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Wolfmother @ Pistoia Blues

Non c’è luglio che si rispetti in Toscana senza il calendario occupato dalle date del Pistoia Blues Festival,un’immancabile tappa musicale per chi delle note fa il suo percorso, che sia come addetto ai lavori o semplice appassionato che vuole sentire progetti conosciuti oppure conoscerne di nuovi. Così, per un altro anno, in Piazza del Duomo la storia dell’architettura incontra quella della musica attraverso i suoi protagonisti: artisti, fonici, allestitori e un pubblico scalpitante. 

Gli headliner della serata del 9 luglio sono i Wolfmother, e, si sa, quello è un gruppo per cui si può aspettare anche tutta la notte su una rigida panca di metallo pur di godersi la perfomance. Se nell’attesa, però, puoi ascoltare progetti belli e ben strutturati, allora ne vale veramente la pena. Purtroppo l’esibizione dei Giudi e Quani vincitori del contest Obiettivo Bluesin posso ascoltarla solo mentre cammino per le vie brulicanti di persone e bancarelle, ma c’è sempre un effetto magico nel sentire la musica dal cuore della città, senza vedere gli strumenti né i musicisti. Un po’ come quando nei musical partono suoni di corde e fiati mentre gli attori iniziano a cantare, invece tu vorresti chiedergli di vedere se il violinista si nasconde sotto il tavolo. Ecco, la musica esce così dal cuore della città per spargersi lungo le strade, alleggerire gli animi insieme alle birre, richiamare all’attenti i ritardatari come me. 

Con la luce del giorno ancora viva, conosco Me, You and the Blues il nuovo progetto del bluesman napoletano Gennaro Porcelli, da quasi vent’anni chitarrista di Edoardo Bennato e, spesso come succede per chi dona la propria anima alle corde, appassionato delle note sfumate di blu di sapore statunitense. Vorrei perdermi in svariati tecnicismi per i critici duri e puri, oppure fare un elenco didattico della sua scaletta. Tuttavia, in questo modo verrebbe meno quella sensazione di condivisione che si respira nell’aria. Immaginate il mondo fuori dai cancelli che chiudono le strade della piazza, i problemi sono rimasti bloccati lì, esorcizzati da un sound coinvolgente, e tra il pubblico vive una sorta di solidarietà sonora che fa stare bene. Dopo Porcelli è la volta di Ana Popovic, la blueswoman che sul palco presenta il nuovo album Power e con la sua energia infiamma il pubblico. Se cercate qualche informazione su di lei nel web, vedrete che può essere definita una delle principali esponenti del blues al femminile. Questa specificazione di genere mi fa sempre sorridere, perché non vedo nel blues il maschile o il femminile. Io lo vedo solo fatto bene o fatto male, e nel secondo caso non è blues. Poi se vogliamo dire che sul palco l’artista riesce ad abbinare forza e grazia, circondata da luci che spuntano ovunque, possiamo anche farlo, ma appena inizia a suonare, in quel sound dentro il quale lei si muove con facilità, senti passione, tecnica, divertimento, e queste doti se ne infischiano delle diversità tra i sessi. Le canzoni che il pubblico ascolta non sono solo un album ma una celebrazione della vittoria personale della Popovic contro il cancro e ne rappresentano la rinascita. Così Recipe is Romance, Turn My Luck e l’energica Rise Up! scuotono e coinvolgono grazie anche ai musicisti di eccezione che accompagnavano la Popovic e tra i quali spiccava anche Michele Papadia, artista italiano ma prestato a vari progetti internazionali del mondo del jazz, blues, gospel, funk e soul. 

Mentre la sera cala sulla piazza, e le luci di scena diventano sempre più vive, sullo sfondo appare la gigante bocca con la scritta Dirty Honey, che non si fanno attendere dal pubblico, anzi il frontman Marc Labelle saluta la città con energia e in un italiano talmente perfetto da far sospettare la sostituzione con un artista del luogo. Dubbio subito svanito appena la sua voce cerca di infrangere il muro del suono con un acuto. L’esibizione è un’ora e un quarto di rock onesto, puro, senza occhiolini strizzati ad altri generi, direttamente dagli Stati Uniti, o meglio dalla California, come non si stanca mai di dire Labelle. Il gruppo è relativamente giovane, nato nel 2017 e con solo un EP e un album registrati in studio, eppure ha una capacità di stare sul palco che può metterli sul piano di altri con molta più esperienza. Tra suoni di chitarra distorta, John Notto e le profndità del basso di Justin Smolian che si muovono da tarantolati sotto i kick complici di Jaydon Bean, senza contare Labelle che scende tra la folla, sentiamo prendere vita le canzoni del loro album Dirty Honey uscito nel 2021, tra cui California Dreamin’ e Another Last Time che accendono la miccia per il fuoco che arriverà dopo: i Wolfmother. 

