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Tag: album

I Boschi Bruciano “Ci Pesava” (Bianca Dischi/Artist First, 2019)

Le paure di una generazione urlate al microfono

Ci Pesava: un titolo programmatico per dodici tracce che trasudano energia ed intensità.

Ci sono anima e cuore nel primo lavoro in studio della band alt-rock cuneese I Boschi Bruciano, uscito per Bianca Dischi/Artist First e destinato a seguire il solco già tracciato dai Fast Animals and Slow Kids oppure dai Ministri nella scena rock italiana.

Il perché del titolo ce lo spiega la stessa band su Instagram: tutte le canzoni parlano di cose che, in un modo o nell’altro, a loro pesavano. Da qui nasce l’esigenza di raccontarsi, finendo però, in qualche modo, a raccontare anche un’intera generazione disillusa e spaventata da un futuro sempre più incerto.  

Gli onori di casa fatti li hanno fatti i singoli Odio e Pretese, pubblicati tra il 2018 e il 2019 e che già ci avevano presentato il mood intenso del disco. Tuttavia, Ci Pesava esordisce con Grigio, traccia piuttosto malinconica dove gli strumenti entrano in scena uno alla volta e poi si fondono. Una sola frase viene ripetuta come un mantra e ci interroga: cosa resterà di noi, ora che il passato già sta sbiadendo? 

Si continua poi con altri pezzi dove la perdita di illusioni, le ansie per l’inizio della vita adulta e l’incertezza fanno quasi da padrone e tutte queste sensazioni vengono perfettamente sintetizzate nel ritornello di Mi Spegnerò, che recita “vivere è un po’ come lavorare di domenica”. Non c’è solo pessimismo, ma anche tanta voglia di reagire, come quella che viene urlata verso la fine di Jet Lag oppure in Università, perché in fin dei conti, questo vivere disincantati, non si riesce proprio ad accettarlo del tutto.

Ci Pesava quindi presenta agli ascoltatori due anime contrastanti. Una è governata dalla disillusione, condita con un po’ di rimpianto, ed è lei che serve ad imparare a perdere e smettere di credere alle favole – come la vita adulta ci richiederebbe. L’altra, invece, risulta più decisa e in grado prendere posizione, perché, visto che questa vita non è poi così difficile, tanto vale affrontarla di petto.

Infine, dopo quarantaquattro minuti, I Boschi Bruciano fanno un bilancio delle loro esperienze (ma sono davvero così diverse dalle nostre?) con L’ultimo Istante, canzone meno rock in senso stretto ma sicuramente una degna chiusura per un disco che scava a fondo e mette a nudo. 

Le voci dominano la musica per lasciare un ultimo messaggio.

Affrontare tutto, sempre, fino all’ultimo istante.

 

I Boschi Bruciano

Ci Pesava

Bianca Dischi/Artist First, 2019

 

Francesca Di Salvatore

[Anteprima] I Boschi Bruciano – Ci Pesava

In anteprima esclusiva su VEZ Magazine, ecco a voi Ci Pesava, l’album di debutto de I Boschi Bruciano.

La band alt-rock è pronta a presentare il loro primo album inserendosi perfettamente come una delle realtà più interessanti della scena cantautorale rock italiana, capeggiata da Ministri e Fast Animals and Slow Kids.

 

CI PESAVA

L’ALBUM DI DEBUTTO IN USCITA IL 04 OTTOBRE per BIANCA DISCHI/ARTIST FIRST

 

«La scena rock italiana indipendente sarà pure minoritaria rispetto ai fasti dell’hip hop e del cantautorato indie ma è viva e vegeta. Lo testimoniano band come I Boschi Bruciano» – Billboard

 

 

https://soundcloud.com/bianca-dischi/sets/i-boschi-bruciano-ci-pesera/s-JqDwl


Tracklist: 1. Grigio 2. Pretese 3. Mi Spegnerò 4. Jet Lag 5. Scegliere Un’Indole 6. Interlude 7. Odio 8. Polvere 9. Non Lo So 10. La prossima Volta 11. Università 12. L’ultimo Istante

Ci sono le chitarre, c’è l’energia del punk e la potenza del rock, tutto insieme. Un rock solido, ruvido ma al contempo accessibile. Dodici tracce potenti, di impatto, un suono pieno che ti viene subito addosso.

“Ci Pesava” è così, un concentrato di emozioni che vi farà capire chi sono I Boschi Bruciano. Un disco intenso, carico e diretto che lascia intravedere un live di grande impatto. “Questo disco ce lo portiamo dentro da molto tempo. Sentivamo il bisogno di dare forma concreta alle emozioni e ai frastuoni che uscivano dalle lunghe giornate in sala prove e, in poco più di un anno, abbiamo terminato un mosaico a otto mani che ci porteremo dentro tutta la vita. Questo non è un album semplice e non è stato di certo semplice per noi arrivare a stringerlo tra le mani. Abbiamo dato il massimo ed ora non ci resta che scagliarlo lontano, come un sasso nell’acqua, sperando che rimbalzi.” – I Boschi Bruciano

 

I Boschi Bruciano sono: Pietro Brero – voce e chitarra | Giulio Morra – chitarra | Maurizio Audisio – basso, piano e synth | Vittorio Brero – batteria

 

Credits album:

AUTORI: I Boschi Bruciano

REGISTRATO, MIXATO, PRODOTTO da Paolo Mulas presso V-Studio di Cagliari

MASTERING di Andrea Suriani

CREDITS FOTO: Francesca Sara Cauli

 

Of Mice & Men “EARTHANDSKY” (Rise Records, 2019)

(TIME FOR HEADBANGING)

 

Spesso i progetti, anche i più buoni, che fanno i topi e fanno gli uomini, finiscono in niente e in luogo della gioia restano soltanto dolori e stenti.”

Così recita una poesia di Robert Burns, da cui John Steinbeck ha preso spunto per il titolo del suo romanzo del 1937 Uomini e Topi, per l’appunto.

