“UN INCONTRO CASUALE DI SEI MOLECOLE CHE SCONTRANDOSI CREANO REAZIONI STRANE E INASPETATTE”
I Jaspers non sono solo la band ufficiale del programma sportivo di Rai 2 “QUELLI CHE IL CALCIO” ma sono sei ragazzi che si sono conosciuti per caso, erano tutti studenti del CPM MUSIC INSTITUTE di Milano dove un po’ per gioco e un po’per scherzo hanno iniziato a provare, fino a scegliersi reciprocamente e definirsi come i più pazzi della scuola.
Non a caso hanno scelto questo nome, un chiaro omaggio al filosofo e psichiatra Karl Theodor Jaspers: “quale nome se non quello di uno psichiatra per descrivere, rappresentare dei pazzi?” hanno confessato a Vez Magazine.
“Solo insieme possiamo raggiungere ciò che ciascuno di noi cerca di raggiungere” (Karl Theodor Jaspers)
La band nata 10 anni fa, nel 2009 è composta da Fabrizio Bertoli (voce), Giuseppe Zito (voce), Erik Donatini (basso), Eros Pistoia (chitarra), Francesco Sgarbi (tastiere) e Joere Olivo (batteria).
Sin dal loro primo live ognuno di loro è salito sul palco con un proprio alter ego e un diverso costume di scena. Così è nato anche il loro primo album “Mondocomio”, un concept album incentrato sulla pazzia e la malattia mentale che affligge i nostri giorni.
Ora, sette anni dopo il loro debutto discografico avvenuto nel 2012 sono tornati con un nuovo album “non ce ne frega niente” che è anche il titolo dell’omonimo primo singolo estratto.
Si tratta di undici brani che ripercorrono insieme un viaggio, e rappresentano per la band un punto di arrivo definitivo da una parte, di partenza dall’altra. Un album che contiene la vera essenza dei Jaspers, la loro identità, l’essere eclettici e soprattutto uscire fuori dagli schemi come solo loro sanno fare. Un album in cui si nota la crescita e la maturazione artistica accompagnato dalla voglia e la continua ricerca di innovazione.
Il singolo omonimo “non ce ne frega niente” rappresenta il perfetto lancio per l’album. Uscito lo scorso tre maggio, è un brano pop/rock che descrive la nostra società così frenetica, distratta e indifferente. Menefreghista appunto.
Uno spaccato delle generazioni più giovani e non solo che ormai vive la propria vita attraverso un telefono e i social. Siamo sempre più avatar di noi stessi, ci nascondiamo dietro il nostro ego, sempre più privi di emozioni, sentimenti ed empatia nei confronti di chi abbiamo di fronte e questo crea inevitabilmente dei problemi per e con la collettività.
Come ci ha raccontato Giuseppe quel “non ce ne frega niente” diventa un vero e proprio motto. Autentico come la volontà di andare verso nuove strade, percorrere un nuovo viaggio magari anche rischiando e dall’altra è la vera, reale fotografia di un comportamento sempre più attuale.
Album e singolo vogliono strizzare provocatoriamente l’occhio verso una sempre più presente indifferenza generale di questi tempi così moderni ma anche così bui dove si è (purtroppo) più interessati ai like e al mondo virtuale che alla quotidianità concreta e reale.
Un album che è frutto di collaborazioni importanti tra i Jaspers e un super team di quattro produttori: Cass Lewis (Skunk Anansie), Diego Maggi (Elio e Le Storie Tese), Larsen Premoli (Destrage, Jarvis) e Jason Rooney (Negramaro)
Non a caso la prima e l’ultima canzone della track list dell’album rimandano e riassumono questo viaggio di formazione della band: “L’Happiness” è un brano ricco di simpatia, ironia ed energia positiva che sarà anche il prossimo singolo ad essere estratto dall’album. Scritto da Franco Mussida (PFM) trova il featuring con Paolo e Luca conduttori di “quelli che il calcio” dove i Jaspers sono resident band dal 2017. Mentre si conclude con una versione alternativa e inedita di “palla di neve” , precedentemente eseguita solo dal vivo e che da due anni a questa parte è la sigla finale sempre del programma di Rai 2.
Cosi le sfumature e le molte facce di questa band molto versatile si riversano tutte in questo album, un disco divertente e sempre vivo. Un album in cui anche la scelta compositiva è stata cangiante, proprio come i cambi di abiti di scena quando si esibiscono live e che rispecchia il perfetto stile Jaspers.
Infine, a proposito di progetti futuri ci hanno rivelato che la loro intenzione è quella di continuare a scrivere brani, fare tour in modo tale da portare la loro musica a più persone possibili, magari negli stadi. Ci stanno lavorando, intanto le date che li vedranno protagonisti questa estate le trovate sul loro sito www.jaspersofficial.com
Originali, camaleontici e riflessivi, you rock Jaspers!
Parte il primo brano del nuovo disco de La Tarma, Usignolo Meccanico, e si viene subito catapultati in una atmosfera da Battiato anni ’70, ricca di synths, bassi lasciati suonare in primo piano, drum machines, vocalizzi vocali retrò e testi onirici che raccontano esperienze sensoriali attraverso immagini poetiche.
Da un punto di vista della produzione musicale, il sound che viene fuori, seppur volutamente retrò, è interessante e particolare. Le sonorità che si delineano hanno uno stile ben definito, non scontato, che prende spunto, come già detto, dal Battiato anni ’70 fino ad arrivare ai contemporanei Baustelle, passando per certe sfumature che fanno ricordare le melodie di Alberto Camerini.
Le dieci canzoni scorrono tra temi esistenziali e d’amore che vengono cullati da una musicalità piuttosto intrigante e piacevolmente fuori moda. Il genere musicale potrebbe definirsi come cantautoriale per quanto riguarda i testi, e come elettropop per quanto riguarda il sound complessivo.
Tuttavia, l’intrigante sound ed i particolari testi (segnalo, tra i brani, Amsterdam) non sono sostenuti da un altrettanto efficace lavoro di mix e mastering, soprattutto per quanto riguarda la voce. La cantante ha indubbiamente una buona capacità vocale, un timbro particolare che può piacere o non piacere, vista l’impostazione molto retrò, ma che comunque rimane in testa. Purtroppo, però, la sua voce non viene valorizzata dalla fase del mixing: manca infatti un riverbero adeguato, una equalizzazione corretta e una correzione efficace in fase di editing delle imperfezioni (visti i molti vocalizzi della cantante, qualche volta le parole in coda alle frasi perdono la nota). L’impressione, quindi, è quella di trovarsi davanti ad una registrazione della voce un po’ amatoriale, quasi come se fosse stata registrata in cantina.
