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Therapy? “Greatest Hits (The Abbey Road Session)” (Marshall Records, 2020)

30 e non sentirli

 

Era il ’92 quando il mondo conosceva Nurse, il primo disco major dei Therapy?, trio nordirlandese che festeggia nel 2020 i trent’anni di vita.

Da sempre di difficile catalogazione, caratteristica che al giorno d’oggi suona più come un vanto ed una stella al merito, questo Greatest Hits (The Abbey Road Session) intende raccogliere, a mò di Bignami, i dodici brani che Andy Cairns e soci hanno piazzato nella top 40 britannica, decidendo però di risuonarli ad Abbey Road, in una sorta di ritorno al presente, per brani, come appunto l’opening track, Teethgrinder, che faceva bella mostra di sé nel già citato Nurse.

Partenza schizofrenica, con Neil Cooper a mettere a dura prova il rullante, mentre Screamager ci riporta in territori più punk. I giri tornano a salire su Opal Mantra, con fendenti di chitarra taglienti e ficcanti e non puoi non sorprendenti di quanto fresca e attuale suoni una canzone come questa, che di anni ne ha più di venticinque.

Turn è il primo asso calato dai Therapy?, estratto da quel Troublegum, (probabilmente) il loro punto più alto, sicuramente dal punto di vista commerciale, anche se Nowhere non è da meno, anzi (cosa non fa Cooper in sto brano!), e non puoi non percuotere ogni cosa ti capiti a tiro e cantare “going nowheeere”.

Si salta convinti anche con Trigger Inside, durante il quale si apprezza più che altrove lo stato di salute eccellente (no pun intended) della band e l’ottima resa di questo pseudo live.

Die Laughing vede l’ingresso in scena dell’unica guest del disco, James Dean Bradfield, Mr. Manic Street Preachers, per passare poi ai poliritmi sfrenati di Stories, uno dei momenti più alti del disco.

Loose fa da antipasto per rendere omaggio ad uno dei gruppi a cui i Therapy? sono più legati (ed anche il sottoscritto), ovvero gli Hüsker Dü, con una Diane meno disperata ed arresa forse, ma non sfigura affatto.

Il giro mozzafiato di basso di Church of Noise per una tirata in apnea di tre minuti e la cavalcata punk di Lonely, Cryin’, Only suggellano quella che sulla carta ha i crismi di un’antologia (e che antologia!), ma che nella realtà dei fatti ci mostra i Therapy? che prendono la carta d’identità e ce la strappano davanti agli occhi.

 

Therapy?

Greatest Hits (The Abbey Road Session)

Marshall Records

 

Alberto Adustini

Anna Calvi “Hunted” (Domino Recording Company, 2020)

Ma perché, mi chiedo io, perché? Hai fatto un disco pazzesco, uno dei miei preferiti del 2018, e decidi di riprenderlo in mano, riarrangiarlo, e pubblicarlo e nemmeno due anni di distanza…

Perché?

Vediamo, forse perché se ti chiami Anna Calvi ne verrà comunque fuori un gran disco. E se decidi di avere anche compagnia, beh, ancora meglio. 

Scrivere di questo Hunted, avendo nei mesi scorsi consumato il fratello maggiore Hunter mi fa strano, lo ammetto, e partivo un po’ prevenuto. Come spesso mi accade per le ristampe, edizioni deluxe, remasterd, unplugged e via discorrendo. Sono snob. O qualcosa di simile, lo so.

Poi però i fatti amano sorprenderti, anzi, sbatterti in faccia la realtà e dimostrarti una volta di più che certi preconcetti, certi giudizi avventati e aprioristici sarebbe la volta buona di lasciarseli alle spalle e pensare che non sono solo operazioni commerciali, o riempitivi, tappabuchi, uscite senza pretese in periodi di magra ispirazionale (non sono sicuro dell’esistenza di questo termine, avviso).

Prendiamo proprio Swimming Pool, la prima di queste sette rivisitazioni, che si presenta qui in versione scarnita, spoglia degli archi e degli altri orpelli rispetto alla versione originale, con un semplice arpeggio di chitarra che trova sostegno nel controcanto celestiale di Julia Holter, ora solo coro, ora intermezzo, ora seconda voce. Sono già brividi.

Lo aveva annunciato la Calvi stessa che uno dei motivi principali di questo Hunted era, nelle sue intenzioni, quello di riportare questi brani alla loro forma archetipale, un ritorno all’essenza per così dire.

Per una Swimming Pool resa celestiale dal duetto con la Holter, una Hunter nella quale Anna torna ad arrangiarsi, regalandoci una versione più disturbante e notturna ed una successiva Eden che, devo ammetterlo, preferisco qui che su Hunter; saranno i bisbigli di Charlotte Gainsbourg, sarà l’ipnotico finale, non lo so, ma questa è poesia. Alta. Punto.

Away è così ridotta all’essenziale che per lunghi tratti sembra quasi a cappella, con la voce riverberata, una chitarra acustica che compare, si allontana, torna a far capolino, per accompagnarci dolcemente, con garbo, lontano.