Il libro è stato d’ispirazione per il nome della band americana metalcore Of Mice & Men che ci regala EARTHANDSKY, il loro nuovo LP preannunciato dai singoli How to survive e Mushroom Cloud. 

Un album pieno di metallo, rabbia e resilienza, termine ormai di comune uso dalle teenager sui social, ma è in questo album che riscopriamo il significato più profondo dalla parola, ossia la capacità dell’essere umano di affrontare e superare eventi traumatici, assorbire un urto senza rompersi.

Il gruppo è fortemente legato al metal e all’hardcore punk con tendenze nu metal, ma nel tempo, e con i vari cambiamenti nella formazione del gruppo (per colpa di patologia cardiaca del cantante Austin Carlile, nonché fondatore del gruppo) hanno aggiunto sonorità alternative al metal, tornando poi alle origini nel momento in cui il bassista Aaron Pauley ha preso le redini  e il controllo del microfono.

Come un Cavaliere dell’Apocalisse ha ricondotto il gruppo a sonorità più dure, tipicamente metal, batterie ossessionanti e incalzanti, riff di chitarra complessi. 

Nei brani si mescola il canto death brutale e raschiato, con una voce più melodica, quasi a delineare una personalità borderline. La collera derivante dall’essere incompresi, oltraggiati e derisi si scontra con un’anima delicata e sensibile.

Questo concetto risulta limpido nel singolo How to survive, nel quale il cantante vuole darci una lezione di vita, su come sopravvivere alla sensazione di sentirci rifiutati, denigrati, un bersaglio.

Un moderno Frankenstein, scappato dall’ostilità dei concittadini, intrappolato nella torre. 

Le torce brillano nella notte, il fragore dell’odio sempre più vicino.

Ma stavolta il mostro non scappa. Non questa volta.

Scende tra la folla e si ribella. 

Vuole sopravvivere, non perire tra le fiamme.

Rifiutandosi di essere uno dei caduti, la liberazione del mostro e la rivincita sull’astio della società.

Il vero senso del metalcore è descritto in Mushroom Cloud, che rappresenta la discordanza con il modo di pensare della società che ci circonda, intrappolati in un mondo che non è come vorremmo, che giudica prima ancora di conoscere. Le catene ai polsi come schiavi deportati. Sbraitare il disappunto, la malinconia e la solitudine, strillare con tutta la voce e non percepire risposta. 

“Three, two, one BOOM: countdown to insanity. Three, two, one BOOM: ignite the fuse and immolate”, la nostra anima e psiche che deflagrano come bombe atomiche sotto il peso dell’incuria, sacrificarsi e scoppiare in faccia a chi non capisce il nostro disagio.

Questo album è un calcio sui denti per tutti quelli che non considerano il growl e lo scream come canto. Per tutti quelli che considerano l’alternative metal come sinonimo di satanismo e aggressività.

Questo album ha l’intento di alzare il velo sottile dell’ira funesta, facendo intravedere la grande emotività insita nel metal. Gridare per farsi capire, nel caotico mondo in cui viviamo. Sgolarsi, per esorcizzare i demoni che popolano la nostra mente.

 

Of Mice & Men

EARTHANDSKY

Rise Records, 2019

 

Marta Annesi

 

Tobia Lamare “Songs for the Present Time” (Lobello Records, 2019)

(Ricetta italo-americana per un ottimo indie rock)

 

Prendiamo il sound di Bob Dylan, aggiungiamo un poco dei The Cure e Mudhoney q.b. e una spolverata di musica alternativa salentina.

Incorporiamo nell’impasto amore, vita, morte.

Uniamo tutti gli ingredienti.

Il risultato finale?

Tobia Lamare (pseudonimo di Stefano Todisco), da circa vent’anni musicista e compositore per teatro, documentari, film, scelto come gruppo di spalla per artisti quali Kings of Convenience e Iggy Pop & The Stooges. Ha esordito con gli Psycho Sun, ma dal 2008 ha dato una svolta alla sua carriera come solista e cantautore.

Girando per il mondo è stato plagiato da diversi sound, culture lontane da casa sua, dal suo mare. Si è imbattuto in realtà differenti, a contatto stretto con universi musicali vari, ma così catarticamente simili, suonando per festival importanti come lo Sziget (Budapest), ma anche per feste di paese, club, biblioteche.

Il profondo contatto col mare lo ha ritrovato poi con l’oceano, come a dimostrazione che per quanto possa essere lontano da casa sua, l’acqua è l’unico elemento di congiunzione con le sue radici, con la sua terra natia.

Dopo i successi nel 2010 di The Party, nel 2012 con Are you ready for the Freaks e nel 2017 con Summer Melodies, finalmente esce Songs for the Present Time, album di nove canzoni scritte interamente da Tobia durante questi ultimi anni di tour in giro per il globo terracqueo.

Nonostante disco sia stato prodotto e arrangiato interamente nella Masseria Lobello, vicino Lecce, le varie influenze Blues and Soul tipiche della west coast americana sono preponderanti in tutti i brani, anche grazie all’uso di strumenti classici per il country come l’armonica a bocca. 

Un album nato in movimento ma completato in un posto magico, solitario e tranquillo, registrato tra il maggio 2018 e il maggio 2019, a cui hanno partecipato nomi importanti come Andrea Fazzi (Sud Sound System, La Municipàl, Major Lazer) mentre le batterie sono in collaborazione con Marco Lovato (Caparezza).

Il primo singolo uscito è Endless, che testimonia l’amore fraterno, il forte legame che unisce due consanguinei soprattutto nell’affrontare momenti drammatici come la malattia o la morte. Testimonianza della continuità dell’amore oltre la morte, di come sia impossibile lasciar andare qualcuno a cui teniamo. Rimane dentro di noi, conviviamo e ci abituiamo a questa sensazione di mancanza.

Il brano è anche colonna sonora del corto Ius Maris, vincitore del premio Migrarti 2018 e presentato durante l’ultimo Festival del Cinema di Venezia.