Da un punto di vista della struttura delle canzoni, La Tarma dimostra buona capacità negliarrangiamenti e nella scelta degli strumenti, ma non eccelle nella costruzione dello sviluppo temporalestrofa-ritornello-variazione: difatti, talvolta, il ritornello arriva troppo tardi e le canzoni si dilungano troppo nelle strofe, perdendo in questo modo in orecchiabilità ed immediatezza all’ascolto.
Per concludere, siamo davanti ad un album con spunti interessanti, soprattutto per quanto riguarda la ricerca stilistica del sound e dei testi, questi ultimi mai banali e ricchi di belle immagini lessicali. Resta l’amaro in bocca per non godersi appieno questo discreto tentativo artistico, inficiato da una produzione musicale che non si può ancora definire del tutto professionale.
“Il metodo per fare le cose è quello di non pensare troppo. La libertà d’azione è l’unica che fa stare bene, e il rapporto umano è l’unica vera preziosa scuola compositiva. Alcuni definiscono questa attitudine Rock’n’Roll. Altri semplicemente vita.”
Non è una frase di Bukowsky né di un qualche santone indiano, bensì di tre fratelli lombardi, The Winstons (Linnon, Rob e Enro, pseudonimi) i quali scagliano così la bomba del loro ultimo lavoro discografico, a distanza di tre anni da The Winstons (album d’esordio nel 2016).
Stiamo parlando di Smith (probabilmente da Winston Smith, protagonista di 1984, di George Orwell; ma ancheun gioco di pronuncia con The Winston’s Myth band jazz/soul americana anni ‘60) uscito il 10 maggio per le piattaforme virtuali, oggi 31 maggio invece, in formato fisico.
La loro misticità verbale è accompagnata da abiti bianchi, contrapposti ad uno spirito canterburiano, una voglia matta di mischiare le carte (musicali) in tavola e stravolgere così la concezione stessa di musica.
Bassi graffianti e striduli, tastiere dal sound penetrante e batterie martellanti, accostati ad atmosfere classiche contraddistinguono questo disco del power trio più enigmatico della scena indie italiana.
Impossibile “etichettare” questa band, poiché il loro lavoro è un amalgamarsi di stili e di generi musicali.
Ci fanno salire su una DeLorean, catapultandoci direttamente negli iconici anni ‘60/’70: le nostre ossa scricchiolano per l’umidità del Kent e il nostro cuore è stravolto dal fango di Woodstock, in piena rivoluzione musicale.
La loro peculiarità risiede nella bravura di non scadere nella cover, o nel revival; piuttosto possiedono la capacità di modernizzare le origini del Rock, trasportandolo nel 2019. Lo stravolgono e lo fondono con generi lontani dal progressive rock, come può essere la musica classica o jazz, il tutto infarcito con del buon vecchio grunge di Seattle.
Mokumokuren, primo brano dell’album, in Giapponese identifica un fantasma casalingo che nasce dagli squarci nelle pareti di carta, tipiche delle abitazioni di questo paese. Gli occhi dello spettro appaiono dalle fenditure, spaventosi, i quali si limitano a esaminare l’interno della vostra abitazione.
Ecco l’intento di questa band: attraverso l’intro psichedelico e in crescendo, crea pertugi nel tessuto della musica contemporanea dai quali noi possiamo spiare all’interno, regalandoci l’opportunità di scoprire qualcosa di nuovo, fungendo da Ciceroni in questo viaggio psichedelico al di fuori della normalità a cui il mercato musicale è abituato.
Pezzi come The blue traffic light ci danno l’impressione che i Beatles si siano cimentati in un ménage a trois con i King Crimson e i Pink Floyd. E nella mischia si sia ritrovato invischiato anche Nicola Piovani.
L’album alterna pezzi melodici, dove vengono musicalmente chiamati in giudizio i Ragazzi di Liverpool come Blind o Not Dosh for Parking Lot, decisamente in stile beat anni ‘60, o Around the Boat dove abbandonano per 2 minuti e 9 secondi l’atmosfera psichedelica per regalarci una pausa malinconica, a pezzi più cazzuti come Tamarind Smile/Apple Pie, che presenta cambi di registri improvvisi e passaggi psichedelici non tradizionali.
Ci destabilizzano con l’uso di strumenti datati, poco pertinenti con lo stile rock della band come il sax in Soon Everyday,donando al brano un’atmosfera esoterica, e cori in pieno stile Ennio Morricone.
Il Canterbury Sound si palesa nella cooperazione con Richard Sinclar (bassista, chitarrista, compositore nonché fondatore dei Caravan) in Impotence, che combina il jazz rock, il pop al rock psichedelico, dando una connotazione surreale.
Nic Cester (cantautore australiano frontman dei JET) firma Rocket Belt, impregnato di rock anni ‘60, con sprazzi vocali degni di Mick Jagger, tastiere impazzite sul finale,pezzo allucinogeno e coinvolgente.
Imperdibile e stravagante, questo nuovo album è un ritorno al passato attraverso gli occhi (e le orecchie) di ragazzi che non hanno vissuto i mitici anni ‘60 dal vivo. Ci scaraventano in un universo di sonorità arcaiche, un calderone di spiritualità e trasgressione.
Una band completa, con uno stile forsennato, capaci di mischiare il Rock’n’Roll nella sua forma più pura ad un clima malinconico degno di Ennio Morricone.
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C’è qualcosa di unico in quello che una sola canzone può trasmetterti.
Uno stupido, apparentemente casuale susseguirsi di accordi, in fondo… eppure quando ascolto un qualsiasi brano degli Eels, succede qualcosa di inaspettato: se sono triste, mi ritrovo felice e se sono felice acquieto la mia euforia, diventando riflessiva.
Mr. Oliver Everett ha fatto questa magia, fin dall’inizio: scrivere canzoni tristi sulla felicità e canzoni felici sulla tristezza.
Ho conosciuto gli Eels a 17 anni grazie al mio fidanzatino dell’epoca. Soltanto in un periodo più maturo li ho realmente apprezzati, potendo dire ora che per me esiste una musica adatta ad ogni mio stato d’animo.
Mi spiego: gli accordi e la musica di Mr. E. si appoggiano senza peso su ogni mio tipo di emozione, rendono impalpabili i guai, mi permettono di riderci su, di alleggerire la pressione o di lasciar correre… E penso che ad avere questo effetto siano le origini, la scossa da cui nascono testi e melodie di Oliver Everett.
“C’è qualcosa in fondo all’Io, che è fatto per non scomparire mai del tutto” dice Everett, conscio della sua continua forza per rialzarsi da ogni duro colpo infertogli dalla vita.
L’ispirazione del cantante nasce dalla lotta che lui stesso ha dovuto intraprendere contro le perdite, i lutti familiari e lo sconforto di non essere sempre artisticamente compreso.