Wolfmother nel mio dizionario è sinonimo di amore. Pure un po’ incondizionato, tanto che da loro mi andrebbe bene pure il jingle per una marca di dentifrici. Però, con il rock, mi soddisfano di più. Eppure le aspettative, quando sono alte, possono essere deluse, ma con loro non è così. Non ricordo neppure il momento in cui salgono sul palco, l’atmosfera si divide tra silenzio reverenziale e un boato di felicità. La band australiana capitanata da Andrew Stockdale,unico membro della formazione originale, presenta brani storici alternati a quelli di Rock Out, il sesto album in studio che promuovono con il loro tour. Ammetto che fino all’attacco del terzo brano Woman, ancora non credo di poter essere lì, o meglio che loro lo siano e non siano un ologramma. Saranno passati 23 anni dalla loro formazione, ma Stockdale sembra non sentirli sotto nessun aspetto: sono ancora eterne le sue ritmiche veloci supportate dalla sua voce tagliente. Se al basso non c’è più Chris Ross, Jake Bennett non ne fa sentire la mancanza: il suo stile nel suonare il basso è potente, profondo, sembra quasi che la mano si fonda con le corde, ed è ciò che nei brani dei Wolfmother è il famoso colpo sotto la cintura, sleale tanto è bello. Durante la perfomance, la band suona Victorious, un brano appartenente all’omonimo album che alla pubblicazione ebbe un buon riscontro dalla critica perché tornava l’urgenza musicale dell’esordio e un recupero della caustica psichedelia heavy a cui si aggiungono echi stoner. White Unicorn riporta alla mente la vecchia formazione, ma, anche in questo caso, Hamish Rosser sbaraglia qualsiasi nostalgia o sentimentalismo: la batteria è secca, pulita, incalzante. La sensazione non è quella di avere un batterista davanti, bensì una mitragliatrice vivente che batte con tutta la forza che può avere dentro e il risultato nel pubblico è di delirio completo soprattutto quando Stockdale e Bennett si mettono da parte perché noi si possa godere in pieno dei suoi assoli. 

L’esibizione si chiude con Joker and the Thief. Nel pubblico è l’apoteosi, si alzano le mani per un’ultima volta, come a voler toccare la canzone, prenderne un pezzetto ad ogni parola, ad ogni nota, e portarsela a casa per chiudere in un barattolo e vedere se si accendono di nuovo. Con le ultime note, mi allontano dalla piazza, soddisfatta come alla più buona delle cene, ma sento ancora voci del pubblico che ancora rimane lì. Le voci mi seguono e mentre mi perdo di nuovo per le strade deserte piene solo di quel rumore ma ad un certo punto sento un suono graffiante che squarcia l’aria e mette tutti in silenzio. Suonano! Un’altra canzone, solo una! Ma questo è il vero bis, quello non programmato in una sterile scaletta, bensì quello che la gente chiede davvero perché non può finire lì con l’ultima canzone della serata. Le note sono lontane, sempre più flebili, non distinguo bene il brano, ma non torno indietro perché quella musica mi sta accompagnando a casa. Finalmente, ho il mio pezzettino di note da mettere nel barattolo. 

Alma Marlia

IRON MAIDEN: orari e informazioni sugli ingressi per la data di Milano

IRON MAIDEN si esibiranno in concerto in qualità di headliner di The Return of the Gods Festival Milano, nell’unica data italiana di “The Future Past Tour”.

La band inglese suonerà sabato 15 luglio 2023 all’Ippodromo Snai San Siro in via Diomede 1, situato in prossimità della fermata LOTTO M1 (linea rossa) e M5 (linea viola).

Prima di loro saliranno sul palco Stratovarius, Epica, Blind Channel e The Raven Age.
Di seguito gli orari dei concerti e le informazioni logistiche.
 
ORARI:
14:00 – apertura cancelli
16:00 – The Raven Age
17:00 – Blind Channel
18:00 – Epica
19:15 – Stratovarius
21:00 – Iron Maiden

INGRESSI:
Ingresso Gold Circle: Via Caprilli
Ingresso Prato: Via Diomede
 
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INFO:
Come arrivare > https://milanosummerfestival.it/informazioni-e-contatti/
Parcheggi e altre info > https://milanosummerfestival.it/info-generali/
Regolamento dell’Ippodromo San Siro > https://milanosummerfestival.it/regole-del-msf/

Radiofreccia è radio ufficiale di The Return Of The Gods Festival.
Metalitalia è media partner di The Return Of The Gods Festival.
 

Kraftwerk @ Goa Boa

Per l’ultima serata dell’edizione numero 25, il Goa Boa Festival aveva un colpo in canna d’autore già da diverso tempo: i Kraftwerk, il quartetto tedesco che dagli anni ’70 – seppur con formazioni diverse – è una delle colonne portanti della musica elettronica.