Se mi avessero chiesto prima “Abbiamo qui Courtney Barnett, che dici? Quale canzone potremmo farle fare in duetto con Anna?” avrei risposto senza indugio Don’t Beat The Girl Out Of My Boy. Ed infatti. Una chitarra, elettrica il giusto, per una versione che sarebbe stata bene addosso alla PJ Harvey del periodo Dry/To Bring You My Love, un po’ acida, un po’ sporca, un po’ cattiva. Brutta no.

Wish era invece quella che aveva attirato più della altre la mia curiosità, non foss’altro per la presenza, ingombrante, inutile negarlo, di Joe Talbot, voce degli Idles (per i quali confesso avere una grande simpatia. E profondo rispetto. Mi piacciono in parole povere). E nemmeno sta volta riesco a rimanere neppure un pizzico deluso. O indifferente. No. Parte quasi bofonchiando, Joe, ma neanche trenta secondi e ci pare di essere quasi in piena no wave newyorkese, con echi nemmeno troppo lontani di Alan Vega e dei suoi sbalzi umorali improvvisi, infatti d’un tratto ecco il dolce duetto, quasi sognante, ma dura poco, poi è di nuovo ossessivo il riff principale, dal quale emergono fendenti di chitarra che dai Suicide portano dritti ai Velvet Underground, giusto per non cambiare città. Poi torna la quiete, ci pensa Anna, a riportare la calma, a condurci dolcemente in fondo.

Il finale, gran finale, con Indies or Paradise, mi ha portato a fare un parallelismo istantaneo con un video che ho visto qualche tempo fa, con protagonista un’altra guitar hero, ovvero St. Vincent. In questo video parla dei suoi riff preferiti, quelli che avrebbe voluto scrivere, e via discorrendo. Ad un certo punto, verso la fine, inizia a suonare, chitarra e voce, Fort Six & 2 dei Tool. Recuperatelo e poi ascoltate appunto Indies or Paradise e ditemi se non parlano la stessa lingua. A ste latitudini i 4/4 non si sono mai visti, Anna ci propina un campionario di altissimo livello, sembra andare a braccio, ora canta, ora sussurra, poi bisbiglia, esplode, s’inarca e si accartoccia, fa un po’ quello che le pare. Ed è magnifico.

 

Anna Calvi

Hunted

Domino Recording Company

 

Alberto Adustini

Henrik Lindstrand “Builder’s Journey” (One Little Indian, 2020)

Henrik Lindstrand, già membro del gruppo alternative rock danese Kashmir, è un compositore svedese di musica contemporanea neoclassica e di colonne sonore per il cinema.

Builder’s Journey è il suo terzo album da solista: dieci brani composti ed eseguiti al pianoforte, ideati per la colonna sonora di un videogioco, LEGO Builder’s Journey per l’appunto.

Un progetto peculiare, questo, ma al cui richiamo emotivo non ha saputo dire di no: “[lo studio di produzione, NdR] Avevano ascoltato il mio primo album da solista Leken e mi chiesero se fossi interessato a comporre la colonna sonora per il videogioco. Mi sembrò un’idea vincente, e dato che ero stato un bambino costruttore con i LEGO io stesso, aveva anche un forte elemento nostalgico per me.”

Ascoltando l’album si ha la sensazione immediata di entrare nella realtà aumentata di un ricordo dell’infanzia. Puoi rivederti toccare curioso i tuoi giocattoli preferiti ed interromperti ad osservare lo spazio oltre il vetro di una finestra, alla ricerca di nuove trame e personaggi.

Come i LEGO, le tracce di Builder’s Journey si completano dando vita ad un arco temporale sospeso, scandito dalla fine di un gioco e l’inizio di un altro mentre si aspetta il ritorno dei genitori a casa.

Lindstrand alterna gli ambienti intimi di brani come Our House e Kid and Dad Reunited, agli spazi all’aperto ed eterni di Sand Castle e Campfire.

Dad at Work è il brano più dinamico e asincrono, la batteria ti coglie di sorpresa.

Ascoltando Builder’s journey, il brano che ha anticipato l’uscita dell’album, non stiamo sbirciando dal finestrino di un auto una foresta di aghifoglie nel nord Europa?

Il suono delicato del pianoforte, perno centrale dell’album, pervade gli spazi abitabili di Builder’s Journey e restituisce la percezione di un luogo serafico. L’ ambiente sonoro, ricercato ed idillico, che avvolge le tracce suggerisce la visione di una luce diffusa e diurna mentre due mani piccole afferrano quei mattoncini di plastica.

La sensibilità di ogni traccia porta l’ascoltatore lontano ma dentro a qualcosa che ha già vissuto. Così la mancanza di parole viene colmata dal suono dei nostri pensieri a ritroso. A tal proposito, Lindstrand racconta di aver cercato di rendere la musica autonoma ed completa in modo che non risultasse un anonimo suono di background e compensasse la mancanza di dialogo nel gioco.