Il disco è un agglomerato di sonorità e di tematiche, la maggior parte dei brani sono nati in viaggio (Dada, Lost without you, Loves means trouble), mentre altri sono frutto di prove acustiche sulla spiaggia (Vampire e Higher). 

In The Big Snack Tobia tratta della malinconia del Sud, che nasce nel momento in cui la lontananza dai sapori e dagli odori della propria terra risulta quasi insopportabile.

My Flavia racconta la vita che nasce – una canzone di benvenuto alla nuova arrivata in famiglia – mentre in Endless si celebra morte; in questi brani è da notare che tutti gli strumenti sono suonati da Tobia stesso.

Dopo la lettura dei diari di bordo di due eroine che nel 1935 partirono da Londra per arrivare in Sud Africa a bordo di motociclette, partorisce This Road, onorando la memoria e il coraggio di queste donne, che, in tempi impossibili, hanno avuto la prepotenza di imporre il loro volere in una società fortemente maschilista.

Un album emotivo, profondo, artistico. Il calore della campagna, il profumo della Puglia, il sapore metallico dello smog nelle grandi città, la tranquillità della periferia. L’angoscia insostenibile e conseguentemente l’elaborazione del lutto, la gioia smisurata per una vita che nasce, questo è il contenuto del disco, e non solo. Un pellegrinaggio in giro per il mondo e nel cuore dello stesso. Differenti culture si approcciano, si fondono e confondono grazie alla musica e ai sentimenti.

Particolarità ultima di questo album risiede nella copertina. Il cantante ha scelto per ogni brano una foto anni ‘30 e del dopoguerra trovate nei mercatini, che presentano scene di vita quotidiane. Tutto molto indie.

 

Tobia Lamare

Songs for the Present Time

Lobello Records, 2019

 

Marta Annesi

 

Pixies “Beneath the Eyrie” (BMG/Infectious Music, 2019)

Il nano sulle spalle di un Gigantic (no, dai, si può?)

 

Immaginate di partecipare a un’entusiasmante raduno del liceo. Trent’anni di distanza dalla maturità, da quelle pance piatte, da quegli sguardi disincantati sulla realtà, sul futuro. Dopo aver rapidamente constatato che le carriere dei vostri ex compagni sono decollate, esattamente come i loro capelli, vi rendete conto che siete detentori di una merce rara, preziosa, roba che non si compra perché viene da lontano e deve maturare, per valere. Portate con orgoglio coerenza e uno sguardo sul mondo rimasto intatto, un vocabolario aggiornato ma fedele a un’idea, un messaggio che ha attraversato anni, mode, stili e correnti e che adesso, più che mai, vanta una matura e dignitosissima indipendenza. Poco importa se avete appena parcheggiato un maggiolone semidiroccato, rigando il Mercedes del vostro ex compagno di banco, e se avete – inavvertitamente – agganciato col vostro orologio le extensions dell’ex miss liceo. Dio, siete i Pixies, cosa diavolo vi può scalfire?
L’integrità, però, costa. E i Pixies il conto lo hanno pagato molto presto, forse perché hanno preso un’onda prima di tanti altri gruppi, che hanno poi seguito la scia. Kurt Cobain rivelò di essere un fan e di ispirarsi a loro, Eddie Vedder li ha sempre indicati come esempio di libertà di espressione e, recentemente ha inserito Surfer Rosa nell’elenco dei dischi preferiti.
Per scrivere del nuovo disco dei Pixies ho fatto un festoso bagno in quel brodo primordiale che fu la scena indipendente americana di fine anni ottanta. Band seminali che meriterebbero un capitolo nella storia della musica: dai Dinosaur Jr. ai Fugazi fino ai Sonic Youth. Perché Beneath the Eyrie è un ritorno al passato, anzi, è un disco che riporta a un ambiente familiare. E’ come rientrare nella stanza della propria adolescenza, ma con qualche anno sulle spalle.
E allora largo a un backbeat fatto come si deve, largo alla libertà e alla fantasia, largo al gotico, come immaginario e al barocco, come stile. Registrato al Dreamland Studio, una ex chiesa, è stato definito dallo stesso Franck Black come il loro Blair Witch, un disco infestato di streghe, mostri, morte. Ma i temi stridono con le melodie, che ciondolano tra punkabillie, surf rock e proto-grunge. E’ come ritrovarsi a tagliare il prato di casa una domenica mattina di giugno. Ma in un film di Tim Burton. Come se a ballare con John Travolta in Pulp Fiction ci fosse la sposa cadavere. Ok, siamo a fuoco.
Del resto è dalla frizione che nasce parte della grandezza dei Pixies, da quel cantato a volte isterico che tira per i capelli le chitarre, da quei bassi subacquei che introducono chi ascolta in mondi inquietanti e pericolosi. Sono ritornelli e cori grandiosi, ma che raccontano weird things. Capita così che il primo singolo estratto, Graveyard Hill, attraverso streghe, morte e maledizioni ci riporti a casa Pixies, interno 22, soprattutto se la consideriamo un elemento di una combo, un dinamico duo, con la successiva Catfish Kate, un delirante racconto di una lotta mortale tra una tal Kate e un pescegatto, accompagnato da riff golosi, un basso narrante e rime baciate.
Il disco si dipana così tra storie cupi, gotiche, costruite su testi a volte ermetici, a volte surreali. Citazione per merito alla bassista Lenchantin, autrice della doppietta Long Rider e Los Surfer Muertos, pezzi dedicati a un’amica surfista morta in mare a Dana Point. Il surf e le sue chitarre sono prepotenti in questo lavoro, e se non sono protagoniste sono eco, come nella splendida St. Nazaire.
Impossibile sostenere che siano tornati i vecchi Pixies, sicuramente però Beneath the Eyrie è un ottimo album, che riporta indietro l’orologio a quel glorioso periodo che dal college rock ci portò all’esplosione del grunge. Non è Surfer Rosa e non è Doolittle, ma è una scusa perfetta per riappropriarsi di una fetta di storia della musica (e personale) lasciata in naftalina senza ragione. 

Diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane”, scriveva Giovanni di Salisbury.
Leggasi: la grandezza del passato ci sorregge e ci fa vedere più lontano, oltre ad elevarci. Questo disco poggia sulla storia dei Pixies per porsi (forse), più in alto di quanto potrebbe, ma sta lassù perché è coerente col passato, perché è un’ottima promessa per il futuro, perché è dannatamente ben suonato.

 

Pixies

Beneath the Eyrie

BMG/Infectious Music, 2019

 

Andrea Riscossa

 

Sleep On It “Pride & Disaster” (Rude Records, 2019)

(Per chi considera la musica come mezzo di evasione)

 

Ci sono giornate che iniziano male. La sveglia non suona, il caffè si brucia, il semaforo è sempre rosso e c’è un sacco di traffico.

In quei momenti, per alcune persone, basta mettere su un disco, e quel cielo che sembrava tetro si schiude a tantissime possibilità.

Ecco quello che gli Sleep on it (in italiano il significato può variare da “dormirci su” o “la notte porta consiglio” ma anche “sogni d’oro”) band di Chicago, formatasi nel 2012 iniziando da uno scantinato, cercano di comunicare con la loro ultima fatica Pride & Disaster.

Questo terzo album del quartetto americano (Lost along the way nel 2016 e Overexposed nel 2017) è circondato da un alone di positività intriso di malinconia.

Stile pop punk un po’ scontato, motivetti orecchiabili e riff di chitarra leggermente banali (ma comunque godibili) puntano più sul contenuto delle tracce. I membri del gruppo hanno sofferto di ansia e depressione e questo li ha spinti a cercare una via di scampo, a tentare di trovare il sole anche durante le giornate di pioggia.  

Hanno deciso di creare musica per chi sta attraversando un periodo spiacevole, canzoni portatrici di gioia così da generare un’onda di felicità per spingere l’ascoltatore a migliorare se stesso, apprezzando quello che di buono la vita offre, senza soffermarsi troppo sul lato negativo. Si autoproclamano come il tuo migliore amico, quello che prodiga consigli e pacche sulle spalle.

Chiaro esempio è Under the Moment, spudorata richiesta di attenzione e aiuto, con cui puntano su chi ha portato il pesante fardello della depressione sulle proprie spalle, su chi si è sentito trascurato o rifiutato. “Take my hand and pull me again” è un grido disperato di qualcuno che è sprofondato nel pozzo e necessita una corda, una mano amica per risalire le lisce e umide pareti di pietra.

Il primo singolo uscito, After Tonight, rappresenta un amore e la capacità di agire senza costrizioni o impedimenti esterni, cancellando il timore di essere respinti o di fallire: la libertà di esprimere ciò che abbiamo dentro, arrivando ad accettare quel che siamo senza vergogna alcuna.

Pride & Disaster è un album senza pretese musicali, da ascoltare in auto a tutto volume durante una giornata storta. Ci suggerisce che è inutile fuggire dai problemi della vita, o “dormirci su”: quelli torneranno più forti e prepotenti di prima. 

Attraverso la musica possiamo canalizzare queste emozioni e tirarne fuori sentimenti più costruttivi, con lo scopo di crescere e migliorarci.

 

Sleep On It

Pride & Disaster

Rude Records, 2019

 

Marta Annesi

 

Senses Fail “From the Depths of Dreams” (Pure Noise Records, 2019)

Crescita personale e artistica o versione politically correct?

 

Si può scappare da ciò che siamo stati?

Possiamo, noi umani, cambiare il passato?

Per i Senses Fail, gruppo contaminato dal punk e post hardcore formato nel 2002 in New Jersey, la risposta è SI.

Il nome della band fa riferimento alla credenza Buddhista che essere vivi sia l’inferno, e l’unica via per raggiungere il Nirvana (quindi vedere Dio) sia non avere alcun attaccamento emotivo agli averi della vita terrena: per raggiungere la Pace si devono rimuovere del tutto i sensi.

Durante la loro carriera musicale hanno cercato di unire le sonorità punk\emo\post hardcore con la poesia, la letteratura e la filosofia per creare un loro personale genere.

Durante gli anni 2000 ebbero molto successo, pubblicando circa sette album e adesso, a distanza di diciassette anni, hanno deciso di ripubblicare il loro primo EP From the depths of dreams, per Pure Noise Records.

La scelta appartiene al cantante, il quale ha pubblicamente ammesso su Twitter la sua intenzione di cambiare alcuni termini denigratori contenuti nei loro testi durante la registrazione della nuova versione dell’album.

L’adolescenza, la ribellione e il disagio tipico di questa fase evolutiva è palese nei testi e nelle sonorità dell’album, il quale contiene anche pezzi screamo, che conducono l’ascoltatore su un piano di malessere generalizzato, caotico.

Questo album è sinonimo di crescita personale e stilistica, una rivisitazione espressiva sia a livello linguistico – elimina, per esempio, whore nel pezzo Hand Guns e bitch nel coro di Bastard Son –, che a livello musicale, ove si denota soprattutto una maturazione del cantante stesso, vocalizzi più puliti, potenti, senza risultare disturbanti.

Il frontman ha spiegato sempre su Twitter che usare quei termini spregiativi rappresentava una fase passeggera della sua vita, era un teenager furioso ed esprimeva in quel modo il suo disappunto, ma non è più sua intenzione insultare nessuno o permettere che qualcuno si senta denigrato dai suoi testi.

Le sonorità abbandonano le vibrazioni punk e si lasciano un po’ cadere nel pop, nel melodico, per testimoniare la loro uscita dall’era dell’odio, per entrare a gamba tesa nell’era del conformismo sociale.

Tuttavia, alcuni fan della band non hanno reagito bene alla notizia, anzi, l’hanno accolta come un tradimento al loro stile e a tutto quello che hanno rappresentato per la loro adolescenza: li hanno accusati di essere diventati politically correct, e di aver così alterato profondamente la loro natura originaria.

