lo School of Rock diretto da Massimo Romeo Piparo è, infatti,  la storia del rockettaro incallito Dewey Finn (personaggio cucito addosso a quel mattacchione di Jack Black per l’omonimo film diretto da Sam White e riscritto per Broadway dal maestro del musical Andrew Lloyd Webber).

 

foto gruppo SOR Antonio Agostini min
Il cast del musical sul palco

 

Finn per sbarcare il lunario si ritrova ad ingannare il sistema fingendosi un insegnante per una delle scuole più prestigiose del paese, la Horace Green Alma Mater. Nel costatare quanto i suoi giovanissimi alunni siano davvero dei tipi tosti, Dewey  insegnerà loro l’unica cosa che abbia mai conosciuto e amato davvero: il rock, ovviamente. 

Scoprendoli incredibilmente portati per la musica formerà una band, chiamata School of Rock, e l’iscriverà alla battaglia delle band. 

I giovani musicisti apriranno il loro cuore al rock, stanchi di aver a che fare con genitori rigidi, assenti e incapaci di ascoltare le loro passioni e necessità, riconoscendo in quel buffo ometto del Signor Dewey uno sgangherato mentore, del tutto differente da qualsiasi altra persona adulta mai incontrata nella loro vita.  

Lo spettacolo è senza dubbio un grandioso inno al rock, che cambia pochissime carte in tavola rispetto all’omonimo film del 2003 ed è un piacere applaudire, ancor prima che il sontuoso sipario si apra, alla super band dal vivo che, ai piedi del palco, è già agguerrita e pronta a scatenarsi tra i brani originali ed i classici del rock che compongono la colonna sonora di School of Rock.

 

Matteo Guma e Lillo Petrolo min
Il cast in scena.

 

Le scenografie dimostrano immediatamente d’essere quelle di una capace e sapiente produzione, per nulla mancante rispettò ai cugini del West End.

Grazie ad istallazioni mobili curate nei dettagli, gli autori riescono a trasportarci nelle numerose location dello spettacolo: la caotica e sciatta camera da letto di Dewey, la sala prove incredibilmente convincente  e, vero fiore all’occhiello del reparto scenografico, la splendida Horace Green che sarà teatro di una vera rivoluzione, capitanata dai giovani e brillanti protagonisti.

Lo spettacolo prosegue ed il pubblico, abituato fino a quel momento alla vita scapestrata ed al mondo tutto pane e rock ‘n’ roll di Dewey, ha bisogno di qualcosa che lo ponga davanti alla dura realtà: non sarà facile ingannare la Horace Green dove regnano disciplina e contegno.

Con un brano che, in mezzo a tanti straordinari momenti di vero rock,  merita una menzione speciale per aver portato sul palco la  potenza della tradizione: insegnanti e studenti ci accolgono nella sala grande offrendoci una dimostrazione corale davvero emozionante, che ha il gusto del musical classico. 

Il contrasto tra la verve della nuova e vecchia Broadway e l’irriverenza del rock  è rafforzato dalle citazioni, più o meno evidenti, di spettacoli rappresentativi come Wicked, Annie, Matilda e Cats. 

Dopo un crescente susseguirsi di numeri che inneggiano al più sfrenato hard rock, entriamo nel vivo della rivoluzione con il brano melodico Se Solo Mi Ascoltassi, dove i piccoli rockers esternano tutto il loro dolore nel capire ogni giorno di più quanto i loro genitori, assuefatti dalla frenetica routine, non siano in grado di comprendere ed incoraggiare i loro sentimenti e sogni. 

Questo dovrebbe essere il momento “strappalacrime”, così viene chiamato nel musical e, data l’intensità trasmessa dalle voci, dagli occhi e dalle gestualità dai ragazzi lo sarebbe, se non fosse per la proiezione alle loro spalle, che va a sostituire l’asettico sfondo nero delle produzioni straniere. 

Difficile ammetterlo, ma la commozione e l’empatia sono totalmente smorzati da questo screensaver, caratterizzato da fiori e farfalle, un po’ pacchiano. La scelta  a noi non è piaciuta.

Niente panico, perché sul finale entra in scena il meta-teatro. 

Con un riuscitissimo espediente drammaturgico, il pubblico del teatro Verdi si trasforma in quello della battaglia delle band che, totalmente impazzito per lo spettacolare concerto interamente suonato dal vivo dai ragazzi canta, balla e salta, posseduto da quella frenesia che solo il dio del rock può regalare.

 Il risultato è la vittoria indiscussa  dei ragazzi con il brano The School of Rock.

La scelta di Pasquale Petrolo, in arte Lillo, per il personaggio di Dewey è inaspettatamente assennata, praticamente perfetta. 

 

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Pasquale Petrolo, in arte Lillo.

 

Inizialmente, alla vista della locandina dello spettacolo dal titolo Lillo – School of Rock la reazione non è stata del tutto positiva.

E’ lecito storcere il naso con pregiudizio quando un personaggio famoso come Lillo viene lanciato nella mischia di un progetto che non tratta propriamente il suo campo, con il solo apparente scopo di raccogliere audience da parte di un pubblico italiano troppo confuso e rinunciatario quando si tratta di musical. 

Si è portati a pensare che, nonostante le tante abilità e la grande esperienza che Lillo ha maturato nel mondo dello spettacolo, sarebbe più appropriato affidare una parte così significativa ad un performer che, per anni ed anni, ha dedicato la sua formazione in quel particolare ramo dello spettacolo che è il musical. 

Molti attori, ormai, vengono sacrificati a causa della volontà delle produzioni di inserire nel cast un famoso specchietto per le allodole. 

In questo caso però, dobbiamo ammetterlo, Lillo convince e conquista.

