Tomorrow Never Comes
“Lo spirito umano è indistruttibile.
La musica è stata la nostra salvezza fin dal primo giorno.
Lo spirito umano è indistruttibile.”
Tim Armstrong
Ti sei mai sentito inadeguato, fuori dal comune senso di normalità?
La vita spesso ti ha portato col culo per terra, e ti sei rialzato con le tue braccia?
Nonostante tu abbia un’età definita comunemente adulta mantieni una sensazione di disprezzo per la società?
Se hai bisogno di urlare e sfogarti questo album è per te.
Siete pronti a rispolverare la giacca di pelle con le borchie e le creste colorate?
Loro sono i Rancid, gruppo californiano formatosi nel lontano 1991. Tornano con una mina pazzesca,Tomorrow Never Comes, per l’etichetta Epitaph Records, di cui già facevano parte insieme ai NOFX ed altri gruppi di punta del punk anni ‘90.
Quasi impossibile riassumere in poche righe la loro storia ed evoluzione nel corso tempo. Partono a manetta con uno stile punk, inspirato al buon vecchio stampo British, nel ‘94 l’album Let’s Go è premiato come disco d’oro, trainando il carretto della notorietà come gruppo punk rock.
Dopo un’intossicazione nello ska punk e reggae jamaicano nel ‘98 (l’album Life Won’t Wait, giudicato da stampa e fan un flop, in quanto inteso come un tradimento alle radici punk della band), tornano incazzatissimi e sbraitanti con un album hardcore punk Rancid e partecipano ad un episodio diSouth Parknel 2000, col brano Brad Logan. Nel 2002 pubblicano uno split con i NOFX (BYO Split Series/Volume III), ma questo anno è caratterizzato da molte perdite personali e una crisi emotiva ed esistenziale che li porterà a sfornare Indestructible nel 2003, album molto personale in cui infilano comunque le sonorità ska punk affiancate da brani hardcore punk.
Ricompaiono dopo sette anni dimostrando che il punk scorre ancora nelle loro vene e con questo ultimo lavoro sono decisi a farci scatenare e pogare nel peggiore dei modi.
La loro incorruttibilità verso le major è storica, non si sono mai piegati e hanno sempre difeso la libertà creativa, anche quella di sperimentare su terreni poco conformi, come lo ska punk e il reggae.
Ma non è solo il sound tipicamente punk a eccitare, sono soprattutto le tematiche. Convinti punkettoni, attraverso la musica affrontano tematiche sociali e politiche, come nel singolo che da il nome all’album Tomorrow Never Comesdove si lamentano di un mondo che è fermo, in cui non esistono diritti civili e l’unica opzione possibile è ribellarsi, alzarsi e lottare per far sorgere un sole nuovo.
L’accoppiata vincente delle voci di Tim Armstrong e Lars Frederiksen, il basso impazzito di Matt Freeman e la batteria sconsiderata di Branden Steineckert hanno una freschezza autentica e l’età non sembra aver scalfito il loro spirito riottoso né la loro voglia di farsi ascoltare attraverso il canale comunicativo musicale.
La loro natura indocile e spiccatamente contro il sistema è urlata in pieno stile punk in Devil in Disguise, dove ci mettono in guardia dai diavoli moderni travestiti da brave persone, da chi vuole spolparci il portafoglio, dai poliziotti che abusano della propria divisa, il loro consiglio è di guardarsi bene intorno e non giudicare mai una persona da come appare.
L’intro di Don’t Make Me Do It è feroce, sono 58 secondi di prepotenza su tutti gli strumenti, il seguente brano It’s a Road to Righteousness ha un ritornello orecchiabile che si presta perfettamente ad essere cantato sotto la doccia durante i nostri concerti privati.
Vivremo per sempre, con la nostra mentalità e niente ci cambierà questo ammettono inLive Forever.
In questo album portano gli strumenti ad un livello sublime, la batteria è instancabile, le schitarrate e gli assoli sono ineccepibili in Magnificent Rogue nell’intro di Hears Us Out, i ritmi sono serratissimi in One Way Tickete Hellbound Train; l’assolo di basso nell’intro di Eddie the Butcherè galvanizzante.
Sono ancora i ragazzetti incazzati e ostili di sempre, il tempo non sembra aver esaurito la loro voglia di far casino e soprattutto di lamentarsi del marcio presente in questo mondo avariato.
I Rancid: data di scadenza è non pervenuta.
Wide Open light
Ben Harper pubblica il suo diciassettesimo album in studio, lasciando a casa band e corrente elettrica. Wide Open Light è un disco delicato, intimista, notturno, perfetto per un’ultima birra nel portico di casa, in estate, a piedi scalzi.
Il portico e la casa, ovviamente, sono quelli di zio Ben, il cielo è quello californiano e la birra la portiamo noi, perché chi ha la chitarra in mano è impegnato a giocare con fantasmi e a fare il conto con riflessioni e bilanci.
Heart and Crown apre il disco in modo strumentale, come accadeva nel lontano 1994 in Welcome to the Cruel World.