Builder’s Journey è un album tattile, generativo ed introspettivo. Brani come Gameshow e The factory stimolano un’esigenza creativa che affiora ad ogni nota sospesa. Home alone, Light Brick ne affermano la natura intima e nostalgica.

In conclusione, questo disco non è semplicemente la colonna sonora di un videogioco, ma un’opera che testimonia il grande talento di Lindstrand nel dare respiro ad immagini riconoscibili ed universali.

 

Henrik Lindstrand

Builder’s Journey

One Little Indian

 

Giulia Illari

Non Voglio Che Clara “Superspleen Vol. 1” (Dischi Sotterranei, 2020)

Attenzione, maneggiare con cura! Avete tra le mani, o nelle orecchie a seconda, un signor disco, tra i più belli sentiti in questo primo scorcio di 2020, a parer mio.

Superspleen Vol. 1 dei Non Voglio Che Clara è un disco malinconico il giusto, arreso ma non troppo, con picchi di scrittura immaginifici. E mi sto trattenendo. Prendete la conclusiva Altrove/Peugeot, intorno al minuto 2:20: quel cambio di registro, quella virata quasi agnelliana (nel senso di Manuel, non dell’animale), “è un dolore passeggero che si cura col veleno”, il finale che gli Slowdive direbbero well done guys! Da mozzare il fiato. La rimando in loop da settimane.

È un disco dal peso specifico rilevante, è un disco non immediato seppur facilmente fruibile, frutto di un linguaggio ricercato, soppesato, ma non aulico. Per fare un parallelismo stareste leggendo un Erri de Luca, o un Culicchia, non Gesualdo Bufalino ecco. 

Canzoni che sono sguardi, spesso all’indietro, talvolta al presente, di rado al futuro, verbi quasi sempre coniugati al passato, pop d’alta classe, con aperture più radiofoniche, come ne La Croazia o San Lorenzo, o i tempi più dilatati di Ex-Factor, passaggi nei territori dell’indie contemporaneo di Epica Omerica, ma ci sono idee e linfa nuova lungo tutto questo disco, come quando si sdrammatizza ne Il Miracolo o si ammicca agli anni ’80 con La Streisand.

Probabilmente il passaggio focale del disco sta in Liquirizia, che mi piace pensare sia stata posizionata a metà disco proprio per questo, “e il gusto dolce amaro della liquirizia”, è il clima generale che si respira e che permea queste dieci riflessioni, queste dieci diapositive, appese al muro, che Fabio de Min e i suoi sodali, osservano, con il giusto distacco, senza sprofondare nei ricordi, senza lasciare il passo ai rimorsi, ma con una consapevolezza nuova, più fresca, più sincera.

Credo che questo Superspleen vol. 1 sia il classico caso di disco hic et nunc, per quanto mi riguarda, perché i Non Voglio Che Clara mi girano attorno da sempre, come satelliti, ma per questioni orbitali o altro non avevo mai inviato una stazione spaziale a studiarne la composizione (ok ok, la smetto). E sì che di occasioni, voglio dire: i loro primi dischi con l’Aiuola Dischi, quando per me quell’etichetta era quasi esclusivamente Babalot o Arte Molto Buffa, e la loro provenienza geografica, a pochi chilometri da casa mia, e quella scena indipendente con Valentina Dorme, i mitici Es e molte altre band oramai di culto, ma mai una volta che fosse scattato il fatidico colpo di fulmine.

Fino a qualche settimana fa. Ora Superspleen vol. 1 è entrato a pieno regime nelle rotazioni di queste settimane di smart working e forzata reclusione, “E di cantare chissà quando smetterò”, ci si domanda su Superspleen… Ecco, non a breve, per quanto mi riguarda, anche perché prima vorremmo il vol.2.

 

Non Voglio Che Clara

Superspleen Vol. 1

Dischi Sotterranei

 

Alberto Adustini

THINKABOUTIT “Marea” (Totally Imported, 2020)

È un viaggio musicale, quello che ci propongono i THINKABOUTIT con Marea, il loro nuovo album uscito a quattro anni di distanza dal loro ultimo lavoro in studio. Tutto il tempo trascorso, tutta la fatica e la ricerca stilistica fatti dal collettivo sono tangibili in queste 16 tracce, che un po’ si discostano dalla loro musica precedente. 

Anticipato dai due singoli Arturo Gatti e I Fly High, che già lasciavano presagire il cambio di rotta da parte del collettivo barese, Marea si presenta come un disco decisamente eterogeneo, che passa dall’elettronica alle chitarre, con anche diversi richiami al jazz. 

Tornando alla metafora del viaggio, troviamo tracce come Tokyo o Adriatico che, a dispetto del nome, sembrano voler trasportare chi ascolta proprio in un locale jazz degli Stati Uniti, uno di quelli dove trombe e sassofoni dominano la scena. Al contrario, canzoni come 2008 ricreano un’ambientazione pittoresca del Sud Italia.