Occorre dimenticarsi delle performance di Jack Black e del suo “sostituto” nella produzione di Broadway, Alex Brightman: artisti dal carattere tanto esuberante quanto invadente. 

Un Lillo evidentemente emozionato, preparato nel suonare la chitarra, cantare e ballare, con la direzione di Piparo plasma il personaggio di Dewey a sua immagine e somiglianza, rendendolo meno seccante, più bonario, ma ugualmente capace di creare quel contrasto stilistico e generazionale tra il professore e gli studenti.

Già, gli studenti. Quel palco è totalmente ricoperto da quegli splendidi diamanti di talento che sono i ragazzi dell’Accademia Musical Sistina: appassionati, sensazionali, dinamite pura. 

 

foto gruppo Marco Rossi min
I piccoli protagonisti.

 

Cantando, suonando e ballando rigorosamente dal vivo, reggono lo spettacolo sulle loro giovani spalle, svalicando di gran lunga il qualificatissimo cast degli adulti e conquistando i cuori degli spettatori che, grandi o piccini, sono rapiti dall’improvvisa voglia di fare headbanging alzando con fierezza il calice del rock.

Una storia, quella di School of Rock, assolutamente perfetta per il pubblico italiano, poiché capace di trasformare un intero teatro in una scuola per passato e futuro. 

Siamo tutti inevitabilmente alunni quando si tratta di imparare dai nostri errori e quei ragazzi la, sul palco, sono insegnanti pronti a gridare che niente e nessuno deve frapporsi tra loro e la realizzazione di un sogno.

Il rock è una filosofia, uno stile di vita, questo spettacolo lo racconta perfettamente” afferma Lillo “Dewey non vuole proprio diventare una rock star, vuole solo essere libero di vivere rock. Il rock è farsi sentire, non abbassare la testa, è musica legata alla ribellione. Sono proprio i volumi alti del rock che ti portano a dire “Ascoltami!”, che è quello che vogliono i bambini della storia. Il rock è stato fondamentale per generazioni.”

Si percepisce fortemente, da parte di School of Rock e di quello che rappresenta, la grande volontà di trasmettere un messaggio potente a quei genitori che non trovano nella strada del musicista o del performer una valida alternativa a qualsiasi altro lavoro per il proprio figlio, perché di questo stiamo parlando. 

In Italia una carriera nel mondo dello spettacolo è troppo spesso sminuita, derisa, molto di più che nel resto del mondo, vi assicuro. 

Il pubblico italiano è così rapito da School of Rock perché tocca le corde giuste. Ci sentiamo chiamati in causa, proviamo empatia, ci affezioniamo e, alla fine, la speranza prende piede, rimanendoci aggrappata anche usciti da teatro, nonchè nei giorni successivi, mettendo profonde radici.

Ho passato il post show dietro le quinte con i ragazzi del cast ed è stato incredibile rendersi conto della devozione dei genitori (quelli veri) per la passione e la professionalità dei loro figli. 

 

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Questa sono io nel dietro le quinte con il cast.

 

Questo, è il caso di dirlo, è quello che vogliamo per le generazioni future: un mondo dello spettacolo sostenuto dalla società, un mondo dove gli artisti, quelli veri, avrebbero la possibilità di trovare la loro strada, senza il costante timore d’essere sottovalutati, maltrattati e di non essere ascoltati. 

La pagella di School of Rock è piena di bei voti, non perdetevi le prossime date!

Valentina Gessaroli

Balena Endgame: un Live Report ineluttabile

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Balena Endgame: un Live Report ineluttabile

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VezBuzz: quella volta che i Radiohead sono spariti completamente (dal Web)

Un po’ per curiosità, un po’ per deformazione professionale, sono sempre stata attratta dalle tecniche di comunicazione adottate da artisti e band per promuovere i propri lavori. Forse qualcuno avrà già sentito parlare del “buzz”. Questa parola onomatopeica richiama il ronzio fatto dalle api.

Il buzz infatti viene utilizzato per generare sorpresa e curiosità, e di conseguenza brusio, o parlando di marketing sarebbe meglio dire “passaparola”. E non c’è bisogno che lo dica io, quanto il passaparola sia importante, soprattutto nell’era dei social.

Anche nella musica, sono tanti gli artisti che hanno adottato e messo in piedi strategie di comunicazione insolite, il buzz appunto, per lanciare i propri dischi o per creare interesse intorno a sé, in maniera spontanea. In questa rubrica, VezBuzz, parlerò dei casi più originali.

Il primo che mi interessa raccontare, anche per amore verso il gruppo, è quello dei Radiohead in occasione dell’uscita di A Moon Shaped Pool. Correva l’anno 2016 e a casa di alcuni fan della band che avevano fatto acquisti sul sito ufficiale, arrivò uno strano volantino. Oltre al logo dei Radiohead una frase: “Sing a song of sixpence / that goes ‘Burn the witch” e un minaccioso “We know where you live”.

Sing a song of sixpence è il titolo di una filastrocca per bambini, mentre Burn the Witch fa pensare alla caccia alle streghe. Tra la fine di Aprile e l’inizio di Maggio infatti, periodo in cui vennero consegnati i volantini, si festeggia la Notte di Valpurga.

In alcuni paesi del nord Europa questo rito pagano indica la fine dell’Inverno e per lungo tempo fu associato proprio alle streghe, per via dei riti, i baccanali e i falò che avevano luogo durante quella lunga notte. Non so voi, ma io ho i brividi.

A questo, seguì un altro fatto davvero, davvero insolito. I Radiohead, da un giorno all’altro, cancellarono completamente le loro tracce dalla rete. Il sito, i profili Facebook, Instagram e Twitter della band vennero completamente svuotati, così come scomparvero i tweet di Thom Yorke dal suo profilo personale.