La sua esistenza è stata complicata fin da subito. Gli Everett non erano dei genitori tradizionali e avevano deciso di non dare alcuna regola ai propri figli, lasciando che fosse l’esperienza ad insegnare loro come cavarsela: “Ho dovuto imparare tutto nella maniera più difficile: andando per tentativi ed errori”.
Forse è per questo che nelle parole di ogni brano sono descritte tragedie raccontate in maniera semplice e diretta. Disarmante.
Scorrere fra le righe dei suoi testi sarà ancora più piacevole per il profondo messaggio di speranza da apprezzare, scrutando da vicino la tenacia che a lui stesso è servita per rialzarsi da ogni dura sfida.
Mentre scrivo, con accanto un bicchiere di birra, ascolto in sottofondo i testi politicamente scorretti, gli arpeggi e la voce roca di Mr. E.: un perfetto mix di rock, pop, beat indietronico, blues cantato da una voce polverosa, degna di un Tom Waits moderno.
La musica degli Eels è malinconicamente acustica, un manifesto indie degli anni Novanta. E lo è davvero.
Come risposta alle migliaia richieste e proposte di offrire la loro musica a scopi pubblicitari, infatti, Mr. E. risponde: “Dipende da quanto le tue canzoni significhino per te. Quando ho scritto Last Stop: This Town, non ho pensato ad un profumo, ma alla morte di mia sorella”.
É con questa dose di dignità e coraggio che Mr. E. ha subito messo tutti al proprio posto.
Gli Eels hanno sintetizzato, inoltre, quel suono a metà fra Beck ed Elliott Smith, diventato il loro marchio di fabbrica.
Non è musica che vuole seguire le mode del momento, ma nemmeno una musica “difficile”. Non ha pretese rivoluzionarie, ma è un easy listening dalla freschezza inconfondibile.
Mr. E. è un compulsivo della creazione. Ha sempre tentato, con infinita e ossessiva costanza, di superare sé stesso.
In fondo, è il minimo che ci si possa aspettare dal figlio di uno scienziato che ha dedicato la propria (breve) vita alla ricerca di una teoria sugli universi paralleli. “Mio padre era un genio, io sono solo un gran lavoratore”.
Mr. E. è un compulsivo della composizione: ” È una tortura: certe sere me ne sto a casa a guardare un film e dopo dieci minuti sento che devo scrivere una canzone e se provo ad ignorarla il pensiero che magari quella canzone sia sfuggita per sempre mi fa diventare matto”.
La risposta, in un’affermazione, a come gli Eels abbiano totalizzato la bellezza di dodici dischi dal 1996 ai giorni nostri.
Alcuni sicuramente vincenti, altri meno convincenti, ma sempre tutti di gran carattere. E talmente personali che, nel mercato, sono stati considerati dei mezzi flop.
Ma i fan degli Eels, quelli che li seguono da sempre, li prendono quasi come materiale istruttivo, felici che siano l’anteprima di un nuovo eccentrico ed entusiasmante live tour.
Perché per Mr. E. un concerto non è quella sorta di mortificante “gretaest hits con applausi”, ma è un’occasione sempre nuova per ridipingere i propri brani, riarrangiando e riadattando una canzone di anni prima al presente.
Serio, ma spassosissimo dal vivo, Mr. E. crea delle vere e proprie atmosfere da garage, come se stesse suonando, come se stesse improvvisando per pochi amici.
Insomma, che tu sia un inguaribile romantico, un cinico indefesso o un nerd in cerca di musica che non hai mai ascoltato prima, la musica degli Eels ti farà vivere la tua dimensione.
Struggente, cruda, pazza, disorientante, geniale, silenziosa o con urla da licantropo. Può farti sentire come ti pare. Non ha limiti, non ha confini.
“Seconda stella a destra, questo è il cammino. E poi dritto fino al mattino. Poi la strada, la trovi da te, porta all’isola che non c’è”.
Mi sembra quanto mai attuale, se pure utopico, parlare ancora oggi di sogni. Per tutta la vita ho sognato di aprire la finestra e volare via, moderna Peter Pan, verso l’Isola che non c’è.
Sarà stata la fiaba di James Matthew Barrie che mi ha influenzato, sarà stato il cartone animato Disney, sarà stata l’insofferenza verso le regole e le costrizioni, non saprei, ma una cosa non è mai cambiata: la colonna sonora.
Soltanto un cantautore italiano ha saputo trasformare in musica alcune delle più belle fiabe mai scritte: Edoardo Bennato, che ha dedicato molti dei suoi album ai personaggi più famosi di alcune opere di letteratura per l’infanzia, fra cui spiccano senza dubbio Pinocchio e Peter Pan.
L’isola che non c’è non è un luogo fisico, è un non-luogo. È una metafora, è un rifugio, è un’utopia politica: esiste per tutti un mondo ideale, che riflette i desideri più intimi, quasi sempre in contrapposizione con la vita che ci scorre addosso quotidianamente.
L’isola raccontata da Bennato è un luogo di pace e armonia, dove la criminalità è assente, così come l’ipocrisia. Un luogo, insomma, impossibile. Eppure, c’è.
Dal mio punto di vista, considerata anche la simbologia dell’isola, l’Isola che non c’è rappresenta un luogo di stasi, una pausa dalla vita di tutti i giorni, in cui il tempo si ferma.
Non deve essere necessariamente un posto reale, può anche essere un luogo mentale in cui ci si rintana dopo una brutta giornata. Per molti, l’Isola è una persona.
Comunque sia, è stato sulle note dell’armonica di Bennato che ho cominciato a sognare, perchè ascoltare una sua canzone è un po’ come ascoltare una favola.
Il Rock di Capitan Uncino invece mi ha sempre dato la carica giusta: mi ricorda l’estate dei miei undici anni, ed è a quel momento, senza dubbio, che risale la mia ferrea decisione di andare controcorrente.
Non sapevo nemmeno bene cosa volesse dire, ma non avevo dubbi: se non potevo diventare una piratessa, avrei per lo meno dovuto perseguire una vita all’insegna della ribellione.
Non so se sono sulla buona strada, ma devo a Bennato la voglia di provarci, senza sosta, ogni giorno.
Anche se “ti prendono in giro”, come canta Edoardo, tu continui a cercarla, ma l’importante è non darsi per vinti, perchè, prima o poi, l’Isola compare, come per magia. Chi rinuncia a cercare la propria oasi è davvero il più folle: cos’è una vita senza sogni?
Sarà forse infantile, ma amo ancora tantissimo le fiabe. Mi piace ascoltarle, amo immaginarne di nuove, mi diletto a raccontarle, quando ne ho occasione.
Raccontare una fiaba è una faccenda più seria di quanto sembri. Innanzi tutto, è rivolta ai bambini, e, si sa, i bambini non perdonano.