Sulla stessa scia troviamo anche Leave This Place, dove invece sono le parole a farci pensare al viaggio, o forse più a una fuga per inseguire i propri sogni. “Grab your dreams and drive away, put ‘em in your suitcase and never look back”, cantano all’inizio del pezzo. 

Il brano più particolare di tutti però è sicuramente Parlesia, realizzato in collaborazione con il pianista e compositore Mario Nappi. Il titolo si riferisce al gergo tipico dei musicisti napoletani e allora, su una base di pianoforte, ad una prima parte in inglese si accosta una seconda in napoletano, senza forzature o stranezze, come se fosse il proseguimento più naturale del mondo.

Un’atmosfera mediterranea si mischia dunque a sonorità internazionali, accentuate anche grazie al passaggio dall’italiano all’inglese nei testi. Una scelta azzardata forse, ma che nel complesso funziona e rende le canzoni quasi “cinematografiche”, nel senso che potrebbero funzionare bene come la colonna sonora di qualche film indipendente. 

Marea è quindi un album decisamente evocativo, che fin dal primo ascolto riesce a trasmettere immagini nitide attraverso parole e musica, che nella maggior parte dei brani tende a fare da padrona. 

Sono proprio queste immagini a funzionare da collante tra canzoni così diverse tra loro; il fil rouge che accompagna l’ascolto.

 

THINKABOUTIT

Marea

Totally Imported, 2020

 

Francesca Di Salvatore

Califone “Echo Mine” (Jealous Butcher Records, 2020)

Un nuovo album dei Califone è sempre e comunque una splendida notizia.

Provenienti da Chicago e attivi dal 1997 (dopo la dipartita dei sensazionali Red Red Meat), per questo ottavo lavoro sulla lunga distanza, in formazione “a tre”, con Ben Massarella, Brian Deck ed ovviamente sua eminenza Temistocles Hugo Rutili (per gli amici Tim), i Califone ci consegnano un disco che ci ricorda, semmai in questi sette anni di quasi silenzio ci fosse venuto qualche dubbio, che siamo di fronte a dei fuoriclasse. Punto.

Vi basteranno poco più di 60 secondi per concordare con me, un’intro di chitarra, qualche manipolazione, e poi l’inconfondibile incedere califoniano (non manca una erre, sia chiaro), una spruzzatina di slide guitar, quel pseudo blues strascicato, e la voce di Rutili a trascinarsi (e trascinarci) da vent’anni e più. Siamo sempre nei territori cari ad Heron King Blues, ma si sconfina spesso, senza pudore e senza remore, già con il ritmo folle (per gli standard compassati dei nostri, s’intende) di Bandicoot, con sfuriate di Hammond e divagazioni decisamente colorite. 

La successiva, mirabile, Night Gallery/Projector, in maniera del tutto inaspettata ma perfettamente naturale, evolve in un finale quasi “kosmik”, per lasciare il passo alla strumentale Howard St & The Beach Nov 1988 After 11, dove è Ben Massarella e le sue percussioni a tenere la rotta prima di accompagnarsi all’organo verso il finale. Si sperimenta ancora, come in Carlton Says: Find it. It’s Still There con l’apparizione di una registrazione di una voce femminile, o nella minimale Flawed Gtr.

I quasi sette minuti di Echo Mine, il brano che dà il nome al disco, sono tra i più ispirati dell’intero disco, e costituiscono davvero la perfetta fotografia di quello che i Califone rappresentano, l’incedere lento, cadenzato, uno tappeto sonoro ora scarno, ora più intrecciato, la melodia incerta che si intreccia ad intromissioni rumoreggianti, e la voce di Tim a suggellare un piccolo miracolo.

I Califone hanno deciso di tenersi i botti alla fine, pare di capire; Snow Angel V1 è una gemma chitarra e voce, che in certi passaggi mi ricorda i 16 Horsepower di Sackcloth ‘n’ Ashes, con un coro a far capolino e a rendere tutto più struggente. By the Time the Starlight Reaches Our Eyes pare citare certi momenti del Tom Waits di Bone Machine, per poi espandersi e dilatarsi in un lungo crescendo strumentale.

I titoli di coda giungono con Snow Angel V2, versione “elettrica”, chitarra + basso + batteria di Snow Angel V1, che in questa veste diventa quasi una ballad in salsa Califone.

Gran bel disco questo Echo Mine che ci regala dei Califone ancora in piena fase creativa, a rimarcare che l’universo creato da Tim Rutili e compagnia, già sconfinato, è ancora in espansione.

 

Califone

Echo Mine

Jealous Butcher Records

 

Alberto Adustini

 

Green Day “Father of All Motherfuckers” (Reprise Records, 2020)

2020 Ritorno al futuro

 

L’adolescenza è una situazione transitoria nella vita di tutti, eppure mentre la vivi sembra non finire mai. La ribellione la fa da padrone, verso la famiglia, la scuola, la società. 

Chi ha vissuto gli anni ‘90 come adolescente ricorda quanto eravamo incazzati e rissosi. Non volevamo saperne di adattarci alla società e la musica era il nostro mezzo per comunicare questo disagio.