E forse hanno ragione.

Per citare una delle più intriganti compositrici e cantanti islandesi, BjörkLa musica deve essere libertà, non schiavitù”.

Rivisitare un album, nonostante sia piacevole all’ascolto, anche se punta più sul pop che sull’alternative, e cambiare dei termini per non risultare offensivi sembra una scelta che va sul politicamente corretto, atteggiamento in forte contrasto con tutto ciò che è punk.

 

Senses Fail

From the Depths of Dreams

Pure Noise Records, 2019

 

Marta Annesi

 

Grayscale “Nella Vita” (Fearless Records, 2019)

Dipinto emotivo in scala di grigi

 

L’estate sta volgendo al termine, portandosi via la tipica voglia di far baldoria, inneggiando ad una vita gioiosa e senza pensieri.
Le giornate si accorciano, l’inverno è alle porte e con esso il malessere tipico del ritorno alla vita quotidiana: clima perfetto per l’uscita del nuovo disco dei Grayscale, che tornano con Nella Vita, titolo tutto italiano per questo quintetto pop punk americano.

Musicalmente nati nel 2011, a distanza di quattro anni esce il loro primo EP, Change, ma l’anno del debutto ufficiale è senza dubbio il 2017, con l’album Adornement per Fearless Recording.

I Grayscale sono una miscela di emozione pura e grezza, con elementi del rock alternativo, radici punk ben assestate, e una combinazione di hip hop moderno.

Attraverso la musica ci restituiscono un’immagine emotiva in scala di grigi, iniziando dal nero della depressione, passando per il grigio della consapevolezza e arrivando al bianco candido della redenzione di sé stessi.

I Grayscale sono reali come le nubi, come la pioggia.
Sono reali come la sofferenza, come la perdita.
Parlano di morte, di amore tossico, di depressione, di droga e di sesso.

Con Nella Vita realizzano un album molto pop rock punk, con il quale riescono a comunicare dolore e disperazione con un ritmo orecchiabile e ritornelli indie. Canticchiando queste canzoni si finisce con l’empatizzare con le tematiche tragiche descritte nei testi.

La morte conclamata, in In Violet, primo singolo che accompagna l’uscita del disco, è un brano molto personale, come ammette il frontman del gruppo, il quale, durante un periodo tormentato, ha pensato al suo funerale dove avrebbe voluto che tutti i presenti fossero vestiti di viola, cantando e sorridendo alla vita. Fa riflettere su come noi occidentali consideriamo la morte come fine del percorso, un evento negativo. Con questo pezzo invece, i Grayscale ci propongono una nuova chiave di lettura, un’interpretazione della morte non come l’epilogo, ma piuttosto come un’esperienza di rinascita e un presupposto per gioire della vita stessa che è stata.

L’insieme di circostanze complesse che ci propina la vita prosegue in Painkiller Weather, dove si affronta una complicata storia di amore e droga, arduo conflitto amoroso tra sentimento e dipendenza. Questo pezzo descrive quanto sia penoso e complicato essere impotente di fronte alla distruzione pacata della propria amata e quanto questo conduca alla disintegrazione di sé stessi.

Temptations won, yeah, they always won” – neanche l’amore può nulla davanti all’assuefazione dal eroina. 

La tematica dell’amore malato è toccata anche in Baby Blue, dove viene decantato un sentimento depredato dall’oscurità intensa della malinconia che spazza via tutte le emozioni. Tutto intorno è annebbiato da un disagio talmente radicato che rende vuota e insignificante ogni sensazione.

I loro riff pop punk descrivono in modo schietto la depressione e la solitudine in Old friends, una ritmata ballata che colpisce nel profondo. Tutti noi ci siamo sentiti sbagliati, privi di importanza e senza futuro almeno una volta: indossare una maschera sorridente quando l’anima invece sta cadendo lentamente a pezzi, quando vorresti solo bussare alla porta di qualcuno sotto la pioggia per parlare, quando l’unico modo che hai per uscirne è confidarti e invece rimani solo, seduto sul tuo letto, colmo di odio verso te stesso.

Nella Vita è un viaggio catartico, una collezione di brani che rappresentano una cronaca di vita, di esperienze dei componenti del quintetto, con cui ci accompagnano nella scoperta della rinascita. Ascoltare questo album è esplorare la caverna umida e cupa che è in noi, il posto più nascosto che celiamo al mondo, entrare nelle viscere di noi stessi e riuscire ad uscirne più forti di prima.

Come scrive Chuck Palahniuk nel suo romanzo Fight ClubÈ solo dopo che hai perso tutto che sei libero di fare qualsiasi cosa”: solo arrivando a toccare il fondo possiamo darci la spinta per risalire, solo entrando a contatto con la solitudine e la disperazione possiamo tornare a risplendere.

 

Grayscale

Nella Vita

Fearless Records, 2019

 

Marta Annesi

Tool “Fear Inoculum” (RCA Records, 2019)