Non puoi dire “Vado di fretta”, “Finisco dopo”, “Cerca su Google”. No. Bisogna raccontarla tutta d’un fiato, dall’inizio alla fine. Almeno fino a che il pargolo non impara a leggerle da solo.
Per me, leggere è stata – ed è ancora – una scoperta, e uno dei primi libri che ricordo con immensa malinconia è proprio Peter Pan. Lo spiritello di Sir J.M. Barrie mi faceva arrabbiare tantissimo e allo stesso tempo lo invidiavo.
Passavo le serate pensando a come sarebbe stato volare, cosa avrei fatto io nell’Isola che Non C’è, come avrei sconfitto Capitan Uncino. Poi – purtroppo – sono cresciuta, e non ho più avuto accesso a quel magico mondo, per fortuna però, ho imparato molto altro.
Ho cominciato a chiedermi se Capitan Uncino fosse così malvagio per un motivo: magari era arrabbiato con Peter Pan. E magari aveva pure ragione, chissà.
Ragionando sul background del Capitano, ho pensato che in fondo è solo un uomo che si comporta come il suo personaggio richiede. Se andasse contro al sistema, cosa succederebbe? Si è mai visto un pirata buono? Del resto, si impara a scuola “a far la faccia dura/per fare più paura”, come canta la ciurma.
Andare contro al “sistema” non è una scelta semplice: secondo Pirandello, non ci libereremo mai delle maschere che ci vengono assegnate, nè di quelle che ci scegliamo autonomamente.
Forse Bennato ci vuole dimostrare qualcosa di simile raccontandoci la storia dal punto di vista dell’antagonista principale della fiaba originale: non esiste una realtà oggettiva, una giustezza univoca delle situazioni, la vita è vera a seconda di chi la guarda.
Sarebbe quindi importante ragionare sulle situazioni e gli eventi esaminandone le sfaccettature: non sempre chi sembra il cattivo lo è davvero.
Mi sono chiesta, infine, se fosse possibile (e giusto) rimanere bambini per sempre. È allettante, dopo tutto, una vita senza regole, senza responsabilità, senza confini. Ma è davvero questo che significa essere liberi?
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RDS Stadium (Rimini) // 29 Maggio 2019
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[/vc_column_text][vc_column_text]Fuori piove e fa freddo, in questo maggio che sembra novembre, ma dentro il palazzetto va a fuoco.
La penultima tappa dell’Atlantico Tour di Marco Mengoni all’RDS Stadium di Rimini è un live da tutto esaurito.
Di concerti ne ho visti nella mia vita e, devo ammettere, che un pubblico così caldo, così entusiasta, moltissimi artisti della scena rock, alternativa o underground che dir si voglia, possono solo sognarselo.
Una ventina di minuti dopo le nove si inizia.
Il palco è diviso in tre livelli: c’è una sorta di fondale industriale, di ferro e lamiera, con barre a led e uno schermo trasparente, che all’occorrenza può rendersi invisibile. Sul proscenio invece un telo in stile teatro kabuki nasconde le sagome dei coristi.
Si parte con Muhammad Ali. Il brano, tratto dall’ultimo album, in questa occasione è stato completamente riarrangiato con l’inserimento di un canto tribale. Questo non sarà l’unico elemento etnico presente nello spettacolo.
In due ore, Mengoni è riuscito a introdurre tantissime sonorità latine e brasiliane, e non mancano i richiami alla musica soul o africana.
Sul monitor appare la celebre frase del campione di pugilato, “I’ma show you how great I am” e Marco Mengoni salta, letteralmente, fuori dal palco da una botola nascosta.
Sul secondo pezzo, Voglio, cade il velo kabuki e si svela il palco nella sua interezza. Ho letto in qualche intervista che l’ispirazione di questa struttura arriva dritta dritta dai Talking Heads.
Come il loro, e con le dovute proporzioni, anche quello di Mengoni è uno show che si trasforma sotto gli occhi del pubblico. Il ritmo è scandito da effetti di luce e laser.
Lo show è suddiviso in tre parti, inframmezzate da alcuni monologhi.
Il primo, Sei tutto è stato scritto dallo stesso Marco, e recita “sei tutto il male che eviti e quello che affronti fino in fondo” e apre la strada al secondo momento del concerto con La Ragione del Mondo, uno dei brani più emozionanti dell’ultimo disco.
Tra il pubblico giurerei di aver visto anche qualche lacrima.
L’intro di Buona Vita invece si fonde con le sonorità dei Buena Vista Social Club di Compay Segundo, musica che Mengoni ci racconta di aver ascoltato a lungo, durante la realizzazione di Atlantico.
La casa Azul invece è dedicata a Frida Kahlo.
In questi anni Mengoni ha viaggiato e si vede. Il suo è uno show ricco, non barocco, ma ricco. Di parole, di sensazioni, di colori. Ha cercato di portare sul palco tutto quello che è oggi, la sua caleidoscopica personalità.
La mia sensazione è che Marco Mengoni in questi anni sia diventato grande, più consapevole. Si è liberato dalla maschera di cantante pop che piace alle ragazzine per diventare un artista completo.
Con Atlantico è riuscito a mettere in piedi, coadiuvato da una grande squadra, come spesso ricorda durante il concerto, uno show articolato, che unisce musica e contenuti.
Nonostante questo, lui è lì per cantare e sembra non dimenticarsene mai. I balletti ci sono, gli ammiccamenti anche, ma la musica rimane il centro di tutto questo.
Arriva un secondo monologo: la citazione in apertura è dello scienziato James Dewar “La mente è come un paracadute, funziona solo se si apre”.
Secondo Marco non c’è altra soluzione per sopravvivere a questo mondo, descritto da titoli di giornale che parlano di inquinamento, intolleranza e isolamento.
“Siamo stati più belli di così, più onesti, più buoni. Siamo stati più comprensivi forse, più umani, più giusti“, ed è la gentilezza il segreto, “be pitiful, for every man is fighting a hard battle” come recita l’aforisma di Ian McLaren a chiusura del testo.
La terza parte del concerto è quella più densa di emozioni. Si parte con Guerriero.
Sul pubblico vengono calate delle passerelle sospese, che Mengoni usa per avvicinarsi ancora di più alle persone. Vuole bene al pubblico, è palese, e il pubblico vuole bene a lui.
L’Essenziale vede Marco per la prima volta seduto al piano forte. Per quanto mi riguarda, è uno dei momenti più belli del concerto.
Quello che mi piace di Mengoni è che dà l’idea di essere proprio come appare. Un ragazzo semplice, che non ha dimenticato da dove viene. Nonostante questa umiltà, è uno che sul palco ci stare. Ci sa stare, eccome.