Grazie alla “new punk explosion”, ossia la corrente di pop punk iniziata proprio durante quegli anni, la rotazione giornaliera di MTV era piena di gruppi capitanati da personaggi strambi, che urlavano inni all’apatia e al disagio verso il mondo. Nelle nostre menti risuonavano i NOFX, Offspring, Pennywise, Rancid, ma la band che più ha caratterizzato la scena pop punk di quegli anni son stati i Green Day.

Nel ‘94 esplose Dookie, terzo album di questo trio di pazzi furiosi, ma fu Basket Case il brano più iconico della band.

Per tutti quelli che son cresciuti al grido di “Sometimes I give myself the creeps, sometimes my mind plays tricks on me” l’uscita del nuovo disco di questo gruppo è un po’ come la telefonata di un ex fidanzato che non senti da anni. 

Father of All Motherfuckers (letteralmente Padre di Tutti gli Stronzi) è la rappresentazione di quello che sono stati i Green Day per noi adolescenti problematici che son cresciuti con quel tipo di rabbia che non svanisce con l’età adulta, ma rimane dentro e si ripercuote nella vita di tutti i giorni.

La paura maggiore (per gli amanti del genere e della band) era trovarsi davanti un Billie Joe Armstrong cresciuto e cambiato. Ma ci sorprendono sempre ‘sti pazzi, e questo nuovo lavoro musicalmente non è molto lontano dalle loro sonorità e contiene testi significativi.

Il brano di apertura (che prende il nome dal disco) possiede un’alone indie rock, e con la frase “I live inside of us” sintetizzano al meglio quasi trent’anni di carriera.

Le schitarrate indie rock proseguono nei brani seguenti Fire, Ready, Aim, Oh Yeah (“I am a kid of a bad education” e noi voliamo) e Meet Me On The Roof.

Si ritorna alle radici punk con I Was A Teenage Teenager, l’intro composto dal basso e voce ci fa rivivere l’adolescenza, le crisi di nervi, l’insicurezza e la nostra maleducazione civica.

Stab in you heart è un omaggio al rock’n’roll, con cori, giri di chitarre ed assoli tipici del genere. Sembra di trovarsi nella scena di Ritorno al Futuro dove Marty intona Johnny B. Goode davanti alle espressioni attonite dei presenti.   

La vecchia sensazione di essere dei perdenti che non fotteranno mai la reginetta della scuola continua a perseguitarci anche da adulti, e in Sugar Youth riversano tutto la loro voglia di scatenare l’inferno. 

Junkies On a High oltre ad essere coerente con il loro stile (ci ricorda vagamente Boulevard Of Broken Dreams)  è  il manifesto della concezione di vita per Billie: “My downward spiral / Rock’n’roll tragedy / I think the next one could be me / Heaven’s my rival / I sing in revelry”. Molti perbenisti odieranno questa canzone, dove vi è quasi un invito ad assumere droga, a lasciare che il mondo vada a puttane senza muovere un dito.                                  

I Green Day sono l’emblema della rabbia giovanile e dell’abuso di qualsiasi sostanza, li ritroviamo anni dopo, sempre pronti a farci scatenare con pezzi ritmati. Il disgusto per il mondo non è cambiato, ma ha lasciato il posto ad una strana consapevolezza di quello che è stato, senza rinnegare gli errori commessi e il bisogno di esprimere sentimenti quasi mai positivi.                                                                                                     

Questo album è un ritorno alle origini musicalmente parlando, il riassunto di una vita passata a sbroccare sul palco, a vomitare disagio. Sono stati un supporto alla nostra adolescenza, ci hanno tolto la solitudine e regalato comprensione. Ora che siamo adulti ci stanno comunicando che loro son qui, e non intendono abbassare la testa.

 

Green Day

Father of All Motherfuckers

Reprise Records

 

Marta Annesi

 

Nada Surf “Never Not Together” (City Slang, 2020)

IndieVirus

 

Il vero amante delle serie TV è quello che si affeziona anche alle colonne sonore. E ci sono delle canzoni che ti rimangono dentro tuo malgrado, perché sono legate all’emozione che, empaticamente, ti ha stimolato la scena del telefilm.

Ecco, per me è stato con i Nada Surf in O.C. con If You Leave e in vari episodi di How I Met Your Mother.

Una band che venne inserita nella rotazione di MTV con Popular nel 1996 (brano che rappresentava un’aperta critica verso i giovani, diventata hit estiva) non è mai riuscita a sfondare del tutto, sopratutto dopo che l’etichetta discografica li scaricò per divergenze stilistiche.

Il loro inizio alt-punk-rock simil Sonic Youth si è lentamente avvicinato al pop, tramutandosi nel corso degli anni (e delle mode) in una band indie rock. 

Il loro nuovo lavoro, Never Not Togheter, nono album della band statunitense, esce a distanza di quattro anni dal precedente You Know Who You Are.

Ormai lo spirito dell’indie li ha completamente infettati: alternando saggiamente ritmi rilassati a suoni più accesi, creano un ambient rilassato come in So Much Love, la canzone di apertura dell’album.         

