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Etichetta discografica: Chrysalis Records

Our Brand Could Be Yr Life

“Pop Art is: Popular (designed for a mass audience), Transient (short-term solution), Expendable (easily forgotten), Low cost, Mass produced, Young (aimed at youth), Witty, Sexy, Gimmicky, Glamorous, Big business.”

– Richard Hamilton

L’ultimo disco dei Bodega non è l’ultimo disco dei Bodega. 
Questa è stata, in estrema sintesi, la dura realtà cui mi sono dovuto confrontare dopo l’iniziale entusiasmo per l’annuncio di un nuovo album della band newyorkese. Our Brand Could Be Yr Life è un remake, una sintesi, una rielaborazione del primo lavoro della band di Ben e Nikki, allora noti come Bodega Bay. È rimasto il titolo, identico, ma si sono ridotte le dimensioni, passando da trenta tracce del disco del 2015 alle quindici di quello appena uscito. 

Il titolo è una citazione del libro di Micheal Azerrad Our Band Could Be Your Life: Scenes from the American Indie Underground, un’analisi della scena musicale indipendente nella decade 1981-1991, della sua cultura e della sua eredità negli anni seguenti. Ma se “band” diventa “brand”, il giudizio che i Bodega danno a questa eredità risulta piuttosto tranchant.

È in qualche modo un concept album, quantomeno ha come sfondo un tema, quello del rapporto dell’indie con il proprio canone, con la stessa struttura commerciale che ha assunto. Un meta-album, che finisce col dissacrare stereotipi e manierismi di categoria.
Tanto che il cuore del disco sta negli otto minuti occupati dai vari capitoli di Cultural Consumer, una trilogia nonché un’analisi in pala d’altare su spleen, decadenza, incapacità e produzione artistica, pastiche postmodernista sul ruolo di chi si professa “artista”.
L’album è un discreto melting pot che mostra chiaro e cristallino il potenziale poi esploso nei dischi successivi. È un prequel pieno di riferimenti e di anticipazioni, seppur rielaborati e rivisti, che ampliano lo spettro di colori entro cui si muovono i Bodega. È un viaggio nel viaggio, perché questo lavoro aveva già la caratteristica dei dischi successivi della band: è al suo interno disomogeneo e per questo sempre sorprendente, è squilibrato al primo incontro, per poi invece trovare un senso dopo qualche ascolto. Un disco intelligente, autoironico e allo stesso tempo leggero. 

Al suo interno si trovano anime diverse, c’è tanto college rock e un’eco sempre presente al sapor anni ottanta, ma anche spigoli e ruvidità, come in ATM o Set the Controls for the Heart of the Drum (citazione tutta per i Pink Floyd, anche se, a livello musicale siamo a distanze siderali).
Abbiamo power pop q.b. e tanta melodia, suggellata da Cultural Consumer III, che puzza di Beatles e vinile. 
Webster Hall invece sembra un tributo ai R.E.M. e alle chitarre di Peter Buck. I Bodega si muovono tra Devo e Weezer, qualcosa dei Velvet Underground riecheggia in Protean, mentre l’approccio intellettuale e dissacrante sembra raccogliere l’eredità dei Talking Heads
C’è tanto, tantissimo peso specifico in questa riedizione del loro primo lavoro. Un album di pop art con una coscienza e una missione, coerente nella forma e dissonante nel contenuto, che dall’interno del canone lavora per mettere a nudo ogni singola contraddizione. 
Nikki chiude il disco con una traccia inedita dedicata a New York, città natale della band. E in qualche modo Brooklyn e la grande mela sono nel DNA della band, tra afflati bohémien e radical chic figli dei social, tra urgenze creative e creativi con urgenze, la band si specchia nel suo ambiente e ne estrae un distillato dolce e pungente, perfetto per un aperitivo con sconosciuti che “fanno cose e vedono gente”.