Questo naturalmente portò i fan, ma non solo, a parlare, a fare congetture, a chiedersi come mai. Proprio loro, che in Kid A ci avevano spiegato “How to disappear completely” l’avevano fatto veramente.

Il 2 Maggio successe qualcosa di nuovo. Su Instagram apparve un piccolo video con un uccellino in stop-motion, che cinguettava con entusiasmo. Più tardi, sempre su Instagram, la band pubblicava un altro video criptico di un gruppo di persone mascherate che ballavano intorno ad una donna legata.

Finalmente il 3 Maggio 2016 arrivò il video di Burn the Witch, il primo singolo dopo cinque anni, con chiari richiami al film horror The Wickerman e ad uno spettacolo televisivo per ragazzi degli anni Sessanta, la serie Camberwick Green.

Il pezzo ha una potenza abbagliante e frenetica, con loop di percussioni elettroniche e il falsetto di Yorke immerso in un oceano di riverbero. Il resto è storia.

A Moon Shaped Pool non sarà ricordato come l’album più sperimentale dei Radiohead, ma di certo è stato un grande ritorno dopo The King of Limbs, non particolarmente amato da alcuni fan, forse tra i lavori più difficili della loro carriera.

I Radiohead hanno sempre fatto parlare di loro per la volontà di staccarsi dalle logiche promozionali della discografia. Il concetto di sparizione però, o sarebbe meglio dire di annullamento, non è qualcosa di nuovo, ma è l’essenza stessa della loro poetica.

Con la campagna di comunicazione e di attesa per A Moon Shaped Pool hanno eliminato e ucciso, metaforicamente, la loro precedente incarnazione e si sono trasformati in una versione attualizzata di loro stessi. La loro versione aggiornata al 2016.

Dai punti di domanda per la strategia, fino ad arrivare agli immancabili “rivoluzionari” e “avantissimo” pronunciati ogni volta che si parla della band dell’Oxfordshire, passando per le millemila analisi e disanime di quanto stava accadendo c’è una sola cosa che conta: che A Moon Shaped Pool sia uscito e che l’obiettivo sia stato raggiunto.

Certo, la grandezza della band e gli album epocali che hanno realizzato negli anni hanno avuto un ruolo importante nella sua anticipazione, ma con numerose band che hanno lo stesso livello di irriducibile supporto dei Radiohead, perché A Moon Shaped Pool ha attirato così tanto l’attenzione?

Per come la vedo io, la campagna di attesa che è stata messa in piedi per il web ha giocato un ruolo importante. Annunciando l’ora del lancio alle 19:00 di domenica 8 Maggio, due giorni prima del rilascio, la band aveva predisposto uno scenario che assicurava alla gente di aspettare con impazienza davanti ai propri computer, in attesa di fare clic sul download.

L’ascolto del disco è stato la cosa più simile ad un evento a cui si sia assistito da anni. Commenti sui social e la BBC Radio 6 che ha organizzato una sorta di festa con ascolto dal vivo e speaker che commentavano le tracce.

A Moon Shaped Pool è stato un’esperienza personale, ma vissuta con la consapevolezza che migliaia di altre persone stavano facendo la stessa cosa, nello stesso identico istante.

 

Daniela Fabbri

Parlare di musica è come inculare un gatto

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 P0P

Parlare di musica è come inculare un gatto

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Ma chi è P0P??

P0P è un personaggio molto misterioso. L’unica certezza è la Tv a tubo catodico che ha al posto della testa
Si narrano storie pazzesche sul suo conto: dalle notti di fuoco con Myss Keta alle giornate afose di agosto passate a giocare a carte con Willie Peyote.

Su Vez Magazine si disegnerà, si parlerà di musica a modo suo.

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Heroes- Bowie by Sukita

•Un uomo dai mille volti•

 

Nella suggestiva cornice di Palazzo Medici Ricciardi di Firenze, dal 30 marzo 2019 al 28 giugno, sarà allestita una mostra, curata da Ono Arte Contemporanea, dedicata ad una delle figure più poliedriche della storia della musica mondiale: David Bowie.

Heroes- Bowie by Sukita racconta attraverso 60 scatti un sodalizio artistico, ma anche una profonda amicizia, che ha legato il camaleontico cantante al fotografo giapponese.

La mostra ci restituisce un ritratto di Bowie nel suo momento di gloria, un viaggio tra le sue trasformazioni, tra i suoi outfit memorabili e le sue stravaganze. 

Le foto sono scattate da Masayoshi Sukita, fotografo giapponese, che ha immortalato l’artista nel corso di tutta la sua carriera. Sukita, grazie al rapporto che ha creato con il cantante, ci ha regalato foto più intime e personali di Bowie. Dobbiamo a lui la copertina di Heroes, uno dei brani più conosciuti ed iconici del Duca Bianco.

David Bowie oltre che per le sue doti di musicista è famoso per la sua abilità continua nello stupire e nel rompere gli schemi tradizionali. 

Se per molti artisti tracciare un profilo può essere facile, per lui non è così. 

Una semplice domanda come chi era David Bowie, in realtà, ci metterebbe in grandissima difficoltà.

Nel corso della sua vita ha creato innumerevoli alter ego che, in un modo o nell’altro, hanno contribuito a creare il suo personaggio. Bowie era un trasformista, un camaleonte.

Nonostante la sua carriera sia iniziata nel 1967 con David Bowie il vero successo arriva nel 1972 con l’album The Rise and Fall Of Ziggy Stardust ad the Spiders from Mars.

Qui nasce il suo primo alter ego: l’alieno androgino dai capelli color del fuoco Ziggy Stardust. Nella creazione del personaggio sono stati forti gli influssi di Arancia Meccanica di Kubrik e del teatro giapponese Kabuki.