Il pubblico di Mengoni è devoto: quando chiede di spegnere tutte le luci e alle persone di mettere via gli smartphone per concentrarsi sulla musica per il tempo di una canzone, la gente lo fa.
Così, nel 2019 un intero palazzetto lo ascolta cantare al buio, senza il telefono in mano. Lo scambio con i fan è infatti uno degli aspetti più interessanti di questo live: è spontaneo e diretto, senza artifici e senza sovrastrutture.
Dopo circa due ore, e dopo un lungo viaggio attraverso questi ultimi dieci anni di musica, lo show giunge alla fine.
Ammetto di aver pensato, di lui come di tanti altri usciti da un talent, che forse non sarebbe arrivato dove è ora, senza una trasmissione come X Factor. Stasera mi sono ricreduta.
Marco, al di sopra di qualunque chiacchiera sul destino o la fortuna, ci sarebbe arrivato comunque su questo palco, e su tanti altri. Forse ci avrebbe messo più tempo, è vero, ma di mestiere ne ha da vendere.
Quello che oggi mostra al pubblico non è frutto di improvvisazione, ma di lavoro. È il risultato di un talento, e non di un talent.
Mengoni è un bravo artista, uno che è riuscito a prendere le giuste misure e a colorare la propria musica con toni diversi, a volte soffusi, a volte vivaci, altre malinconici, senza mai tradirsi.
Vorrei chiudere con sue parole, prima di lasciare il palco e ringraziare per la decima volta le persone che sono venute a sentirlo: “questo non è un concerto di Marco Mengoni, questo è un concerto di tutti noi e di tutti voi“.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Testo: Daniela Fabbri
“Vecchia sporca Dublino, per un figlio che ritorna sei una madre che attende al tramonto, con la puzza di alcol, coi baci e le canzoni per chi è stato un prigioniero lontano”
Modena City Ramblers
Ci sono luoghi che inevitabilmente ti rendono schiavo per tutta la vita. Dato di fatto.
Adesso però facciamo un ragionamento impopolare. Esuliamo dal canonico e regolamentato significato negativo che si attribuisce ordinariamente al termine “schiavo” e proviamo a incastonare in maniera positiva e forse paradossale questa parola in un contesto dalle vibrazioni dall’alto coefficiente costruttivo, anche se di per se, per come la conosciamo non può suggerire nulla di positivo.
Tutto avrei pensato in realtà, ma non sicuramente di trovare del buono in questo termine. Invece esistono catene, fili invisibili che non per forza limitano le movenze di vita e nemmeno lasciano cicatrici come una sgradita eredità nel binario del tempo che evolve.
Che sia un legame dovuto a una particolare esperienza, che sia un incontro che abbia segnato il destino di un amore, un bivio che abbia scandito una scelta importante, che sia la città dove la tua squadra del cuore abbia raggiunto un insperato quanto tanto atteso risultato sportivo. Nulla sarà più come prima, e certi luoghi ogni volta che torni a metterci piede non avranno mai un sapore scontato.
La musica come ogni forma d’arte ha diritto e necessità di avere una propria dimora, un focolare dove svilupparsi, un fuoco che vada a riscaldare e a rinnovare di luce una tradizione fatta di parole e sensazioni.
Penso su due piedi alla magia nordica dell’Islanda quando ascolto i Sigur Ros, intravedo Boston quando mi lascio ispirare dai Dropkick Murphys, mi immedesimo nell’appenino tosco-emiliano quando ascolto certi versi di Guccini, scopro mezzo mondo, in un turbinio temporale unico nel suo genere, quando analizzo De Andrè.
Amo pensare appunto, tramite la mia esperienza e concezione di vivere e sviluppare l’ascolto, che la musica e le parole figlie dalla farina del mio sacco abbiano la stessa presa sull’ascoltatore, un rapporto tra scoperta e ricerca.
Essere identificato, messo in correlazione a un luogo o più luoghi risulta una conquista dall’inestimabile valore interiore che poi esplode nell’entusiasmo costruttivo del quotidiano, perché nella verità dei fatti l’intento di questi brani prevede e richiama a certe isole felici.
La condivisione capillare e l’adrenalina che ne concerne a questo punto supera la maggior parte delle fonti di successo ordinario. La gratificazione concettuale, per chi la riconosce, sa che detiene e comanda le sorti dei dettagli.
Ampliare lo specchio dei significati emozionali, vedendo ogni sfaccettatura spirituale della musica come un tassello di un puzzle in 3D.
La mia storia racconta l’aver ritrovato fiducia nella musica dopo un viaggio fondamentale, e mi chiedo cosa sarebbe stata la mia vita adesso, se quel giorno di marzo del 2009 non avessi preso quell’aereo per Dublino.
Quando l‘attitudine batteva il cinque al superfluo, quando l’impellenza di fare musica per fare successo aveva lasciato spazio ad una partita che non ha mai retto il confronto con ciò che in realtà, nel mio profondo desideravo fare.
La penna prendeva polvere, i cassetti in camera si riempivano ogni giorno di più come uno scantinato troppo piccolo per contenere un grande mondo lasciato a se stesso. La scrivania che diviene giorno dopo giorno una prolunga dell’armadio, sempre più un semplice punto di accumulo di vestiti e vecchi propositi.
Il tempo passa, la musica si allontana, l’anima diventa sottile, lo spirito diventa una camicia bianca uguale ad altre mille, dentro a una discoteca qualunque, piena di gente qualunque che cerca di passare un sabato sera qualunque, per tornare poi ad una vita inevitabilmente qualsiasi.
Credere nella musica tramite certi luoghi è un modo di darsi un senso, come disegnare la propria figura e scegliere uno sfondo che sia più vicino possibile alla meta che si vuole raggiungere.
Vale per chi fa musica, per chi dipinge, per chi scrive.
Il contesto in cui si sviluppa un pensiero artistico è inevitabilmente legato a un luogo, a un mondo, che non per forza debba esistere realmente. La magia dell’immaginazione risiede anche in questo, non avere vincoli di spazio e tempo per sentirsi a casa ed essere libero, a proprio agio, leggeri.
Ecco qui si sposa l’ossimoro perfetto, essere schiavo dell’immaginazione più efferata e determinare la libertà creativa totalizzante. “sono schiavo dell’infinito e della fantasia, posso fare tutto ciò che voglio, perché nella mia visione di arte le regole le detto io”.
Sarebbe bello in tempi infausti come questi, avere una generazione curiosa che sappia riscoprire un linguaggio unitario basato sul concetto di calore domestico e farlo conoscere al mondo.
Detto ciò bacchetto anche i più grandi perché non è mai troppo tardi per reinventarsi, darsi un nuovo punto di vista. Non è mai troppo tardi per imparare un’arte, tutto è delineato dalla soglia di una curiosità che forse non si sa nemmeno di possedere, la fatica a questo punto è farla emergere.