Invocata la Musa, si inizia con la prima madelaine del disco, si intitola Giving Ghosts ed è dedicata al padre e al tema del ricordo e della memoria, mentre l’Amore fa il suo ingresso alla terza traccia, quando zio Ben ricorda che “amarti è il mio capolavoro”, nel ritornello di Masterpiece.
8 Minutes invece abbandona il tema acustico, regalandoci un po’ di ritmo e di steel guitar.
Yard Sale è il primo singolo estratto dall’album, forse grazie a un’immancabile collaborazione con Jack Johnson, amico da sempre. Qui il tema è l’amore che finisce, equiparato a una svendita totale senza il reso a quattordici giorni. Il sig. Harper ha una certa età, l’orizzonte poetico delle metafore si è ridotto, acuita invece la sua efficacia.
Trying Not To Fall In Love With You devia dal paradigma voce-chitarra e si lancia in uno struggente pezzo costruito su pianoforte che accompagna un amore negato, forse finito, sicuramente sbagliato.
In Wide Open Light si celebrano temi come la salvezza, il viaggio, la fuga, l’amore. Una canzone piena di topoi che doveva avere un posto nel nuovo album, e che farà felici gli amanti dell’Harper più classico.
One More Change è una canzone figlia di un autore nel pieno di una maturità non solo artistica. Album stesso è un manuale di riflessioni sulla mezza età. Molto sul passato, pochissimo sul presente, troppo sul futuro.
Così come in Growing Growing Gone che di fatto è una meravigliosa riflessione da papà, sul tempo che ogni tanto ti fa saltare agli occhi quanto sia cresciuta tua figlia. E così di colpo ti ritrovi sul sedile del passeggero, mentre lei guida. Lei cresce, tu cresci, ma lei lo fa cambiando meglio di te.
E così l’album si fa sempre più malinconico, traccia dopo traccia, come in Love After Love il cui titolo, credo, dice tutto e che impone il successivo silenzio, regalandoci una Thank You Pat Brayer solo strumentale. Il cerchio si apre e si chiude solo con musica, i ricordi sono sfocati, possiamo posare l’ultima birra.
Un disco che parla di ricordi e che è fatto di ricordi, perché molte canzoni sono state scritte anni fa: la title track è stata eseguita per la prima volta a Imola nel 2012, Heart and Crown risale al 2016, ai tempi di Call It What It Is. Altri pezzi, come Masterpiece e One More Change, erano presenti in album di cover di altri artisti.
È un disco che torna alle radici della carriera di Ben Harper, quasi essenziale nella sua esecuzione.
Chitarra, qualche incursione di basso, un pianoforte.
E poi storie e voci, un po’ di Jack Johnson.
E canzoni rimaste indietro, rimaste incastrate nel tempo.
Wide Open Light è una casa, un luogo dove contenere dei ricordi. Anzi, è il portico di casa Harper, dove condividere canzoni serve un po’ da terapia, contro il tempo che passa e contro quello che verrà. Senza rabbia, né fretta.
Tre Domande a: Kublai
Come e quando è nato questo progetto?
Il progetto Kublai è nato ufficialmente nel 2020, con l’uscita di un disco omonimo. In realtà era un’idea che covavo da tempo, sentivo la necessità di avere un contenitore che non coincidesse con la mia persona, avvertivo – e avverto ancora – una sorta di claustrofobia nel vestire i panni del cantautore. Non che rinneghi questo titolo, ma l’idea che sta alla base di Kublai è di non accontentarsi di sé stessi, di cercare un po’ più in là. La maniera più semplice per fare ciò è contaminarsi, così ho scritto quel disco insieme a Filippo Slaviero, e ne è uscito un album che racconta un’amicizia, un dialogo, un rapporto tra due anime opposte. Questo, in poche parole, è Kublai.
Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?
Per quanto detto qui sopra, quando collabori con altre persone è impossibile avere un controllo sul risultato finale. So per certo di non voler comunicare a livello cognitivo, i miei testi non sono sempre intellegibili e non ho “contenuti” precisi. Cerco sempre l’ambiguità, credo che la comunicazione “dritta”, nella musica, non abbia molto senso. Mi piacerebbe che ascoltando Kublai si avesse la sensazione di un ritorno a casa, non come un luogo per forza rassicurante, di cui si ha nostalgia, ma come un antro colmo di asperità, anche spaventose, ma comunque enorme e bellissimo, comunque casa.
Qual è la cosa che ami di più del fare musica?
La cosa più bella di fare musica è farla, cioè usare tutte le possibilità espressive che ti offre. Come dicevo prima, fare musica esclusivamente per veicolare contenuti che hanno altri scopi, o che potrebbero passare da altri canali, è riduttivo, non sfrutta appieno le sue potenzialità. Melodia, armonia, ritmo, intensità, sono strumenti molto fiochi nel linguaggio quotidiano, mentre in musica esplodono, sono potentissimi. Spesso invece facciamo musica “come se parlassimo”, senza l’enfasi che questi mezzi ci offrirebbero. Ma una parola cantata contiene molte più informazioni di una detta, e una parola cantata in un modo, né contiene molte di più di una cantata in un altro, con un’altra melodia, con un’altra scansione. La bellezza del fare musica è disporre di questa cornucopia, giocare a trovare delle regole tra queste infinite combinazioni e possibilità.