 

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© Photo by Sukita 2019

Ziggy diventa David e David diventa Ziggy; è difficile capire dove finisca uno ed inizi l’altro. Con la sua creatura Bowie è l’antesignano del glam rock che avrà tanto successo negli anni successivi.

La creazione di questo personaggio è stato un colpo di genio che ha lanciato Bowie sulla strada dell’immortalità. Nell’album sono trattati svariati argomenti, scomodi ma anche estremamente all’avanguardia: politica, droghe ed orientamento sessuale.

La vita dell’alieno però è breve. Come ho detto poco sopra Bowie è un trasformista e stare legato troppo a lungo ad un solo personaggio non fa per lui. Così il 3 luglio del 1973 sul palco dell’Hammersmith Odeon di Londra Bowie uccide il suo alter ego. I fan rimangono scioccati, nessuno si aspettava una cosa del genere.

Mentre stava viaggiando in America, per portare in giro la tournée legata all’album, trova l’ispirazione per la sua nuova opera. Nel 1973 esce Aladdin Sane, una sorta di diario di viaggio, ispirato proprio alle esperienze vissute in terra americana.

Alladin, con la saetta dipinta sul volto, è il nuovo alter ego di Bowie.

Il personaggio di Aladdin Sane, potrebbe essere ispirato al fratello a cui venne diagnosticata la schizofrenia. Lo stesso nome, che si potrebbe tradurre come “un giovane folle” (a laid insane), richiama alla mente la malattia mentale, tematica molto cara al cantante. 

L’anno seguente esce Diamond Dogs, un album che va controcorrente: mentre nel mondo inizia a spopolare la disco music Bowie se ne esce con questo album complesso. Qui prende vita un nuovo personaggio chiamato Halloween Jack: capelli rossi e benda sull’occhio. Un personaggio che si muove in un futuro post-apocalittico, ispirato dall’opera di George Orwell.

Ma il personaggio per cui Bowie è più spesso ricordato è il Duca Bianco. La creazione di questo alter ego, che prende vita nell’album Station to Station (1976), deriva forse dall’esperienza cinematografica vissuta ne L’uomo che cadde sulla terra. 

Il Duca Bianco era un personaggio odioso, per stessa ammissione di Bowie, era freddo, ariano quasi ieratico. Nonostante l’album contenga la hit Golden Years, il cantante sta affrontando un periodo buio e difficile dovuto ai problemi legati allo stress e alle tossicodipendenze; insomma non è tutto oro quello che luccica.

Inoltre a causa dell’aspetto ariano e per alcune dichiarazioni, in questo periodo, vienne spesso accusato di fomentare fascismo e nazismo.

Il Duca era un alter ego diametralmente opposto a Ziggy: i capelli erano laccati all’indietro, le tutine erano state sostituite da abiti impeccabili ed eleganti. Il successo però fu travolgente, il pubblico amava il Duca Bianco…non ne aveva mai abbastanza.

Ma è nell’ultimo album, Blackstar, che Bowie si spoglia e ci presenta la sua vera identità: David Robert Jones. Qui è un profeta, cieco, e ci preannuncia la sua morte.

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© Photo by Sukita 2019

Bowie era malato da tempo di cancro e questo album è il suo epitaffio, il suo addio ai fan. I video che lo ritraggono steso in un letto  assumono un significato più profondo che, ad una prima vista, era impossibile cogliere.

Sapeva che la malattia lo stava traghettando verso la fine e, fino all’ultimo, Bowie è stato un uomo di scena. Blackstar è il suo saluto, il suo congedo dal mondo.

Con la sua morte, il 10 gennaio 2016, non abbiamo perso solo Bowie abbiamo perso tutti i suoi alter ego: Ziggie, Aladdin, Jack, Il Duca e, ovviamente, David Robert Jones.

 

Laura Losi

BIRØ – Episodio 2

Ecco il secondo episodio scritto da BIRØ, cantautore classe 1990 originario di Varese.

Il suo “Capitolo 1: La Notte” (Vetrodischi) è un progetto che mira a coniugare testi propri della tradizione cantautorale italiana con la musica elettronica per raccontare storie attraverso musica e parole. I suoi brani raccontano eventi legati tra loro e come le pagine di un libro seguono uno sviluppo cronologico.

“Capitolo 1: La Notte” è la storia di un uomo che analizza le sue ossessioni, le sue paure e i suoi vizi, ma anche le proprie gioie e fortune, il tutto grazie ad uno stile narrativo personale. Tutti i brani sono ambientati in un’unica notte e questo spazio temporale diventa il filo conduttore tra una canzone e l’altra: i toni crepuscolari dei testi di BIRØ trovano nella commistione tra cantautorato ed elettronica un compagno perfetto per questo viaggio che dura fino all’alba.

Dopo la pubblicazione di “Incipit”, il suo primo EP ufficiale, BIRØ si è fatto conoscere al grande pubblico con un fortunato tour che ha avuto appuntamenti importanti come il Mi Ami 2017 e il Collisioni Festival riscuotendo ottimi feedback di pubblico e critica, candidandosi di diritto quale nome su cui puntare per il futuro.

Biro ci racconta, attraverso tre racconti brevi e inediti, il significato delle sue canzoni in maniera più ampia.

Il racconto è come un’espansione dell’universo narrativo del personaggio protagonista del disco. Mentre nel disco vengono presi in dettaglio certi punti e aspetti, nel racconto questi dettagli vengono messi sotto la lente d’ingrandimento.

La necessità era quella di raccontare il punto di vista del protagonista a partire soprattutto dalla sua solitudine e dalle sue dipendenze. Il disco sicuramente fa ben capire questi aspetti e penso riesca a riportarne una chiara immagine, mi sembrava che però ci fosse l’esigenza di spiegare anche il perché lui si sia ritrovato, le cause e le circostanze. E magari quali potrebbero essere le sue prospettive.