E il loro non può essere definito come un concerto in senso stretto. Somiglia più a uno spettacolo di più ampio respiro, in cui non ci si limita ad ascoltare i pezzi, ma al contrario ogni pezzo si vive come se si stessero guardando tanti piccoli cortometraggi. 

Alcuni più astratti e altri più concreti, ma tutti accomunati da una sottile vena surrealista che unisce le (poche) parole dei brani, la musica e le immagini che passano su uno schermo posto dietro il quartetto.

L’inizio dello spettacolo potrebbe lasciare vagamente perplessi: immaginate di essere seduti e di passare i primi 15 minuti a fissare uno schermo rosso su cui si muovono quattro figure pixelate. Sul palco solo le quattro tastiere e nient’altro. I suoni elettronici che arrivano si mischiano con quelli dell’ambiente circostante e delle navi che passano dietro al palco. Passa un quarto d’ora e finalmente il gruppo arriva sul palco.

Da quel momento è un mix di atmosfere ed estetiche diverse ma unite da un fil rouge, che vanno da reminiscenze di Matrix alla tecnologia anni ’80, dalle navicelle spaziali al rapporto tra uomo e macchina, facendo emergere temi via via sempre più complessi.

È come se il gruppo non fosse al centro della performance, ma piuttosto al servizio di quest’ultima, tanto da adattare i colori delle luci delle loro tute a quelli delle immagini che passano sullo schermo per fondersi al meglio. 

Uno show ipnotico e ipnotizzante, nonché probabilmente uno dei concerti più lunghi a cui abbia mai avuto il piacere di assistere: due ore e mezza ininterrotte di musica e immagini.

Alla fine, forse, non erano tanti cortometraggi, quanto piuttosto la cosa più simile a un film di Kubrick che si può vivere nella vita al di fuori dello schermo. 

Francesca Di Salvatore

Kim Gordon @ NOVA

L’Altra sera ho esaudito un mio desiderio.

Idolatrare un gruppo forse è un atteggiamento infantile, ma quando si parla di Sonic Youth tendo un po’ a strafare e mettere su un piedistallo Thurston Moore e soci. In particolare, poi, se si parla della componente femminile, esagero senza vergogna, ad un passo dalla venerazione. Bisogna ammettere, però, che Kim Gordon è una vera leggenda. Questa settantenne newyorkese ha scritto trent’anni di storia della musica con i Sonic Youth, band scioltasi nel 2011 e dopo ha continuato la sua carriera, militando in altre band. Nel 2019 ha pubblicato il suo primo album solista, No Home Record per la Matador. Kim Gordon, inoltre, non è solo musica ma è un’artista completa: ha lavorato nel campo della moda, ha prodotto dischi, ha scritto libri ed è stata anche attrice ed è anche molto impegnata in politica, in particolare nelle sua battaglie per i diritti delle donne.

Finalmente in tour in Europa, ho l’occasione di vederla, assieme alla sua band tutta al femminile, al BOtanique di Bologna, un giardino nel pieno centro universitario con la possibilità di assistere ai vari live stesi su dei grossi cuscinoni su un prato. Questo evento è ideato all’interno della rassegna del NOVA, astro nascente dei festival bolognesi, che da qualche anno ci regala delle line up di tutto rispetto, grazie alla collaborazione di una serie di realtà culturali come il Covo Club, Dumbo, Estragon, roBOt festival e TPO.

Si parte con Sketch Artist, brano che apre anche l’album No Home Record. Per tutto il live, sullo schermo retrostante la band si vedrà questo viaggio senza sosta, come se ripreso da un finestrino, in lungo e largo nei territori degli Stati Uniti. Dai deserti alle città più famose, è probabilmente un richiamo al sentimento di assenza di radici che ha ispirato il nome del disco. Paprika Pony mantiene atmosfere cupe, tra synth e un drumming saltellante, sfociando in un bellissimo e doloroso muro di suono. Il vero è proprio tocco noise si raggiunge con Murdered Out, dove il ritornello ossessivo viene cantato con un’intensità da mettere i brividi, mentre le dissonanze delle chitarre ti trascinano in luoghi oscuri ma purificatori. Cookie Butter si presenta come una versione più rumorosa rispetto alla registrazione presente sull’album, con ritmi frenetici, rumori di sirene e un’energia travolgente. Dopo un breve intervallo, Kim Gordon e la sua band tornano sul palco e Hungry Baby apre l’encore con la sua rabbia punk, grida e ritmi incalzanti, suscitando l’entusiasmo del pubblico bolognese. Segue una cover di Blonde Red Head dei DNA di Arto Lindsay, e infine il concerto si conclude con il singolo Grass Jeans, uscito alla fine del 2021, regalando un’ultima dose grintosa di punk e adrenalina, prima di lasciare spazio a alcuni minuti di solo noise strumentale mentre Kim agita furiosamente la chitarra contro lo schermo dietro di lei.