I brani sono caratterizzati dalla presenza di un buon sound, interessanti le chitarre e i rullanti tosti della batteria.                                          

Un ritorno alla parte infantile e ai sentimenti genuini, questo è il frutto di anni di conoscenza, di impegno e sacrificio. La squadra composta da Matthew Caws, Ira Elliot e Daniel Lorça sembra aver trovato la sua vera nicchia.

L’ingenuità con cui inizia Looking For You e l’elettrica alla fine, la dolcezza di Crowded Star e quel riff di chitarra semplice ma ipnotico, sono dei validi motivi per ascoltare questo album.                                                                                            

La voce delicata di Caws, in contrapposizione con chitarra e batteria, crea un mix piacevole e accattivante in Mathilda.                                                                              

Questo loro nono album insegue un’idea di musica abbastanza commercializzabile, un’indie rock sentimentale, delicato, con riferimenti elettropop (come in Come Get Me e Something I Should Do).

Musicalmente preparati, è tangibile il loro feeling, come gruppo e come esseri umani.

Un album piacevole da ascoltare, anche se alcune volte ricade nello scontato. Per noi, nulla di nuovo, ma apprezzabile a livello di musicalità.

Sperando che questa sia la volta buona per questi artisti, che abbiano finalmente trovato il loro equilibrio e la loro vocazione.

Che l’Indie Rock Sia Con Voi.

 

Nada Surf

Never Not Together

City Slang

 

Marta Annesi

 

Spanish Love Songs “Brave Faces Everyone” (Pure Noise Records, 2020)

Se nel 2015 provavi a digitare su Google Spanish Love Songs, come risultato della tua ricerca ottenevi qualsiasi cosa tranne questa band di Los Angeles, tant’è che se per “sbaglio” incappavi sul loro sito internet (all’epoca ancora in costruzione) una dicitura a caratteri cubitali ti ringraziava per la tenacia che avevi dimostrato nell’averli trovati.

Beh, i tempi son cambiati, e a furia di tour incessanti in America ed Europa siamo arrivati al terzo capitolo di questa incredibile band Californiana, nata inizialmente su Wiretap Records. 

Già dal primo disco del 2016 si poteva intuire che questi ragazzi avrebbero fatto tanta strada, e ascoltando canzoni come Remainder dalle grandissime potenzialità melodiche, m’innamorai di loro dal giorno 1, e con gli amici facemmo le prime furgonate verso Vicenza per vederli real live alla Mesa di Montecchio prima nel 2016 e poi nel 2018. Ringrazio ancora oggi il promoter che li organizzò due volte di fila!!!

Premettendo che il frontman Dylan Slocum ha una potenza vocale tale da poter cantare con qualsiasi band dal grunge degli anni ‘90 al rock dei giorni d’oggi, anche il resto della formazione ha raggiunto la perfezione, specialmente in questo ultimo disco si fa notare una sezione basso-batteria ancor più serrata rispetto i lavori precedenti.

Gli orecchi più fini potranno sentire anche l’uso di tastiere con suoni synth, pad e pianoforti, presenti in sottofondo su quasi tutte le dieci tracce, com’era già successo con Schmaltz, arricchendo ancora di più le frequenze già sature da chitarre crunch al limite.

Come nei loro dischi precedenti, non mancano (piatto forte della band), spazi sonori vuoti, dove ad un certo punto della traccia, la voce graffiante di Dylan rimane da sola, creando atmosfere emozionanti uniche, prima che il muro di chitarre, basso e batteria ritorni ad invadere quello che poco prima era silenzio cosmico.

In definitiva questo album conferma la crescita esponenziale del quintetto californiano, tra l’altro proprio in queste settimane in tour europeo di spalla a Menzingers, tra Inghilterra, Germania, Austria, Svizzera, Olanda e Belgio.

Purtroppo questa volta non c’è l’occasione di rivederli in Italia…speriamo in futuro.

Ancora una volta gli Spanish Love Songs dimostrano che siamo nel 2020, che un album punk può contenere otto canzoni su dieci di quattro minuti e che negli U.S.A. non vige il divieto dell’uso di tastiere e chitarre acustiche su questo tipo di musica, cosa che in Italia invece sembra essere ancora scolpita sullo statuto dell’alternative punk.

Oggi è una bella giornata, è uscito il nuovo degli Spanish.

 

Spanish Love Songs

Brave Faces Everyone

Pure Noise Records

 

Peter Torelli

Calibro 35 “Momentum” (Record Kicks, 2020)

L’uscita di un disco dei Calibro 35 è sempre un evento speciale e particolare, capace di farci riassaporare sfumature musicali troppo spesso dimenticate ma ricche di umanità, forza ed energia. Momentum, il loro nuovo album pubblicato per Record Kicks, conferma pienamente tutto ciò, mostrando ancora una volta sfaccettature nuove dei cinque ninja della musica italiana, mai banali e amanti delle sperimentazioni. 