 

Buona lettura e correte ad ascoltare il suo album!

2 EPISODIO

 

E’ molto peggio di quello che pensavo.

E’ così che doveva andare.

L’ematoma è gigantesco e violaceo. Ci credo che il capo mi ha rotto i coglioni.

Coglila come un’opportunità, tipo smetterla di fare cazzate.

E’ un bel casino, se non mi ha licenziato questa volta non mi licenzierà più.

Smettila di lamentarti!

Si smettila di lamentarti.

Mi guardo riflesso nello specchietto retrovisore. Il livido è veramente gonfissimo e fa male anche toccarlo. A dirla tutta ho dolori il tutto il corpo, cadendo devo aver picchiato la schiena e non riesco quasi a muovermi. Non vedo l’ora di essere a casa, prendere un paio di antidolorifici e sparire fino a domattina.

E’ un altro giorno di pioggia, come tanti altri giorni che l’hanno preceduto e tanti altri che seguiranno solo che oggi fa più schifo di tutti gli altri giorni.
Riesco dopo un’ora e spiccioli di tangenziale ad arrivare sotto casa, parcheggio e molto dolosamente cerco di uscire dalla macchina.

L’ombrello ovviamente (ovviamente) l’ho lasciato a casa stamattina e ho troppi dolori in troppi punti del corpo per riuscire a correre, così cammino lungo i muri cercando di farmi riparo con i balconi.

Passo di fianco al kebbabbaro che vedo ogni sera tornato dal lavoro, mi saluta con la mano.

Dai per favore, almeno stavolta non farlo.

Apro la porta dell’appartamento e stappo una sessantasei, metto le altre nel frigo.

Potrei mettere su un disco, accendere la tele, tenere qualcosa di sottofondo ma non ho voglia. Ho voglia di silenzio. Di tanto silenzio.

Tiro fuori il cellulare, passo il pollice sullo schermo spento e rotto. Nessuna chiamata, nessun messaggio, nessuna notifica.

Allungo il braccio per prendere il pacchetto di sigarette sul tavolo e una fitta mi attraversa la testa. Impreco e bevo un sorso di birra.

E’ inutile, non hai imparato nulla.

Da domani smetterò.

L’hai già detto mille volte in base a cosa è diverso?

Lo schermo del cellulare si illumina. E’ una notifica di Facebook, invito ad un evento.
Apro incuriosito, io non vengo mai invitato agli eventi.

E’ di un mio collega. Sembra che si sposi e vuole organizzare qualcosa con quelli dell’ufficio. Che cazzo vuol dire? Uno si sposa e fa una festa con “quelli dell’ufficio”.

E’ stato gentile.

E poi sicuramente l’avrà fatto per pietà visto con che faccia mi sono presentato.

E’ stato gentile. Non fare lo stronzo.

Mi sembra assurdo, ce li avrà degli amici, qualcuno con cui passare il tempo.

E tu?

Il silenzio mi ha già rotto i coglioni.

Prendo il telecomando e accendo su un canale a caso. Non ha veramente importanza che cosa sia, basta che mi scivoli addosso.
Sono irrequieto, giro come uno squalo nella stanza. Dò nuovamente un’occhiata al cellulare. Nulla, niente di niente. Silenzio radio. Non mi ha nemmeno scritto  come sto, se mi fa male la botta e io ovviamente le direi che no, che non è niente e…

Che ti dispiace?

Che mi dispiace per come sono andate le cose…

Bravo! Bel discorso… guarda sicuramente dopo sta cagata si rilancerà tra le tue braccia.

Ma chi voglio prendere in giro? Sono cambiate troppe cose e io stesso ho avuto troppe occasioni per cambiarle senza mai coglierle.

Ti ricordi una volta?

Com’era bello una volta, quando ci conoscevamo appena e lei era innamorata. Io ero innamorato. Non eravamo nemmeno maggiorenni. Praticamente nella mia vita ho passato più tempo con lei che con me stesso. Eravamo ragazzini, ci promettevamo tutto, ci dicevamo che sarebbe andato tutto bene, che avremmo avuto una casa dove passare le vacanze, forse un gatto ma sicuramente una macchina per i bambini.

Poi non ricordo quando le cose sono cambiate, all’improvviso abbiamo cominciato a parlare del fatto che non stavamo dietro le spese, che non facevamo in tempo a sistemare qualcosa che già un’altra si rompeva.

E in quel momento probabilmente era già troppo tardi per recuperare qualsiasi cosa, raschiavamo il fondo per cercare qualcosa che non esisteva più e non so proprio spiegarmi come sia successo, né quando ma soprattutto non ho idea del perché e non lo sopporto; non lo sopporto davvero.

 

 

Com’era bello una volta.

Il Musical e l’Italia: il successo targato Disney

Se vi dico Walt Disney, quale immagine si forma nella vostra mente? Prima di tutto, sicuramente, vi strapperei un sorriso.

Dopo di che la vostra fantasia inizierebbe a viaggiare, toccando gli angoli più vivi e colorati dell’infanzia, guidata da quella magia eterna che, oggi come ieri, rende la Walt Disney Company sovrana  indiscussa dell’intrattenimento. 

Ebbene, per quanto possa sembrare pacifico e prospero tutto questo, anche la Disney ha attraversato un periodo buio causato, nel 1966, dalla morte del suo iconico papà, Walt Disney.

Tra alti e bassi l’azienda non tornò a galla fino al 1989 quando un’idea pazza, quanto efficace, rivoluzionò la storia del cinema: costruire la narrazione dei lungometraggi animati esattamente come quella di un musical di Broadway.