E su questo credo anche i più navigati debbano ragionarci, avendo la consapevolezza che un viaggio o un luogo non contemplato possa aprire e nel miglior caso delle ipotesi, spalancare porte preziose.
In fondo il senso di appartenenza si può ridurre a una singola stanza, paese, castello, uno spazio delineato e particolare, dalla storia propria e dalla vita propria, oppure ancor più con stampo anarchico si può essere semplici cittadini del mondo. Di un mondo sbagliato magari, ma di una sfera che ancora ruota nel senso corretto anche grazie a energie e intenti di pionieri presi poco sul serio.
Non sentitevi mai da soli quando avete un luogo sempre presente nel vostro modo di pensare, in fondo ovunque sarete, prima di dormire, vi farà sempre sognare.
Incontro Vins all’ingresso del Moog locale, un po’ speakeasy e un po’ salotto bohémien, nascosto in un vicoletto in centro a Ravenna. Gli altri Doormen, Luca “Mala”e Andrea “Allo” sono già dentro, con la loro birra in mano.
Tommaso non riesce ad esserci: è bloccato a Bologna, “ma si fida di noi” aggiunge subito Luca. Per non essere da meno prendo la mia birra anch’io e andiamo nella sala al piano di sopra, con le fotografie alle pareti e i divani in velluto, per la nostra intervista.
I Doormen sono una band di Ravenna che ormai da dieci anni si muove, con grande consenso di pubblico e critica, sulla scena rock alternativa.
Qualche mese fa è uscito il loro ultimo disco, Plastic Breakfast, un album che rispetto ai precedenti segna il ritorno ad un suono più ruvido: tante chitarre e pochi effettini. Tutto quello che manca alla musica italiana degli ultimi anni.
La prendiamo larga: come descrivereste la vostra musica a chi non vi conosce?
Luca: La nostra musica è il risultato del nostro background, quello di ognuno di noi.In questo disco in particolare, rispetto agli altri lavori, c’è veramente il contributo di tutti.
È un disco fatto a quattro mani e quattro teste. Non a caso ci abbiamo messo quasi tre anni prima di farlo uscire.
In passato eravamo sempre io e Vins a comporre. Io scrivevo i riff e lui i testi e le linee vocali, poi univamo le cose. Stavolta ognuno di noi ha detto la sua.
È il primo disco da band. Tanto è vero che ci sono stati anche dei momenti di scontro: “questo mi piace, questo non mi piace”, ma ce l’abbiamo fatta. Anche se la maggior parte delle persone lo ascolta su Spotify.
È una cosa che vi dà un po’ fastidio, questa di Spotify.
L.: Sì, un po’ sì. (ride, ndr). Questa volta abbiamo deciso di fare solo il vinile, che è una cosa da appassionati. Sai perché mi sta sul cazzo Spotify? Perché se lo ascolti lì sopra ha un suono bello, ma se lo ascolti su disco è diverso: è meglio, ha un’altra grana.
Raccontatemi un po’ di voi, quando nascono i Doormen?
L.: I Doormen hanno avuto due fasi, nel 2009 e nel 2015, quando abbiamo cambiato la sessione ritmica e sono entrati nella band Allo, cioè Andrea, e Tommy. I migliori sulla scena romagnola.
Quando ci sono questi cambi a volte il rischio è di trattarsi come turnisti, invece ci siamo presi bene, e abbiamo trovato la formazione definitiva.
Parlando dell’ultimo album, Plastic Breakfast, visto che prima avete accennato al fatto che ognuno di voi
ha portato il proprio universo musicale, ero curiosa di sapere quali sono stati i vostri ascolti durante la realizzazione e quali le vostre ispirazioni.
Vins: Per me senza dubbio i Nirvana. Perché in quei dischi lì, quelli belli, ci sono loro quattro. Qui ci siamo noi quattro.
Che il riff sia gentile o incazzato, siamo noi. Non c’è stato un vero e proprio riferimento, ma sicuramente un’ispirazione.
Andrea: Dentro Plastic Breakfast c’è il nostro background, che arriva direttamente dagli anni Novanta. Lo sapevamo ma è stato ancora più evidente quando abbiamo iniziato a lavorare insieme sui pezzi.
Infatti, rispetto ad album precedenti il suono è più graffiante, più dritto. C’è meno synth, ci sono meno effetti.
L.: Sì, infatti a questo proposito l’esempio dei Nirvana è calzante. Questo disco è stato suonato in presa diretta, come siamo noi dal vivo. Mi viene in mente In Utero, che è stato registrato in questo modo.
Molti ci dicevano “avete dei bei pezzi, però dal vivo avete qualcosa in più”.
V.: Ti riassumo tutto con una frase del fonico Filippo Strang, dello studio di registrazione di Frosinone, dove abbiamo realizzato il disco.In tutti i nostri lavori precedenti, una volta registrato il canovaccio, ci mettevamo il cimbalino, l’ovetto, la chitarra acustica e altri effetti.
Così, quando finiamo tutte le registrazioni di Plastic Breakfast salto su e faccio: “e l’acustica dove la mettiamo?”e Filippo “ao’, ma che stai a dì? Questo è un album maschio, non la mettiamo da nessuna parte”. E così è stato.
A.: Non ce l’eravamo detti all’inizio quello che volevamo fare, siamo partiti ed è venuto fuori questo. Avevamo voglia di fare delle cose belle grintose, probabilmente perché è quello che ci viene meglio.
In questo disco ritorna la formula: chitarra-basso-batteria. Rispetto ai precedenti mi sembra più pensato per la dimensione del concerto. Avete pensato al live mentre lo facevate?
L.: E’ esattamente quello, è pensato per il live. Se senti il disco e vieni al nostro concerto suona esattamente così. Eravamo noi quattro, ci siamo chiusi in sala prove ed è venuta fuori questa cosa qua.
A.: Volevamo portare il disco in concerto e riproporlo il più uguale possibile. Per questo sintetizzatori e suoni particolari li abbiamo esclusi a priori.
L.: Nulla da recriminare rispetto ai dischi precedenti, che ci hanno permesso di fare tante cose importanti. Però, per fare un esempio, Abstract (RA) è stato un disco che abbiamo fatto io e Vins, orfani della sezione ritmica. L’abbiamo dovuto riarrangiare parecchio.
V.: Quello era un disco costruito in laboratorio.
Chi non vi ha mai visti dal vivo cosa si deve aspettare da un vostro concerto?
L.: Poche chiacchiere sul palco. Parliamo zero, solo in qualche rara occasione sfociamo nel cabaret.