Inutile dire che il concerto è stato intenso e dissonante, proprio come lo avevo sempre immaginato. Senza alcun dubbio la Gordon domina il palco senza paura, raggiungendo picchi di noise e dissonanze che ogni vero fan dei Sonic Youth brama. Quando si realizza un sogno c’è il rischio di rimanere delusi, divedere le proprie aspettative tradite. Questa volta non è successo, anzi, è stato ancora meglio di come lo sognavo.

Alessandra D’aloise

I Inside the Old Year Dying

Orlam: un poema in musica

Tecnica. Appassionata. In ascolto. Tesa a percepire le sfumature degli altri ma anche di se stessa per trasformali in brani e ridarli nuovamente al mondo. Tutto questo è PJ Harvey, cantante, musicista e compositrice britannica indie rock. L’inquieta Polly Jean partita con esordi di scandali e atteggiamenti provocatori con testi a luci rosse, con il tempo è diventata un’icona di ricerche sperimentali e collaborazioni in altri generi come folk e blues. L’artista riesce a colpire il suo pubblico con il decimo album in studio I Inside the Old Year Dying per Partisan Records. 

Se attraverso progetti come Let England Shake e The Hope Six Demolition Project PJ ha documentato momenti difficili nel mondo, in I Inside the Old Year Dying si concentra su un mondo affascinante tutto suo. L’album trae spunto da Orlam, il poema epico scritto dalla stessa artista che narra di Ira-Abel, una bambina di nove anni del Dorset i cui compagni sono lo spettrale soldato Wyman-Elvis e Orlam, occhio di un agnellino allevato dalla bambina stessa ed è l’oracolo del villaggio. Ad un primo ascolto, I Inside the Old Year Dying appare complesso, eppure è possibile trovarvi una leggerezza particolarmente gradita e che la allontana dai toni troppo cupi dei progetti precedenti. Come Orlam, l’album si sviluppa utilizzando il vecchio dialetto del Dorset che l’artista ha conosciuto attraverso le canzoni tradizionali ascoltate nella giovinezza, mentre i modi di dire locali come Seem An I, cioè “sembra” ne aumentano la stranezza ammaliante. Nel brano, il dialetto si mescola ad un andamento jazzato e chitarre morbide, in un’atmosfera quasi vintage. Anche quando il linguaggio è cupo, lo stato d’animo è leggero quando Harvey canta dei “bambini gessosi di sempre” sopra le campane della chiesa, le chitarre fragili e i tamburi scoppiettanti della title track, mentre il sound diventa più psichedelico in A Child’s Question, July. Il cambiamento netto e irrevocabile emerge in A Noiseless Noise subito dopo la tagliente distorsione a cui segue il consiglio dato a Ira-Abel di lasciare il suo vagabondare. Un brano aspro, dove la chitarra è libera di distorcersi liberamente e librarsi nell’atmosfera per aprire squarci nell’ascoltatore. Cosa ci sia dietro ad ogni squarcio, poi, sta a noi scoprirlo. Nel suo progetto, Harvey si muove magistralmente nel mitico che trova la sua massima espressione in All Souls, un cigolio in punta di piedi che potremmo definire tra i suoi lavori più inquietanti, ma che coinvolge l’ascoltatore ai massimi livelli di percezione. In tutto questo, la voce di Harvey si conferma strumento stesso dell’artista sempre più modulata ed espressiva, capace di immergersi e rendere vivo un mondo fatto di ombre e luci, dove le contrapposizioni e i riti di passaggio che segnano la vita dell’essere umano diventano reali nonostante l’atmosfera mitica. Eppure nessun successo si raggiunge senza la giusta squadra e trasformare un poema in musica è stato possibile grazie alla collaborazione di Flood, John Parish e Adam Cecil Bartlett con cui l’artista ha sperimentato varie combinazioni sonore anche con tastiere e sintetizzatori analogici, meccanismi sintetici che ritroviamo nell’esoterica The Nether-Edge carica di sonorità ipnotiche.

Con questo decimo progetto registrato in studio, PJ Harvey si conferma una cantautrice eclettica e piena di intense emozioni pronta a trasformarle in sensazioni sonore per il suo pubblico. Lontano da rossetti scarlatti e look da femme fatale del rock degli esordi, PJ Harvey rimane costante nel costruire progetti forti, intensi e carichi di una certa densità musicale e concettuale che non possono che darle un posto privilegiato nel panorama musicale e negli spazi virtuali e non di chi nella musica ricerca quel qualcosa in più, una terra di mezzo tra il piacere e il pensiero. Un luogo spesso cupo e spettrale, ma una cupezza con cui l’artista prende confidenza, non per renderla più leggera, bensì per coesisterci senza paura.