Infatti, il 15 Novembre 1989, uscì nelle sale cinematografiche statunitensi il 28° Classico Disney: La Sirenetta. 

Il lungometraggio presentava tutte le caratteristiche che un musical di successo dovrebbe avere: numeri di ballo, canzoni indimenticabili e una capacità d’intrattenere incredibilmente efficace.

 

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L’incredibile struttura che riproduce l’albero della nave del Principe Eric, da “The Little Mermaid” a Broadway

 

Inutile dirlo, questo schema ebbe così tanto successo che la Disney tornò sulla cresta dell’onda e ci rimase producendo quei capolavori che insieme vengono chiamati ancora oggi “il leggendario trio” ovvero La Sirenetta, La Bella e la Bestia Aladdin.

Fu così che si entrò in quel florido periodo conosciuto come il “Rinascimento Disney”.

Non passò molto tempo, però,  prima che il leggendario trio sentisse il richiamo delle proprie origini. Nel 1993 nacque la Disney Theatrical Production, con l’intento di portare sui palchi di Broadway il successo planetario di Beauty and the Beast.

Ma come tramutare quelle incredibili animazioni in spettacolo, senza correre il rischio di rendere il tutto un gigantesco flop? 

Inevitabilmente fu necessario sbattere la testa sul fatto che il musical è si una forma d’arte meravigliosa e complicata, ma soprattutto costosa. La mediocrità è facile da sfiorare quando scegli la strada del musical. 

Precedentemente abbiamo parlato di quanto sia difficile produrre un musical tradizionale, soprattutto in Italia, poiché il denaro da investire per questo tipo d’intrattenimento scarseggia e l’incognita successo è parecchio determinata dal prezzo del biglietto. 

Raccontare allo spettatore la difficoltà di produzione, esaltandone impegno e virtù, è il primo passo per riempire i teatri. 

L’esempio di Mary Poppins, il musical italiano che ha fatto sognare adulti i bambini riscuotendo un enorme successo, vi sembrerà ridondante ma  ci serve per capire che l’amore tra il musical e l’Italia è davvero possibile.

 

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Numero musicale tratto dal musical Disney “Newsies”, in cartellone al Teatro Nazionale di Milano prima del successo di “Mary Poppins”.

 

Potremmo chiederci però cosa porta le persone ad assistere ad un musical Disney, quando la storia è la medesima, vista e rivista da generazioni di bambini ed adulti sulle VHS ed al cinema.

Sì, è vero, quando Disney porta sul palco le proprie storie queste non hanno bisogno di presentazioni. Per prima cosa la musica viene utilizzata per dare definizione e carisma allo spettacolo e per portare qualcosa di nuovo al pubblico, che sia in linea però con il lungometraggio omonimo.

Infatti è tradizione che siano aggiunte canzoni create appositamente per le versioni teatrali della storia; fortunatamente la Disney può permettersi di chiamare a raccolta lo stesso team che precedentemente ha lavorato al film. 

Dopo la riuscitissima realizzazione sperimentale di musical come Beauty and the Beast e The Little Mermaid, fu proprio con Aladdin che la Disney celebrò maggiormente il legame originario tra musical e lungometraggio. In questa storia lo schema del musical è molto più marcato, rispetto a quello dei suoi fratelli maggiori, proprio per celebrare il fatto che fu la scelta di questa tipologia di narrazione a salvare la Disney dai suoi anni bui.

Trasformare Aladdin in spettacolo fu come riportarlo alle sue origini: un gioco da ragazzi, si può dire. Friend like me, il brano cantato dal Genio della Lampada, ormai fa parte del DNA di Broadway.

I suoi genitori, il compositore Alan Menken e il paroliere Howard Ashman, sono i creatori delle canzoni che resero “il leggendario trio” il perfetto esempio di spettacolo allo stato puro.

Per loro, tornare a lavorare per Broadway, dopo Sister Act e La Piccola Bottega degli Orrori fu come tornare a casa dopo un lungo viaggio nell’animazione.

Per renderlo ancor più spettacolarizzabile Menken pregò i dirigenti di liberare Aladdin il Musical dai diritti d’autore, consentendo alle scuole di metterlo in scena senza problemi.

Sta di fatto che Disney portò Broadway sul grande schermo e ne fece un’infallibile ricetta per il successo. In seguito, riconsegnò quella ricetta al palcoscenico. 

Da qualche anno a questa parte, iniziando con La Bella e la Bestia, dato il trionfo  illimitato dei suoi musical teatrali, la Disney sta riportando Broadway sul grande schermo, continuando quest’anno con l’uscita nelle sale cinematografiche dei musical in live action di Aladdin e de Il Re Leone.

Broadway/cinema/Broadway/cinema. Mio Dio, un Inception Disney.

 

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Un giovane Simba sale sulla Rupe dei Re, dal musical “The Lion King” a Broadway.

 

Spesso il successo di uno spettacolo dipende anche dalla qualità degli effetti speciali che devono essere convincenti per sbalordire il pubblico. 

La magia, in un musical come Aladdin, è una prerogativa così, per i suoi effetti speciali, Disney si rivolse al maestro dell’illusionismo Jim Steinmeyer, che divenne membro attivo del team creativo.

Per le scenografie, le luci ed i costumi l’intero team intraprese un viaggio in Marocco, per rubarne le atmosfere e le tradizioni.

Così, da 8 anni a questa parte, ogni replica di Aladdin è un tributo a tecnici, artisti, costruttori e supervisori  che hanno lavorato senza sosta per una ragione soltanto: estasiare noi, i loro spettatori.

