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Deadletter @ Arti Vive Festival

Soliera, 3 Luglio 2025

Ormai l’Arti Vive di Soliera è come il caffè a fine pasto, come ascoltare Venditti prima dell’esame di maturità, come trovare Una Poltrona per Due in TV la sera della vigilia di Natale: una confortante consuetudine, un immancabile appuntamento fisso che si aspetta con ansia. Sarà che c’è un clima disteso al posto del classico trambusto dei festival estivi, sarà che ci si può andare in espadrillas senza tornare a casa dolenti e claudicanti, sarà che il programma prevede sempre nomi nuovi e interessanti e che i concerti costano poco o niente (letteralmente, alcuni sono gratuiti), sarà che il listino prezzi assomiglia a quello di un centro sociale e non a quello di un bar vista duomo in piazza San Marco, sarà (soprattutto) che l’audio è perfetto; sarà che è una piacevole eccezione nel panorama concertistico italiano, ma a questo festival si sta come in piscina (o davanti al ventilatore, de gustibus non est disputandum) quando fuori ci sono 40 gradi: benissimo. Sollievo e comfort sono dunque le parole chiave per descrivere l’atmosfera che colora Soliera in questi giorni, parole in netta antitesi con la musica disturbante e ossessionante proposta dalle due band che sono salite sul palcoscenico durante la serata inaugurale dell’edizione di quest’anno. 

Ad accendere gli amplificatori sono stati i Leatherette che, grazie al loro sound internazionale, avrebbero potuto essere scambiati per un gruppo inglese se il cantante e sassofonista (tranquilli, non è un ventriloquo e non fa le due cose insieme, prima canta e poi soffia nell’ancia) incredibilmente somigliante a Johnny Rotten nelle pose e nel taglio di capelli non avesse detto che in verità vengono da Bologna mentre si rotolava e si contorceva alla fine del set. Terminato il prologo, perfetto per stile e registro, offertoci dall’autoctono quintetto, sono saliti sul palco i Deadletter; questi, immemori del loro status di headliner, hanno srotolato i cavi e accordato gli strumenti secondo l’etica lavorativa tipica della periferia inglese tutta proletariato e birra chiara da cui provengono, prima di iniziare a suonare. Un apprezzabile segno di umiltà. 

I tratti distintivi della musica dei Deadletter e del concerto di ieri sono essenzialmente tre: la ferocia post-punk delle tracce, la robustezza della sezione ritmica (il lavoro, anche a livello armonico, del bassista è veramente notevole) e l’incalzante, magnetica via di mezzo tra cantato e parlato che il frontman appoggia su basi musicali ipnotiche muovendosi come una sorta di controfigura scoordinata ed esagitata di Iggy Pop. L’influenza dell’iguana e dei suoi Stooges si riscontra anche negli inserti di sax di funhousiana memoria che punteggiano le parti strumentali, una scelta che porta le canzoni in ambienti vagamente avanguardistici. Le canzoni hanno il battito accelerato, sono concitate, sfrenate e serrate e l’impatto sul pubblico è forte ma forse, a lungo andare, risultano monodimensionali: la voce è amelodica (passatemi il neologismo) e apatica, i chitarristi sono orientati a produrre feedback ed effetti psichedelici e disarmonici più che a suonare note chiaramente decifrabili e le influenze non sono troppo varie: ogni tanto si è sentito qualche pattern ballabile di batteria nello stile dei Franz Ferdinand, ogni tanto qualche eco di band punk come i Clash o i Modern Lovers (è questo il caso del pezzo di apertura, uno dei più convincenti della serata) ma nel complesso le composizioni dei Deadletter si presentano come entità monolitiche, certamente energiche ma con una gamma cromatica ridotta. 

Penso che il concerto di ieri, godibile ma a mio avviso non indimenticabile, possa essere un ottimo spunto per aprire un dibattito su questo revival post-punk che è alquanto pervasivo nell’attuale universo musicale e che forse si è piegato su se stesso fino a ridursi a mera formula: ne sono esempi inequivocabili il cantante/urlatore nevrastenico con gli occhi spiritati, l’utilizzo ripetuto di larsen (in origine una pratica sovversiva, ora svuotata di significato perché completamente sdoganata e accettata) e il rifiuto della cosiddetta forma-canzone che viene esasperato fino a diventare una posa. Forse i Deadletter, ma non sono i soli, dovrebbero accartocciare e buttare nel cestino alcuni di quei cliché che rendono gli artisti all’apparenza molto alternativi, e che comportano tuttavia un’omologazione di fondo, per cercare la loro voce ripartendo dal carisma del cantante, dal talento puro del bassista e da pezzi come It flies e Credit to Treason, che sono stati i momenti più alti della data di Soliera.

In copertina, foto d’archivio

Tre Domande a: Origami

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta? 

Generalmente ogni brano ha la sua tematica, che si tratti di un contenuto più diretto o più interpretabile, cerchiamo di spaziare tra attualità, riflessioni introspettive, problematiche legate alla vita quotidiana o il semplice rapportarsi con il prossimo. Quello che ci auguriamo per i nostri ascoltatori è che si ritrovino un po’ nelle nostre considerazioni. Siamo consapevoli che ad oggi la musica (come tantissime altre cose) viaggia su un treno estremamente veloce e che, purtroppo, la soglia dell’attenzione si è drasticamente abbassata anche se un brano può portare con sé un bel messaggio. È una sfida molto importante riuscire a trovare il connubio perfetto tra immediato e riflessivo. In sintesi, quello che vogliamo che arrivi, è quanto abbiamo speso a livello energetico per poter creare un prodotto diverso, differente dalle proposte odierne e che possa invitare ad essere semplicemente meno superficiali.

Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?

Siamo particolarmente affezionati a tutti i nostri brani, se dovessimo sceglierne uno in particolare potremmo dire Ottobre. È un brano che incarna a pieno quello che è lo spirito degli Origami, ripreso anche in Nel Buio. È stato scritto in un momento molto particolare delle nostre vite in quanto ognuno stava attraversando una fase di cambiamento drastico. È stato anche il primo brano che abbiamo fatto cantare al pubblico e la risposta è stata incredibile, ci ha aiutati a crescere e a trovare la nostra identità anche se siamo sempre alla ricerca di nuove sonorità.

Qual è la cosa che amate di più del fare musica?

Sicuramente la parte più bella del fare musica è il coinvolgimento di tutti durante la scrittura degli arrangiamenti, fare musica costruendola insieme seguendo un filo conduttore comune. Considerando che siamo in cinque, può sembrare una fase estremamente caotica ma che si cominci da un riff, da un giro di batteria o da una melodia, generalmente riusciamo sempre a trovare un ordine ben preciso per scrivere ogni parte con la massima serenità. Così è stato anche per Nel Buio e Vivere; abbiamo applicato questo metodo seguendo anche i preziosissimi consigli della produzione di Divi (con il quale stiamo collaborando per l’intero disco).