A.: Sicuramente è un live carico, dritto e diretto. C’è qualche rallentamento, come nel caso di Have You Ever, ma fondamentalmente è un concerto che arriva dritto in faccia.
Have You Ever è il pezzo che calma il respiro all’interno di Plastic Breakfast che invece ha un ritmo molto serrato.
A.: Eravamo stanchi quel giorno (ride, ndr)
Ho visto che avete fatto delle date anche all’estero. Qual è la differenza rispetto ai concerti in Italia?
A.: L’attenzione.
L.: Il tour è stato una figata. Abbiamo suonato in uno dei locali di riferimento della scena underground parigina, ma anche europea, che è il Supersonic. Ci hanno suonato i Godzilla, solo per nominare una band.
Dopo quella abbiamo infilato altre date, una in particolare in un piccolo paesino che sembrava Twin Peaks, Ainey Le Chateau. Siamo arrivati e sai chi c’era? Nessuno.
V.: Un villaggio nelle campagne francesi, dove non c’era un’anima.
L.: Il promoter del locale sembrava Mangiafuoco e mentre noi stavamo montando le attrezzature, ci fa “voi non vi preoccupate, alle sette e mezza sarà pieno”.
Non ci credevamo, ma aveva ragione lui: alle sette e mezza il locale era pieno. Poi è finita che al termine del concerto abbiamo cenato tutti insieme con chi era venuto a vederci.
A.: In Francia hanno la cultura del concerto. La gente arriva e nessuno se ne va prima della fine. Aspettano che finisci e applaudono. In tutte le nostre date erano presi bene, partecipi.
L.: In Italia non c’è quell’attenzione totale verso l’artista. Anche se Bologna e Milano, per esempio, sono due zone calde. Ci abbiamo fatto dei bei concerti e l’accoglienza è sempre grandiosa.
Mi avete già accennato qualcosa sul processo creativo. In questo album come è stato?
V.: Ognuno presentava qualcosa e ci si lavorava sopra insieme.
L.: Poi tutte le volte che io presentavo qualcosa o Vins presentava qualcosa, Tommy, arrivati alla fine del pezzo, ci diceva che non gli piaceva e dovevamo rifarlo tutto. Per questo ci abbiamo messo tre anni a farlo (ridono, ndr).
Ti racconto questo aneddoto: siamo andati a fare le post produzioni dal nostro amico Andrea Cola dei SundayMorning, avevamo cinque pezzi finiti e li abbiamo registrati per capire cosa sarebbe venuto fuori. Quando li abbiamo riascoltati ci siamo detti: “ok, fanno cagare”.
V.: Io quel giorno ero in spiaggia, ho ascoltato questi pezzi e ho mandato un messaggio nella chat: “ragazzi, io mollo”.
L.: È stato utile fare post produzione per questo motivo, ci ha fatto capire dove intervenire.
Ho visto che, sia nei video che nelle copertine, Ravenna è sempre presente.
L.: E’ presentissima, sempre. Non è un caso che oggi siamo qua al Moog, che è casa nostra. Il video invece è stato realizzato da Matteo Pozzi (Action Man e Cacao). Ci ha fatto vedere una Ravenna interpretata alla sua maniera, alterata in varie forme e colori. Esiste, ma può essere diversa.
V.: E’ un po’ il discorso del Professor Keating: tu vedi una cosa in un certo modo, ma se vai sulla cattedra la vedi in un’altra maniera.
Come influenza Ravenna il modo in cui viene realizzato un vostro album?
V.: La nebbia e il clima sicuramente incidono molto.
L.: Alla fine se ci pensi Ravenna è una città fuori dalla via Emilia, è chiusa. Per la copertina del disco, a proposito di malinconia, abbiamo collaborato con Alessandro Garavini. Le foto sono state fatte nella Piallassa Piomboni, che è il cimitero delle navi russe.
A.: Era quello che cercavamo e le sue foto ci sono piaciute subito. Davano l’idea di un disagio clamoroso. Che poi è quello che è Ravenna.
L.: A Ravenna sono passati anche Lord Byron e Oscar Wilde. Quest’ultimo ci ha scritto sopra una poesia, così come Herman Hesse che descrisse Ravenna come una “città di rovine e di chiese”. C’era del disagio clamoroso anche allora.
Ascoltando i vostri album precedenti ho percepito una certa coerenza, di lingua e di temi. Avete mai pensato di cambiare qualcosa, magari seguendo una tendenza, come cantare in italiano?
A.: Ci abbiamo provato e abbiamo capito che non era per noi. All’inizio, con il disco in inglese, abbiamo anche cercato qualcuno che ci producesse, ma ci segavano tutti: “Canti in inglese, cosa dobbiamo fare per te?”.
V.: Per Plastic Breakfast avevo fatto un file registrato da me, chitarra e voce, con alcuni pezzi dell’album cantati in italiano, ma non eravamo noi. Non ci siamo nemmeno impazziti troppo sopra.
L.: Ci sarebbero voluti dieci anni per uscire con il disco.
V.: Noi volevamo fare date all’estero, se canti in italiano all’estero non ci vai.
L.: Una cosa influenzava l’altra. I live all’estero erano anche un modo per dare un senso al disco: “stronzi, l’avete fatto in inglese e adesso ci andate”. Infatti abbiamo prima fatto le date all’estero e poi in Italia. Adesso riprendiamo il tour 5 Giugno, qui a Gambellara.
Comunque a voi non interessava provare una strada diversa per guadagnare un pubblico più ampio.
L.: Il nostro è un pubblico di colti e appassionati, che ascoltano quel genere lì. Poi, che lo faccia una band italiana o inglese, non importa. Se è fatto bene è contento e ti compra il disco.
V.: Negli anni Novanta, fino ai primi Duemila, era più facile trovare anche nel mainstream qualche pezzo che ti piaceva. Iris dei Goo Goo Dolls era mainstream ma era un bel pezzo.
Adesso non è più così. Negli anni Novanta i Nirvana te li mettevano ovunque, è vero c’erano anche le Destiny’s Child, ma si sentivano anche i Bush e tanto altro.
A.: A me piacevano le Destiny’s Child! (ridono tutti, ndr)
V.: Adesso c’è solo quello. Se ascolti la radio non senti una chitarra per quattro ore.
L.: Anche Noel Gallagher è uscito con un disco che ha la ‘drum machine e non ha le chitarre. Tutto oggi, soprattutto in Italia, è impostato sulla melodia, sul cantautorato. Che non c’entra niente con noi.
A.: Oggi nei dischi mainstream le chitarre stanno scomparendo. Resistono invece nell’underground.
Come sono cambiati i vostri obiettivi negli ultimi dieci anni?
L.: Tutto è cambiato. I Doormen hanno sempre suonato tanto, soprattutto nei primi anni di attività.