Anni novanta, Torino

Una Opel Corsa rossa percorre strade lastricate di pavé, umido di nebbia. Si è appena concluso un dialogo quasi ritualizzato tra due postadolescenti, universitari per vocazione, amici, e molto, anche se di gusti musicali assai lontani. Uno, il sottoscritto, ha abbracciato il grunge, ha già pianto i suoi primi martiri e ha definito i confini delle sue esplorazioni artistiche. L’altro, chiamiamolo Elmer per rispetto della privacy, è il Babbo Natale del mio subconscio musicale. Lui esplora, insaziabile golosone culturale, e poi pontifica. Ah, quanto pontificava. C’era terreno comune, anche perché i generi, allora, si incrociavano, si imbastardivano, si mescolavano in modo programmatico. Erano gli anni in cui in quella Opel si passava dai Primus a Ummagumma, dai Fishbone a Vitalogy. E poi Elmer si bloccava quando arrivavano loro. E si blocca ancora adesso, come i cani di Up davanti a uno scoiattolo, quando qualcuno cita i Tool. Il suo sguardosi perde all’orizzonte, la bocca pende di lato, a trattenere un ricordo appeso all’acquolina. Il suo neurone preposto all’estasi musicale è entrato in forte sintonia con quello dedicato alla goduria culturale. Si, perché Elmer è affascinato dalla cultura, quella alta, quella che segna un solco tra chi la comprende e chi no. Quella che anche Maynard James Keenan, cantante dei Tool, usa come uno scudo e come uno strumento, e che, inevitabilmente, sottintende un discreto livello di misantropia. Elmer vede nei Tool non un poeta-vate, vede l’incarnazione, o meglio l’unione, un po’ pornografica e un po’ magniloquente, tra una musica potente, violenta, stridente e testi e citazioni alte, a volte altissime.
Da Jung a Fibonacci, i substrati culturali nei loro testi sono tanti quanti i cambi di ritmo. La ricchezza di riferimenti, unita alla sovrabbondanza musicale e alla continua ibridazione di generi e stili, sono i tratti che definiscono la loro essenza.

Per questo l’acquolina. Per questo Elmer si bloccava.
I fan dei Tool sono un esercito, per numero e compattezza. Sono devoti ai mille echi e alle reminiscenze generate dalle cattedrali sonore dai quattro californiani.
E hanno atteso tredici anni.

Fear Inoculum è il quinto lavoro in studio, il quinto in quasi trent’anni di carriera e arriva dopo un’era geologica, se pensiamo in termini musicali e di mercato. L’hype generato da quello che, probabilmente, sarà un successo mondiale rischia di inquinare un giudizio sereno e oggettivo su questo lavoro.
Non si critica la parusia, la si ammira in estasi silenziosa.
Magari con le cuffie.

Premessa: le tracce sono sette. Tutte superano abbondantemente i dieci minuti, tranne Chocolate Chip Trip, delirio strumentale. Siamo quindi davanti a un’opera complessa, da comprendere col tempo, da gustare con la dovuta e rispettosa attenzione.

L’album inizia con la title track, ed è subito distillato di Tool, nel coro:

Exhale, expel
Recast my tale
Weave my allegorical elegy

L’elegia greca prevedeva che gli spettatori fossero esortati dall’io narrante a immedesimarsi. E’ una overture in cui si cita la mitosi. È il manifesto di un ritorno, sono le chiavi per decifrare quanto accadrà successivamente. Ma è anche un rassicurante primo capitolo di una saga che rimane coerente con il proprio passato.
Pneuma è la seconda traccia e nuovamente siamo davanti a richiami arcaici e alti. Il soffio vitale, profetico nella tradizione ebraica, è qui usato per destarci, per svegliarci dal sonno della mente. Magari durato tredici anni. Il pezzo è lento, trascinato, quasi recitato, sembra accompagnare il lento incedere del Maynard-vate nella caverna di platonica memoria, per liberarci dal mondo delle ombre e rivelarci il Vero.
La triade dei tre pezzi successivi (sia chiaro, mia personale interpretazione), è il fallimento dell’invocazione precedente, una lenta presa di coscienza dell’impossibilità di vittoria per il guerriero/uomo. Siamo dalle parti dello stoicismo, in Invincible, terzo brano. Prosegue il tema (anche musicale, i due pezzi sono quasi gemelli) in Descendingma la consapevolezza della nostra debolezza è ormai dato di fatto, si prega:

Mitigate our ruin
Call us all to arms and order

Ma arriva la follia di Culling Voices, in cui noi stessi siamo gli artefici dell’inganno in cui viviamo. Follia che ci porterà alla consapevolezza del trucco, abile e mirabile, autoindotto e autocastrante. È 7empest, ultimo pezzo, che ci lascia con la promessa che la tempesta arriverà, sia essa ekpýrosis stoica, fatta di fuoco e rigenerazione, sia essa apocalisse e fine del tempo.
Non c’è messaggio salvifico, c’è una traccia iniziale che è labile e serpeggia tra richiami e labirinti caleidoscopici.
È la meraviglia di trovarsi di fronte a un testo, meglio un ipertesto, profondo e dalle molteplici letture. E non solo. I Tool suonano immagini, cantano universi paralleli, montano musica. Sono dissonanti armonie, sono ordine dalla frizione. È un’opera enciclopedica, analitica, che parte da una costruzione estremamente razionale e iniziatica per arrivare a sentimenti ombelicali. Come un caro e vecchio film di Kubrick.
Lasciate che i Tool vi portino via e vi elevino, ne vale la pena. Altrimenti potreste aspettare altri tredici anni.

 

Tool

Fear Inoculum

RCA Records, 2019

 

Andrea Riscossa

Sum 41 “Order In Decline” (Hopeless Records, 2019)

Order In Decline é il nuovo LP dei canadesi Sum 41.

L’album, il nono dal 1996, rappresenta un punto di svolta rispetto alla loro produzione precedente: dimenticate le musicalità di Into Deep e Fat Lips, dimenticate la band punk-rock che scimmiottava i colleghi musicisti. I Sum sono diventati grandi e Order In Decline ne è la prova lampante.

Le avvisaglie di un cambiamento erano già arrivate nel 2016 con 13, ma oggi la trasformazione è arrivata a compimento. Un disco più riflessivo in cui i toni punk si sposano e si intervallano a sonorità più pesanti, serie e cupe.

Con questo album i Sum prendono spunto dai cambiamenti che stanno succedendo nel mondo, dalle teorie del complotto e ci regalano 10 brani che sono in grado di prenderti e rapirti fin dal primo ascolto. Melodie, riff e ritornelli che ti rimangono in testa. Fin da subito.

Immancabile la ballata Never There, una lettera a cuore aperto dedicata ad un padre assente… Un brano orchestrale, che ricorda un po’ Pieces, ma che ti fa venire i brividi.