La band, costituita da quattro tra i più talentuosi musicisti italiani, Enrico Gabrielli, Fabio Rondanini, Massimo Martellotta e Luca Cavina, è completata dal produttore pluripremiato Tommaso Colliva, quinto membro a tutti gli effetti per il fondamentale apporto sonoro da lui conferito. Negli anni si sono contraddistinti per aver saputo ricreare agilmente e in modo estremamente attuale un sound tipico dei film polizieschi italiani anni ’70, ricchi di inseguimenti e sparatorie. Da un paio di lavori, però, questo format è stato progressivamente lasciato sullo sfondo per cercare nuove vie, nuove strade inesplorate, e anche nel caso di Momentum è stato così, proponendo un immaginario inedito, figlio di nuovi ascolti.

Le dieci tracce del disco godono di estrema compattezza sonora, con una coerenza concettuale in grado di legarle tutte. L’impronta funk-jazz dei cinque rimane inalterata, ma è possibile percepire influssi post-rock ed elettronici di notevole fattura. Come sempre, la produzione di Colliva è estremamente raffinata e bilanciata, il mix è incredibilmente preciso e dettagliato, sembra quasi di osservare una goccia di sangue al microscopio. Le cose vengono messe in chiaro già nel brano d’apertura, Glory – Fake – Nation, dove ci accoglie il drumming potente e inconfondibile di Rondanini su cui si innesta un loop di voce campionata unito a stratificazioni di synth, chitarre e bassi, creando un’atmosfera rarefatta e spaziale. Il secondo pezzo della tracklist è anche il primo singolo estratto dall’opera, Stan Lee, e vede la collaborazione del rapper americano Illa J, esperimento tutto nuovo per la band, che raramente in passato aveva collaborato con cantanti all’interno delle loro composizioni. Il risultato è decisamente ben riuscito, regalando coloriture hip-hop e soul perfette per il tessuto sonoro dei Calibro. Questi ultimi sono molto bravi ad adattarsi ai vari contesti per via della carriera parallela di sessionmen, e qui non fanno eccezione, mettendo a punto un beatmaking alla DJ Shadow. 

Un altro brano sulla scia di questo mood è Black Moon, dove la voce di MEI si amalgama ottimamente all’insieme, dando la prova che il gruppo sa guardare oltre i propri orizzonti con credibilità, senza snaturarsi. La tracklist scorre che è un piacere, con variazioni timbriche sorprendenti e calzanti, tra influenze derivanti da Tortoise, The Comet is Coming, Mogwai e Cinematic Orchestra, il tutto frullato con reminescenze morriconiane e fusion. 

Insomma, Momentum è l’ennesima conferma che i Calibro 35 sono molto più di una band tributo agli anni ’70, riuscendo ad alzare l’asticella sempre più in alto e portando il proprio pubblico in mondi inaspettati. Questo lavoro ci ricorda che la musica ben suonata e ben prodotta trasmette intense emozioni e bisogna essere eternamente grati a questi ragazzi, che, pur essendo stati campionati da gente del calibro di Jay-Z, Dr. Dre e Damon Albarn, negli anni non hanno cambiato approccio, continuando a divertirsi e a suonare come se fosse sempre la prima volta in una minuscola sala prove.

 

Calibro 35

Momentum

Record Kicks

 

Filippo Duò

Anti-Flag “20/20 Vision” (Spinefarm Records, 2020)

Se molte band perdono in interesse per un’assenza di tematiche e contenuti, gli Anti-Flag hanno il problema opposto: gli scenari internazionali che soffiano venti di guerra imminenti, sono forse l’ennesima rampa di lancio per i ragazzi di Pittsburgh.

20/20 Vision è il nuovo album di una lunga serie, ma anche l’ennesimo guanto di sfida che i paladini della musica politicizzata internazionale della nostra generazione lanciano al “palazzo”.

Il rilancio del punk rock idealista passa necessariamente dalla Pennsylvania. 

Gli Anti-Flag evolvono senza perdere mordente, si districano in un turbinio di sonorità all’apparenza discordanti tra loro, ma legate come un nodo stretto in gola da una lunga carriera, che ha il sapore di un percorso coerente e imprescindibile. 

Chi ha avuto la costanza di seguire la band fin dagli albori troverà e subirà particolari flashback riconducibili ad album datati, chi invece avrà il primo approccio alla band con questo album, non rimarrà deluso dalla pienezza degli spunti messi in tavola. 

La varietà, per l’appunto è la colonna portante di questo lavoro. 

Un mastering azzeccato e avvolgente, suoni corposi dove batteria, basso ed elettriche si tramutano in una singola bolla di adrenalina. Una mescolanza di intro e outro che fanno da filo conduttore, quasi a voler dare al tutto l’aria di un concept album.

Il marchio di fabbrica rimane immutato, viene solamente puntellato di sfumature che danno uno scatto di maturità e flessibilità. Lo si capisce sin da subito con Hate Conquers All.