Morale: l’ultimo disco dei Bodega non è un nuovo disco dei Bodega, ma ribadisce quello che la band ci racconta da nove anni. Lo fa suonandolo meglio, lo fa aggiungendo qualche capitolo. Se li conoscete già, sapete il valore che hanno, se invece partite da zero, questo è il capitolo giusto da cui iniziare. 

Wide Open light

Ben Harper pubblica il suo diciassettesimo album in studio, lasciando a casa band e corrente elettrica. Wide Open Light è un disco delicato, intimista, notturno, perfetto per un’ultima birra nel portico di casa, in estate, a piedi scalzi.
Il portico e la casa, ovviamente, sono quelli di zio Ben, il cielo è quello californiano e la birra la portiamo noi, perché chi ha la chitarra in mano è impegnato a giocare con fantasmi e a fare il conto con riflessioni e bilanci.

Heart and Crown apre il disco in modo strumentale, come accadeva nel lontano 1994 in Welcome to the Cruel World.
Invocata la Musa, si inizia con la prima madelaine del disco, si intitola Giving Ghosts ed è dedicata al padre e al tema del ricordo e della memoria, mentre l’Amore fa il suo ingresso alla terza traccia, quando zio Ben ricorda che “amarti è il mio capolavoro”, nel ritornello di Masterpiece.
8 Minutes invece abbandona il tema acustico, regalandoci un po’ di ritmo e di steel guitar.
Yard Sale è il primo singolo estratto dall’album, forse grazie a un’immancabile collaborazione con Jack Johnson, amico da sempre. Qui il tema è l’amore che finisce, equiparato a una svendita totale senza il reso a quattordici giorni. Il sig. Harper ha una certa età, l’orizzonte poetico delle metafore si è ridotto, acuita invece la sua efficacia.
Trying Not To Fall In Love With You devia dal paradigma voce-chitarra e si lancia in uno struggente pezzo costruito su pianoforte che accompagna un amore negato, forse finito, sicuramente sbagliato.
In Wide Open Light si celebrano temi come la salvezza, il viaggio, la fuga, l’amore. Una canzone piena di topoi che doveva avere un posto nel nuovo album, e che farà felici gli amanti dell’Harper più classico.
One More Change è una canzone figlia di un autore nel pieno di una maturità non solo artistica. Album stesso è un manuale di riflessioni sulla mezza età. Molto sul passato, pochissimo sul presente, troppo sul futuro.
Così come in Growing Growing Gone che di fatto è una meravigliosa riflessione da papà, sul tempo che ogni tanto ti fa saltare agli occhi quanto sia cresciuta tua figlia. E così di colpo ti ritrovi sul sedile del passeggero, mentre lei guida. Lei cresce, tu cresci, ma lei lo fa cambiando meglio di te.
E così l’album si fa sempre più malinconico, traccia dopo traccia, come in Love After Love il cui titolo, credo, dice tutto e che impone il successivo silenzio, regalandoci una Thank You Pat Brayer solo strumentale. Il cerchio si apre e si chiude solo con musica, i ricordi sono sfocati, possiamo posare l’ultima birra.
Un disco che parla di ricordi e che è fatto di ricordi, perché molte canzoni sono state scritte anni fa: la title track è stata eseguita per la prima volta a Imola nel 2012, Heart and Crown risale al 2016, ai tempi di Call It What It Is. Altri pezzi, come Masterpiece e One More Change, erano presenti in album di cover di altri artisti.

È un disco che torna alle radici della carriera di Ben Harper, quasi essenziale nella sua esecuzione.
Chitarra, qualche incursione di basso, un pianoforte.
E poi storie e voci, un po’ di Jack Johnson.
E canzoni rimaste indietro, rimaste incastrate nel tempo.
Wide Open Light è una casa, un luogo dove contenere dei ricordi. Anzi, è il portico di casa Harper, dove condividere canzoni serve un po’ da terapia, contro il tempo che passa e contro quello che verrà. Senza rabbia, né fretta.