Non mancano i brani movimentati: Out for Blood, il singolo che ha anticipato l’uscita del disco, ci fa venire in mente i Sum di una volta, un brano che é stato come un ruggito per annunciare al mondo che stavano per tornare.

Nonostante vi sia una canzone dedicata a Donald Trump, 45 (a matter of time), non si tratta di un album politico ma sicuramente é una riflessione generale sul mondo.

Un album maturo in cui si mescolano ed emergono diverse influenze musicali dai Muse ai Deftones, in questi anni i Sum hanno ascoltato e rimescolato riuscendo a regalarci un album maturo e non scontato.

Dopotutto anche loro, come noi, sono diventati grandi.

 

Sum 41

Order In Decline

Hopeless Records, 2019

 

Laura Losi

Allusinlove “It’s Okay To Talk” (Good Soldier Songs/AWAL, 2019)

Rock is not dead: a rianimare la scena rock mondiale ci pensano gli Allusinlove, quattro ragazzi inglesi, direttamente da Castleford, con assoli micidiali, spiccate doti vocali e batteria martellante.

Una vita da vere rockstars, la loro. Giovani difficili, amanti delle droghe e della vita portata all’eccesso che li ha proiettati in un percorso di introspezione e di crescita personale, il cui risultato è un cambio nel nome della band e un utilizzo diverso della loro musica come mezzo di comunicazione per temi più profondi, con un sound totalmente rock’n’roll.

Gli Allusinlove (già conosciuti come Allusindrugs) debuttano con il loro primo album It’s ok to talkuscito il 7 giugno e non sono più una band adolescenziale, ma un fenomeno rock.

Questo esordio è totalmente autobiografico: è palese il graffiante dolore di chi, in quelle storie narrate nei testi delle loro canzoni, c’è passato realmente ed è riuscito a rinascere dalle proprie ceneri come delle bellissime fenici inglesi.

È un viaggio attraverso le loro esperienze negative, per condividerle con l’ascoltatore, essere d’aiuto a chi si sente solo e dimenticato.

Il primo estratto All Good Peopleè basato sulla positività, sull’amore verso il proprio corpo, sul vivere delle sensazioni che la corporeità altrui ci regala, prendere coscienza della fisicità. Il tutto in pieno stile rock’n’roll, vocalizzi puliti, batteria potente, assoli di chitarra da brividi e un ritornello spaccacranio.

Esteticamente possono sembrare classici bad boys, tatuati e capelloni, tipi tosti insomma, ma con un cuore di panna.

Espongono tutto il loro delicatissimo mondo interiore fatto di amore non ricambiato, dolore, incomprensione, rabbia, solitudine ed alienamento.

Musicalmente ricalcano le vecchie glorie del rock, come nel pezzo Full Circlein cui ritroviamo accenni ai Black Sabbath, un perfetto connubio di chitarre basse, circolari, e assoli magnetici, che tratta di abbandono e incomprensione.

Gli assoli compaiono in quasi tutti i brani, potentissimi e seducenti. Uno dei migliori, in All my love, brano che concretizza la loro voglia di scendere in profondità nei rapporti, e di non arrendersi mai.

Testimoniano la fragilità e la superficialità dei rapporti moderni, in Bad Girls, dove espongono un classico esempio dei problemi nei rapporti moderni, un tipo di amore malato (amami/feriscimi come se ne avessi bisogno), un attaccamento morboso a qualcuno nonostante il dolore che ci provoca. Corriamo per raggiungere il nostro amore, mentre lui si allontana portando via pezzi di noi.

Nell’album è presente anche un loro vecchio brano, uno dei primi, Sunset Yellow, ed è in questo pezzo che risulta palpabile il cambiamento della band a livello sia di testi che di esecuzione, lasciandosi alle spalle gli atteggiamenti fortemente collerici e rancorosi degli esordi.

Attraverso la loro musica curativa, in It’s ok to talk(brano che dà il nome all’album), incoraggiano l’ascoltare più delicato, più problematico, a parlare dei dilemmi della sua anima, senza paura di essere giudicato debole, perché quello che più spaventa è aprire i canali del cuore e sentirci rifiutati.

Questi quattro ragazzi di Leeds sono l’emblema di una gioventù all’insegna dell’esagerazione, rappresentano chiunque di noi abbia passato un’adolescenza sopra le righe, in puro stile rock punk, quando non si ha la consapevolezza che si matura poi col tempo. Quando abusare di ogni sostanza sembra l’unica soluzione, annebbiare la mente per far zittire i demoni che popolano la nostra testa, pur di non comunicare, di non confidarci, di non guardarci dentro.
Gli Allusinlove sono maturati, crescendo hanno capito che l’unica via di salvezza da noi stessi è manifestare la nostra interiorità, esprimere i nostri sentimenti per esorcizzare tutte le nostre paure. L’unica cura è l’amore e la comprensione, perché la rabbia non è costruttiva, ma distrugge tutto ciò che di più buono è stato creato.

Attraverso questo loro primo album mettono al servizio di chi è più sensibile, debole, la loro personalissima esperienza, usando il rock come terapia ai dolori dell’anima.

“The world’s gone mad and it’s getting divided, let’s stand for unity”
Solo restando uniti, facendo squadra e non lasciando i più deboli indietro possiamo andare avanti degnamente.

 

Allusinlove

It’s Okay To Talk

Good Soldier Songs/AWAL, 2019

 

Marta Annesi

Duff McKagan “Tenderness” (Universal Music Enterprises, 2019)

Nel 1956 esce nelle sale Sentieri Selvaggi di John Ford. Il film western classico muore nella scena finale, quando il buon John Wayne indugia davanti alla porta di casa e rimane sul portico, poi si gira e se ne va. Il futuro, per lui, sta nel passato, il mondo che sta in quella casa non gli appartiene. Il porch, il portico, è terra di nessuno, tra esterno e interno, tra passato e futuro, tra noto e ignoto.
Il portico è quello di Springsteen di Thunder Road, un luogo che anticipa la fuga di due ragazzi, alla ricerca della libertà e del futuro.
Di Porch cantano i Pearl Jam e nel loro portico suonano e accolgono gli amici The Black Keys in quel di Nashville.