 

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Numero musicale “Arabian Night” tratto dal musical “Alladin” nel West End di Londra

 

Per quanto il teatro possa essere appagante e liberatorio per un artista, lo spettacolo è, in realtà, confezionato per il pubblico: occorre affinare il più possibile la capacità di carpirne sogni e bisogni, se si vuole arrivare ad un prodigioso successo. 

Per quanto possa essere complicato mettere in scena una rappresentazione stabile in un teatro, lo è ancor di più pensare ad uno spettacolo di questa portata che possa spostarsi da una città all’altra.

Quando nel 1991 Rob Roth, veterano regista di Broadway, vide al cinema La Bella e la Bestia, impazzì per il film perché, nel vederlo, si accorse di quanto fosse comparabile ad un vero e proprio musical. 

Quando Disney gli chiese di dirigerne la versione teatrale, esplose di felicità. 

 

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Insegna del musical Disney “Beauty and the Beast”

 

Poi, dopo mesi di pre-produzione ed il successo di Beauty and the Beast a Broadway, gli venne chiesto di riadattare la sua creatura ad un musical da tournè. La cosa non fu affatto semplice:

Abbiamo portato lo show in tutto il mondo, ho volato personalmente in Australia, Giappone, Vienna, Los Angeles e Germania, per ricercare in loco il perfetto team creativo. Per me è stato un onore lavorare con così tanti artisti ed attori nel mondo, ho imparato che le emozioni sono un linguaggio universale.

Ma, ogni volta che lo spettacolo si vestiva di un nuovo teatro, in una nuova città, le modifiche da apportare erano troppo numerose. Le luci, le scenografie, le scelte stilistiche, tutto completamente da rifare..

Per noi, c’era solo una strada: tornare alla pre produzione e reinventarsi, così da creare uno spettacolo su misura per ogni nuova location.

Per rendere giustizia alla sua opera Roth fece un’ accuratissima ricerca, prese aerei e passò notti intere, insieme ai suoi tecnici, a modificare lo spettacolo senza danni far danni. Tutto, perché la magia creata dal team non si disperdesse. 

Pensate un attimo a quanto un musical da tournè perda di qualità nel passare da un teatro all’altro. 

In Italia, questo succede ogni volta. Le luci, i colori, le scenografie, il sonoro, l’impostazione dei performer sul palco, ovvero il lavoro di tantissimi professionisti che hanno studiato giornate intere, tutto sarebbe da rifare e, vi assicuro, il pomeriggio che si ha a disposizione non è per nulla sufficiente. 

Come risolvere l’eterna lotta tra la ricerca della qualità e l’enorme investimento economico e creativo necessario per portare sui palchi italiani un vero musical tradizionale?  

 

Valentina Gessaroli

Hokusai Hiroshige: Oltre l’Onda

• Il fascino dell’Oriente da Debussy ai Cavalieri Jedi •

 

Immaginate per un attimo, nei panni di un artista europeo del 1867, di attraversare i grandi cancelli dell’Esposizione Universale di Parigi. In questa edizione gli argomenti trattati sono l’agricoltura, l’industria e le arti.

A costo d’essere scontati, entrando, cercherete con lo sguardo l’area dedicata alle avanguardie artistiche. Incuriositi dal padiglione del Giappone ne varcherete la soglia ignari che, di lì a poco, sarete inondati da qualcosa che cambierà per sempre il modo in cui l’occidentale concepisce l’arte.

Alzando gli occhi li sgranerete entrando in contatto con qualcosa di così extraterrestre, da farvi sentire insieme spaventati e meravigliati: le stampe giapponesi, pregne di un fascino tanto ignoto e misterioso, conquistano immediatamente i nostri cuori e le nostre menti avide di sconosciuto.

 

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Katsushika Hokusai, “Vento del Sud, Cielo sereno” anche noto come “Fuji Rosso” dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji”.

 

In occidente, vi assicuro, nulla del genere si era mai visto poiché il Giappone, per preservare la sua identità, fino a quel momento visse nel più totale isolamento.

Uno tsunami incontrollabile svegliò voci nascoste nei cuori degli artisti; la rivoluzione creativa fu inevitabile e da questa nacque quel pregevole dono per il quale saremo per sempre debitori all’Oriente: l’Art Nouveau.

 

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Manifesto dell’Esposizione Universale di Torino del 1902

 

Oggi, nel 2019, dopo secoli di conoscenza ed istruzione, ciò che noi europei potremmo provare davanti alle opere giapponesi dovrebbe tradursi in un sentimento edulcorato e sbiadito.

Invece, entrando nel Museo Civico Archeologico di Bologna, ci ritroviamo tutti con le mani appoggiate sul viso e gli occhi sgranati, mentre ci godiamo quella sensazione aliena che proviamo noi occidentali quando si tratta d’Oriente.

Questa roba fa paura, giuro, perché vorresti capirla anzi, credi di capirla ma non è così, non è possibile, è di un altro pianeta. E questo, irrimediabilmente, ci attira spaventandoci ora come 150 anni fa. 

 

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Katsushika Hokusai, “Kajikazawa nella provincia Kai”, dalla serie “Le Trentasei vedute del Monte Fuji”.

 

La mostra  Hokusai Hiroshige – Oltre l’Onda si fa traghettatrice di un viaggio attraverso l’arte della stampa giapponese, arte che necessita di una disciplina ed di una concentrazione unica.

L’allestimento è davvero intelligente, non solo perché finalizzato alla comprensione dei due maestri dell’arte Ukiyo-e, ma perché porta il pubblico a confrontarne le opere, individuandone sì le uguaglianze e le differenze, ma anche le motivazioni che hanno portato ad esse. 

 

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Utagawa Hiroshige, “Ōhashi. Acquazzone ad Atake” dalla serie “Cento vedute di luoghi celebri di Edo”.