Abbiamo fatto tante aperture a band grosse: Paul Weller, i Charlatans, i Vaselines. Abbiamo aperto ai Tre Allegri Ragazzi Morti, recentemente ai Preoccupations. Però allora c’era più giro, adesso si suona meno.
Quando siamo usciti con Plastic Breakfast ero molto scoraggiato, il disco era figo ma trovare date non era così facile. Poi è arrivata l’apertura ai Preoccupations, abbiamo iniziato a collaborare un’agenzia di booking (Hey ManBooking) e la situazione ha iniziato a muoversi ancora.
L’obiettivo oggi è di divertirsi e fare delle belle date live. Di band italiane che fanno cose in inglese ce ne sono poche, e quelle poche che ci sono – se sono in giro – è perché la gente vuole andarle a sentire. Tendenzialmente chi organizza concerti predilige la formula in italiano, ma forse quello non è nemmeno il nostro pubblico.
V.: Dieci anni fa c’era più sogno. Oggi puoi sperare che succeda qualcosa, ma non lo fai per quello. Forse c’era più tensione, oggi c’è un po’ più “sbat’ e cazz“, ma abbiamo constatato che alla fine porta risultati migliori.
Ultima domanda: che consiglio dareste ai voi stessi di dieci anni fa?
V.: Di spendere i soldi della cassa più in promozione che in fonici.
Il gruppo rock indie bergamasco si racconta in questa intervista parlando di successo, amore e provincia e del perché ha scelto di rimanere “fuori dall’hype”.
Finalmente nel 2019 sono arrivati alla grande svolta con il loro quarto album, uscito lo scorso 5 aprile dal titolo “Fuori dall’hype” per la SONY. Un grande salto per la band nata a Bergamo nel 2012 con all’attivo già 3 album autoprodotti che in poco tempo hanno visto incrementare il consenso e la loro fan base fino ad arrivare a 20 milioni di streaming e 7 milioni di visualizzazioni su Youtube.
L’album è stato anticipato dai singoli Verdura, che ha già superato 1 milione di stream su Spotify, Sashimi e dalla title track, Fuori dall’hype, singolo uscito lo scorso 15 marzo.
Ma perche fuori all’hype? Cosa significa per voi?
“Hype è una parola che da qualche anno è entrata nel linguaggio comune. Per un artista, generare hype significa creare – grande attesa per il proprio prodotto – ma l’hype non si spiega, non ha regole. Capita o non capita. Molti artisti passano la vita ad inseguirlo, corrono e si dimenano per essere i prescelti. Spesso l’hype si posa proprio su coloro che stanno fermi e non lo desiderano, come una farfalla. Vola dove la porta il vento, e poi se ne va di nuovo. Chi è fuori dall’hype vive dove il vento non porta farfalle.”
Come nasce la vostra musica?
“La nostra musica nasce per fare stare meglio le persone, non è fatta per deprimersi, anzi è una musica per lasciare andare. Un concentrato di energia, positività, ma che cerca allo stesso tempo di fare riflettere l’ascoltatore. Un urlo che è insito nella volontà di emergere e che è tipico di chi vive in provincia, in particolare in un ‘area poco conosciuta e considerata come la nostra del bergamasco. La musica per noi è la medicina dell’anima.”
Fuori dall’hype è quindi un album che parla d’amore?
Si, per alcuni brani ci concentriamo sull’amore, per esempio Monopoli, però ce ne sono altri che non parlano solo di quello, come Sashimi che tratta il tema della gelosia. Scatole racconta il rapporto tra padre e figlio, Freddie che tratta l’amore a livello sociale ed è anche un chiaro omaggio a Freddie Mercury. E anche Fuori dall’Hype parla del nostro amore per la musica.
Altra protagonista di tante canzoni è poi la provincia
Il tema della provincia è sempre stato importante per noi. Lo stesso titolo dell’album Fuori dall’Hype si riferisce al vivere “fuori” anche da un punto di vista geografico, distaccato dalle grandi città come può essere Milano. E la provincia è un aspetto soprattutto sociale per noi, quindi arrivi a parlare anche delle persone che ti trovi attorno e che la vivono.
Quali sono musicalmente le vostre ispirazioni?
“Alcune sono cambiate e altre sono rimaste costanti negli anni. I Queen sono una di quest’ultime per esempio. A livello italiano Lucio Dalla sicuramente (citato anche in Verdura) mentre tra le più attuali apprezziamo Calcutta, Giorgio Poi, Ex Otago, Gazzelle.
Un tour di successo con date sold out che vi ha visto calcare anche palchi importanti fino ad arrivare al concertone del 1 maggio a Roma e che proseguirà anche per tutta l’estate in giro per l’Italia
“Salire sul palco è sempre una liberazione meravigliosa, vedere tutti quanti cantare con noi. Aspettavamo da tanto tempo questo momento. Ogni nostro concerto è sempre diverso, tanta interazione con il pubblico. Il bello dei nostri live che è ancora tutto da scrivere, una grande sfida da una parte e una grande festa dall’altra.”
Un consiglio per i ragazzi che vogliono intraprendere la carriera nel mondo della musica?
“Sfatiamo il famoso trittico “sesso, droga e rock’n’roll”, ma piuttosto ai più giovani il consiglio che ci sentiamo di dare è quello di impegnarsi e crederci sempre, di macinare chilometri, autogrill, sudore e partiture.
Ironici, eclettici, irriverenti, non si danno una regola e soprattutto non la rispettano. Sono fatti così, a modo loro i Pinguini Tattici Nucleari, ragazzi giovanissimi a partire dal frontman Riccardo Zanotti (voce), Elio Biffi (tastiera), Lorenzo Pasini (chitarra), Matteo Locati (batteria), Nicola Buttafuoco (chitarra) e Simone Pagani (basso).
Sono anche degli ottimi musicisti, ho avuto modo di assistere alla loro data di Cesena al Vidia club e bisogna dire che non è un aspetto scontato saper stare su un palco. Lo stesso vale per il concertone del 1 maggio a Roma e, chissà se alla fine avranno giocato alla play station con Noel Gallagher e chi avrà vinto tra Manchester e Inter?!
In attesa di sapere il risultato del match, bisogna ammettere che a questi “pinguini” (metaforicamente parlando) vuoi bene da subito e ti ci affezioni a prescindere!
Puoi parlarci di tutto, tante le tematiche affrontate nelle loro canzoni: temi di attualità seri o meno, storie raccontate in maniera veramente strepitosa fino ad essere anche politacally (s)correct. Soprattutto sanno parlare bene di amore (in tutte le sue sfumature) e, se già ci avevano fatto scendere la lacrimuccia con canzoni come Irene e Tetris, in fuori dall’hype hanno fatto davvero centro.