La prima immagine che mi ha raggiunto ascoltando questo album è stata quella di un McKagan in canottiera, su un dondolo con una steel guitar sulle gambe, due birre fresche su un tavolino sotto un portico a Nashville, Tennessee.

E’ un disco strano, questo Tenderness, sembra un luogo da cui osservare la realtà, sembra un tempo in cui condividere un’idea o una visione sia un dovere, oltre che un’occasione. Perché è un atto sincero, di ricerca, di scoperta, di condivisione.

Quella di Duff McKagan è una delle più belle storie di redenzione che la storia del rock ci abbia regalato. E’ una storia fatta di città, di inferni personali, di resilienze, di cicatrici. 

Qualcosa di particolare, di magico, di unico la capitale dello stato di Washington deve pur averlo. McKagan nasce a Seattle da una famiglia irlandese, lui, ultimo di otto figli, iniziato alla musica dal fratello Bruce. Il punk, in ogni sua declinazione, è il primo genere con cui Duff si confronta, suonando di tutto, dalla batteria alla chitarra. Ma è l’humus della città, il fermento musicale che ribolle nei quartieri della musica che forma il giovane McKagan. Nel 1983 parte per Los Angeles, quattro anni dopo uscirà Appetite for Destruction, il resto è storia della musica. Fin qui, una parabola mirabolante, ma nel 1994 viene ricoverato d’urgenza a Seattle, con una pancreatite gravissima. I medici non gli danno molti mesi di vita, nel caso avesse continuato a bere. E qui, proprio in questo punto, abbiamo il nostro colpo di scena. Duff comprende, la sua vita svolta di colpo. Si ripulisce, e inizia un percorso di vita e di carriera completamente nuovo e, dati i presupposti, insperato. Crea diversi gruppi, suona con musicisti provenienti da mezzo continente, collabora con Stone Gossard, Scott Weiland, con gli Alice in Chains e i Janes’s Addiction. Nel mentre scrive libri, si dedica allo sport e alle arti marziali. Duff McKagan è nato due volte, e dopo la seconda ha una fame di vita insaziabile. 

Questa storia, unita a questo album, mi ha fatto arrivare a questo portico dove incontro virtualmente Duff McKagan. Mi sono accorto cosa legava l’immagine della vita di uomo a quella di un portico grazie a una reminiscenza, uno di quei collegamenti tra ricordi o neuroni che ti bloccano qualunque cosa tu stia facendo, riallineando l’universo e dando un senso, almeno a te che scrivi, a un articolo.

Baricco, in City, parla così del portico:

In definitiva – proseguì il prof. Bandini – quell’uomo e quel porch, insieme, costituiscono un’icona laica, eppure sacra, in cui si celebra il diritto dell’umano al possesso di un luogo suo proprio, sottratto all’indistinto essere del semplicemente esistente.
[…]
Tutta la condizione umana è riassunta in quell’immagine. Giacché esattamente questa appare la dislocazione destinale dell’uomo: essere di fronte al mondo, con alle spalle se stesso.

Quell’ultima frase è Tenderness. Quell’ultima frase è il senso del disco. Ma è anche la sua intenzione, la sua finalità, la sua fisicità.

Essere di fronte al mondo, con alle spalle se stesso è anche il “never look back” di Don’t look behind you, canzone che chiude l’album. La luce è davanti a te, stai su questo portico a suonare la chitarra, petto al mondo, spalle al passato. Il percorso compiuto da McKagan porta al rovesciamento di testi e visioni dei Guns. Dell’ira di gioventù, dell’intolleranza, del santificare le feste qui c’è poco. C’è piuttosto un osservare il mondo dai templa serena di Lucrezio, inteso come regno della conoscenza. Le esperienze hanno reso quest’uomo più forte e saggio, adesso è il momento di cantare del mondo con serena e consapevole spensieratezza.

Ecco allora Last September in cui si affronta il tema della violenza sulle donne, Parkland i cui viene trattato il dramma delle sparatorie nelle scuole e Feel, dedicata all’amico Chris Cornell, ma che, sono quasi sicuro, in fondo è per tutti gli amici persi durante il cammino, compreso quello Scott Weiland con cui ha condiviso il palco. In Feel si parla di ricordo, di amore, di rise up, e non è un caso che molto del vocabolario del disco peschi nell’immaginario springsteeniano. Del resto chi meglio e più di Springsteen ha cantato di redenzione e di resilienza? Le catene, che si spezzano, la strada come metafora tangibile del percorso verso il cambiamento. McKagan cita quasi letteralmente lo Springsteen di Darkness on the edge of town in un verso: l’originale I lost my money, I lost my wife, per Duff diventa lost my job, lost my wife, lost my way. Sempre climax verso l’inferno rimane, ma in entrambi i casi toccare il fondo è l’unico modo per battere i piedi e risalire.

Ma più che nel New Jersey, il nostro McKagan sciacqua i panni in quel di Nashville, grazie all’amico Shooter Jennings, che regala un impronta outlaw country all’intero album, che scivola via piacevolmente tra steel guitar, archi ariosi e inaspettati e sezioni di fiato degni di una big band. Il caleidoscopio dei riferimenti continua con i Rolling Stones (e quasi un primo Bowie) in Chip Away.

E’ un viaggio tra i ricordi e tra temi attuali, da cui trarre insegnamenti e massime (his mama didn’t rise a man), è un tracciato compiuto seguendo una mappa di cicatrici. Ma proprio le ferite passate sono i migliori insegnamenti, se adesso, ancora adesso, possiamo cantarne sorridendo sul portico. In fondo, quello che ci vuole, è solo un po’ più di Tenderness.

 

Duff McKagan

Tenderness

Universal Music Enterprises, 2019

 

Andrea Riscossa