 

Ma che cos’è l’arte Ukiyo-e? Letteralmente il termine significa “dipinto del mondo fluttuante” e per i buddisti rappresenta la fugacità e la precarietà delle cose terrene, dalla quale il saggio doveva allontanarsi il più possibile.

Nel Seicento il significato del termine venne rovesciato poiché furono proprio quei desideri effimeri e fluttuanti a rendere preziosa la vita terrena.

La pittura giapponese, infatti, era fatta di attimi fuggenti: immobilizzava con strumenti inspiegabili un istante nel tempo e nello spazio, rendendolo eterno, evanescente e fluttuante.

Il più grande maestro che l’Ukiyo-e conobbe fu Katsushika Hokusai (1760-1849) che definì se stesso “solo un vecchio pazzo per l’arte”. Anche noi siamo pazzi per l’arte, la sua. 

 

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Katsushika Hokusai, “Nakahara nella provincia di Sagami” dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji”.

 

Nelle sue opere il maestro riesce a creare qualcosa di eccezionale e mai scontato, nonostante lo schema sia sempre il medesimo: in primo piano la vita quotidiana dell’uomo, sullo sfondo la natura potente e spaventosa, seppur spesso silente ed addormentata.

La mostra, dopo averci presentato Hokusai e le sue trentasei vedute del monte Fuji, ci guida davanti alla vera protagonista dell’esposizione: La Grande Onda presso la costa di Kanagawa.

 

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Katsushika Hokusai, “La [grande] onda presso la costa di Kanagawa”, dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji”.

Una giornata, per ammirarla, non sarebbe bastata.

Per quanto possa essere minacciosa la natura per Hokusai, rappresenterà sempre l’armonia, la pace e l’eterna costante dell’uomo.

Il sentirsi impotenti davanti alla furia della natura, secondo la filosofia giapponese, è una certezza rassicurante. Accanto a lei, in una teca gemella, troviamo una stampa del più giovane Utagawa Hiroshige (17731829) che rappresenta un’onda ispirata a quella del grande maestro Hokusai, chiamata Il Mare a Satta nella provincia di Suruga.

L’Onda di Hokusai, a differenza di quella di Hiroshige, urla, ruggisce e assale le fragili navi con i suoi schiumosi artigli di drago, creando uno spettacolo drammatico. 

 

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Utagawa Hiroshige, “Il mare di Satta nella provincia di Suruga” dalla serie “Trentasei vedute del Fuji”.

 

L’Onda di Hiroshige, invece, capovolge l’inquadratura portando l’umano sullo sfondo ed il mare in primo piano.

Rappresenta una natura pacifica e materna, nella quale le navi viaggiano serene dove il pericolo è lontano. Entrambi gli artisti, inconsapevolmente, aprirono la strada all’invenzione dei celebri manga giapponesi.

Hiroshige si lasciò influenzare dall’arte occidentale, abbandonò la concezione d’istante fluttuante ed immobile di Hokusai, destando i suoi soggetti, animandoli, rendendoli gioviali ed espressivi, in stampe che paiono appena uscite dagli studi di Hayao Miyazaki.

All’Occidente Hokusai regalò, Hiroshige rubò. In più, è evidente che l’avvento della fotografia colpì fortemente il giovane artista, e lo si legge nelle splendide stampe che trasforma in profonde inquadrature fotografiche. 

Dopo aver sconvolto i sentimenti di Monet, la tecnica di Van Gogh ed il tratto di Degas, l’arte giapponese proseguì la corsa alla conquista del cuore occidentale. 

Anche la musica, arte sempre assetata d’influenze, si fece sedurre dal Giappone in una danza misteriosa e fluttuante.

L’amante più devoto fu Claude Debussy, che rimase tanto coinvolto dalla visione de La Grande Onda di Hokusai da comporre, nel 1905, un’incantevole raccolta di schizzi sinfonici a lei dedicata: la celebre Le Mèr. Sulla copertina della prima edizione, per sua scelta, volle proprio l’immagine de La Grande Onda. 

“La musica è un’arte molto giovane, sia nei suoi mezzi, sia per la conoscenza che ne abbiamo”, disse Debussy al suo editore dopo aver compreso quanto basti poco per cambiare irreparabilmente il  modo di vivere le piccole e grandi cose.

Dopo di lui tantissimi musicisti cavalcarono quell’Onda misteriosa, come Igor Stravinsky e Maurice Ravel, lasciandosi trascinare in un mare di profondi gorghi, di misticismo e di tensione.

Giacomo Puccini scelse di rappresentare in musica la storia di Madama Butterfly, una delle opere ancora oggi più famose, proprio perché come ogni altro artista del tempo era desideroso di toccare e plasmare la cultura giapponese, come argilla tra le sue mani.

Attraversando la classica e quella jazz, ancora oggi la musica occidentale porta i segni dorati delle influenze orientali che, inconsapevolmente, peschiamo in grande quantità anche nella cultura popolare.

Basti pensare al wagneriano John Williams che, dopo 50 anni di carriera hollywoodiana, si lascia ancora influenzare da Debussy e, indirettamente, dall’Ukiyo-e.

Per la colonna sonora della saga di Guerre Stellari, sua figlia prediletta, ha scelto quelle atmosfere ascetiche e vaporose tipiche della musica e della filosofia giapponese. Sulle dune di Tatooine o circondati dai Jawa, è inevitabile sentirne la presenza, il profumo, il tocco. 

 

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Utagawa Hiroshige e Utagawa Kunisada I, “Veduta con la neve”.

 

La verità è che molto dell’iconica saga di George Lucas abbraccia caldamente l’Oriente. In fondo, cos’è la filosofia dell’Ukyio-e, se non qualcosa di incredibilmente rassomigliante alla filosofia dei Cavalieri Jedi?

Valentina Gessaroli