Le liriche di Chris#2 restano inconfondibili, lo scream mai invasivo e il trasporto emozionale, degno di un live ben riuscito incarnano tutta la voglia e l’attitudine esplosiva di questo mattatore. 

Il “cantato” di Justin Sane invero sembra aver avuto una sensibile modifica, a volte poco riconoscibile rispetto alle sue trentennali performance, tipologia di canto anomala, abbandonando l’accento grezzo verso una più appoggiata denuncia melodica. Esula dal discorso il primo singolo Christian Nationalist, vero e proprio cavallo di battaglia in cui si ritrova il frontman di vecchia data.

Con Don’t Let the Bastards Get You Down salutiamo dal lunotto posteriore dell’auto The Clash, ma anche The Terror State del 2003 prodotto da Tom Morello dei Rage Against The Machine.

Con a Nation Sleep ti addormenti di colpo e ti svegli in un’appendice di Underground Network, tempi raddoppiati, tecnica e velocità a fondersi in puro hardcore melodico. 

Luci soffuse nella ballad filo radiofonica Un-American, brano degno di una nostrana Virgin Radio per intenderci, che spalanca le porte ad un finale trionfale supportato da trombe e fiati per i titoli di coda redatti da una nostalgica ed energica Resistance Frequencies.

L’innesco di qualche brano pop punk potrebbe far storcere il naso agli intramontabili nostalgici, ma la musica come la vita è fatta di lampadine che si accendono e questa volta gli Anti-Flag hanno addobbato un albero di Natale. L’irriverenza di You Make Me Sick  non ha bisogno di presentazioni, il titolo serve un assist automatico.

Emerge tutto il fuoco che ancora brucia dentro questi ragazzi del popolo, artisti che hanno fatto della musica un tramite per abbracciare gli ultimi. 

Non è scontato mantenersi nella giungla del sociale quando le sorti del mondo da tanto tempo hanno sempre gli stessi protagonisti ma con facce diverse. 

Gli idealisti che amano il punk rock però possono avere ancora qualcuno in cui credere, in cui appellarsi. 

Gli Anti-Flag incarnano ancora una scuola di etica e tecnica, sopratutto nel mondo del “tutto e subito” dando una lezione importante, quella delle priorità. 

A conti fatti la vita dell’uomo viene prima del successo, cosi come il messaggio di unione viene prima della musica stessa.

 

Anti-Flag

20/20 Vision

Spinefarm Records

 

Vasco Abbondanza

Elephant Brain “Niente di Speciale” (Libellula Music, 2020)

Dolore al microscopio

 

“Conta i lividi che servono per ritornare a scrivere”

È stata questa la frase con cui ho conosciuto gli Elephant Brain, per puro caso, con una canzone tra le tante consigliate dall’algoritmo di Spotify. È l’intro di Ci Ucciderà, brano pubblicato nell’estate del 2018 da questa rock band perugina e che dopo un anno e mezzo è rientrato a pieno titolo nel loro primo album Niente di Speciale. 

Mi aveva colpito parecchio, quella frase. Innanzitutto perché sottolinea quanto sia intimo il legame tra arte e dolore, ma soprattutto lascia intendere che anche attraverso qualcosa di negativo come il dolore può fiorire qualcosa di bello.

Forse è un concetto un po’ inflazionato, ma resta comunque un bel concetto…

Niente di Speciale raccoglie questo dolore, lo scompone pezzo per pezzo e lo passa impietosamente al microscopio, ma lo fa con una dichiarazione d’intenti ben precisa: la prima traccia, Quando Finirà, è un po’ un invito alla speranza, al lasciarsi il passato alle spalle per poter ricostruire da capo sulle macerie. 

C’è quindi la sofferenza in sé, ma non mancano tutti quei i metodi che tendiamo a usare come palliativi per negarla, dal fingere che vada tutto bene di Weekend alla voglia di fuggire davanti ai problemi di Scappare Sempre. 

Le nove tracce si susseguono con velocità, seguendo un ritmo incalzante, mentre la voce graffiante di Vincenzo Garofalo si sposa benissimo con un sound crudo ed esplosivo ma curato, a dimostrazione che dal loro primo, omonimo EP del 2015 c’è stata una maturazione stilistica non da poco. 

Il cerchio si chiude con la canzone che dà il nome al disco, Niente di Speciale, che è un po’ una presa di coscienza. È il momento in cui si smette di urlare e in qualche modo si cerca di fare pace con se stessi. Grande importanza è data alla parte strumentale, che va sfumando verso la fine, quasi a darci modo di riflettere su tutto quello che abbiamo appena ascoltato.

Niente di Speciale è un album onesto e che parla a tutti, senza distinzioni. 

È anche un album che deve essere ascoltato live il più possibile, gridato a squarciagola insieme a loro a mo’ di catarsi per renderci conto che sì, siamo solo umani e quindi “niente di speciale”, ma almeno non siamo da soli e ci sarà sempre qualcosa che varrà la pena salvare.  

 

Elephant Brain

Niente di Speciale

Libellula Music, 2020

 

Francesca Di Salvatore